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ALBERTINO MUSSATO
ANTONIO ZARDO
ALBERTINO MUSSATO
STUDIO STORICO E LETTERARIO
PADOVA
ANGELO DRAGHI LIBRAIO - EDITORE
1884
P4
Proprietà letteraria
775498,
Padova 1884, Tip. del Seminario.
PADOVA
DI CUI FU SOMMA GLORIA
ALBERTINO MUSSATO
CON AFFETTO FIGLIALE
L'AUTORE
AVVERTENZA
Di Albertino Mussato scrissero parecchi, cosi
italiani come stranieri ; ma nessuno con quella lar-
ghezza che un tale personaggio meriterebbe, ne con
quella esattezza che in lavoro di tal genere sarebbe
richiesta. La mancanza di documenti, molti de' quali
e importantissimi, furono pubblicati, in questi ultimi
anni, dal Gloria e dal Nevati, fece sì che anche i
migliori fossero costretti a ripetere i vecchi errori.
Io debbo alla squisita gentilezza del Gloria, so-
lerte ricercatore e dotto illustratore dei patrii ri-
cordi, se ho potuto correggere alcune date e chia-
rire alcuni punti oscuri della vita del grande Pa-
dovano. E poiché questi visse nell'epoca gloriosa
della padovana Repubblica, ed ebbe, sempre ani-
mato dal desiderio del bene di essa, tanta parte
nelle funeste vicende che ne cagionarono la rovina,
mi piacque ritessere largamente, dietro le scorte più
sicure e coll'aiuto dei documenti, quel tratto di sto-
ria padovana che corre dalla venuta di Enrico VII
in Italia al principio della Dominazione Carrarese
in Padova.
4
Le storie del Mussato stesso, confrontate colle
narrazioni dei cronisti suoi contemporanei, fra i
quali i^rimi i Cortusii, sono le fonti a cui attinsi
l^rincipalmente. Per ciò che riguarda i casi parti-
colari della vita di Albertino mi fornirono suffi-
cienti notizie le opere tutte di lui, la biografia che
ne scrisse Secco Polentone, quale fu pubblicata ul-
timamente dal Nevati, che la riprodusse da un co-
dice Ricciardiano, e i documenti messi in luce ed
illustrati dal Gloria, dal Rajna e da altri. Non ho
mancato, oltre a ciò, di consultare quanto di me-
glio fu scritto fino ai dì nostri sul Mussato e le
sue opere, e in modo speciale i lavori recenti dello
Zanella, del Dall'Acqua Giusti, del Toews, del
"Wychgram, del Friedensburg, lavori degni sopra
lutti gli altri di molta considerazione.
L'Autore
Capitolo Prlmo.
Incoronazione di Enrico VII di Lussemburgo in Milano — Con-
dizioni di Padova in quel tempo — Prima ambasceria del
Mussato all'Imperatore — Nascita di Albertino Mussato —
Sua paternità — Strettezze in cui ebbe a trovarsi dopo la
morte del padre — Diviene notaio — Sposa Mabilia, figlia
di Paolo Dente — Vien nominato cavaliere — Entra a far
parte del Consiglio della Repubblica — Sua ambasceria a
Papa Bonifazio Vili — Guelfismo di Padova — Costituzione
della Repubblica — Legge contro i chierici — Gualpertino
Mussato abate di Santa Giustina — Albertino esecutore
degli ordinamenti di giustizia in Firenze — Podestà di
Lendinara.
Nell'anno 1311 Enrico VII di Lussemburgo
cingeva in Milano la corona ferrea. Alla cere-
monia, ch'ebbe luogo il giorno 6 di gennaio nella
Chiesa di Sant'Ambrogio, assistevano gli amba-
sciatori di quasi tutte le città della Lombardia
e della Marca Trivigiana e Veronese, alle quali
l'Imperatore stesso aveva mandato l'invito. Pa-
dova, anch'essa, benché guelfa, più per onorare
l'Imperatore che per riconoscerne il dominio,
aveva eletto alcuni ambasciatori, perchè ren-
6 ALBERTINO MUSSATO
dessero più solenne colla loro presenza la regia
incoronazione ^).
Era Padova allora nel pieno suo fiore. Pv,etta
a repubblica, godeva, dalla caduta degli Ezzeli-
ni (1256), cioè da più di mezzo secolo, di una
pace non mai interrotta, che le aveva dato agio
di riacquistare la popolazione e le ricchezze ,
delle quali era stata spogliata dal crudele Ez-
zelino. Tra le città della Marca Trivigiana essa
era la prima. Signora di Vicenza, Rovigo, Len-
dinara, Badia era forte in armi, e perciò rispetta-
ta. La sua potenza invitava entro alle sue mura
i fuorusciti d'altre città, come ad asilo sicuro;
il suo Studio, che avea di già acquistato grande
riputazione, vi chiamava non pochi scolari non
solo dall'Italia, ma da tutta l'Europa. Non è
quindi meraviglia, s'essa, allorché il Vescovo
di Costanza le annunziò la prossima discesa in
Italia dell'Imperatore, non si sgomentò punto ;
avea troppa fiducia nelle sue forze, per credere
che altri potesse recare nocumento alla sua po-
tenza ~).
1) Albertini Mussati, Hisf. Ang. Lib. I. Rub. XII.
2) Licei ergo hcec nunciatio fuisset tremor omnibus
Lombardice, sola Paclua non ci'.ravit, sperans, quod
sua potentia non valeat aliquibus adversilatibus im-
mutari. Cortusii Lib. I. Gap. XI.
CAPITOLO PRIMO 7
Tra gii ambasciatori, che Padova inviò per
queir occasione a Milano, figura un uomo , il
quale, per l'altezza dell'ingegno e per le emi-
nenti virtù cittadine è, senza dubbio , uno dei
più grandi italiani del suo tempo. Storico, poe-
ta, oratore e soldato , Albertino Mussato ebbe
tanta parte nelle vicende di Padova a que' gior-
ni, che non è possibile parlare di lui, senza ri-
fare tutto quel tratto di storia padovana, che
corre dalla venuta in Italia di Arrigo VII alla
morte di Cangrande.
Colla venuta dell'Imperatore, le cose di Pa-
dova cominciarono a mutare ; di liete si volsero
in tristi ; alle dissensioni interne tennero dietro
le guerre al di fuori, ed a queste, con funesta
vicenda, nuove lotte intestine, finché la città
perdette il suo libero governo e fu assogget-
tata al potere di un solo.
Dal fondo oscuro degli avvenimenti di que'
giorni si stacca luminosa la figura del Mus-
sato che, provvido consigliere nei giorni della
prospera fortuna, non abbandonò nemmeno un
istante nell'avversa i suoi concittadini, anche
quando si opposero a' suoi assennati pareri.
Prode della lingua e del braccio, impiegò l'una
e l'altro a benefizio della patria ; ma la sua
eloquente parola rimase, pur troppo, inascol-
8 ALBERTINO MUSSATO
tata, e il suo braccio valoroso non bastò ad
impedire la rovina de' suoi. A tanti meriti egli
s'ebbe per ricompensa l'esiglio, nel quale fini
l'intemerata sua vita.
Nacque Albertino nell' autunno del 1 262
in San Daniele d'Abano, villaggio del Pado-
vano ^). Chi sia stato il vero suo padre è que-
1) Tutti i biografi del Mussato han detto e ripetuto,
esser egli nato in Padova nell'autunno del 1261, fon-
dando questa loro asserzione sui versi dell'elegia, che
egli scrisse intorno alla propria nascita: De celebra-
tione suce diei nativitatis fiencla vel non. In essa ci fa
sapere come nell'anno 1317, quando si pigiava l'uva,
cadesse il cinquantesimo sesto suo giorno natalizio :
Sexta dies htec est et quinquagesima nobis,
(Tempora narrabat si mihi vera parens)
Musta reconduntur vasis septemque decemque
Nunc nova post ortum mille trecenta Deum.
I biografi, invece, hanno interpretato erroneamente
che neirautunno del 1317 cadesse l'anno cinquantesimo
sesto dell'età sua. Primo il Gloria, nei Nuovi documenti
intorno ad Albertino Mussalo, pubblicati negli Atti del
E. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Tomo I
Serie VI, notò l'errore, nel quale egli stesso era incorso
in altri suoi scritti sul Mussato. «Credo, egli scrive, il
primo giorno natalizio di noi quello in cui siamo nati, e
reputo che affermando egli nella citata sua elegia essere
avvenuto nella vendemmia dell'anno 1317 il suo cinquan-
tesimo sesto giorno natalizio, si debba ammettere lui nato
nella vendemmia dell'anno 1262. E per venire a un ter-
mine più concreto laccio notai^e che, giusta il calenda-
rio giuliano, si computarono ogni anno undici minuti e
quindici secondi di più del tempo impiegato dal sole nel
CAPITOLO PRIMO 9
stione molto dibattuta. Gli scrittori antichi che
s'occuparono di lui, alcuni contemporanei al
Mussato, altri di poco posteriori, non sono d'ac-
fare l'annua sua evoluzione; che a correggere tale er-
rore si passò di balzo nell'anno 1582 dal 5 al 15 ottobre
giusta la riforma gregoriana, e che perciò la vendemmia
dev'essere avvenuta nell'anno 1262 otto giorni poco meno
dopo il tempo in cui avviene oggidì. E prendendo la me-
dia di questo tempo secondo le annate, e con riguardo
ai luoghi di colline, non di bassa pianura, parmi poter
dire che Albertino Mussato abbia avuto i natali verso il
principio dell'ottobre dell'anno 1262 secondo il computo
odierno, ovvero otto giorni dopo quel principio, secondo
il computo d'allora. »
Del luogo, poi, dove il Mussato ebbe i natali, scrive
lo stesso Gloria: « Riguardo al luogo della nascita di lui,
niuno finora mise in dubbio che sia nato tra le padovane
mura, e io stesso ho creduto sempre questo. Ma oggi
non posso affermarlo più. » A questo punto mi piace no-
tare come il prof. Luigi Busato, prima del Gloria, in un
suo dotto lavoro: Aponus (Abano) Scavi e Studi, pub-
blicato per la prima volta nella Rivista periodica dei
lavori della R. Accademia di scienze, lettere ed arti
in Padova, Trimestre primo e secondo del 1880-81
Voi. XXXI, abbia dimostrato esser nato Albertino in S.
Daniele di Abano, cioè in quella terra donde, come di-
ceva l'epitaflo che i padovani ponevano sulla tomba di
lui in S. Giustina, il Timavo trasportale acque pado-
vane al mare. Continua il Gloria: «L'epitaflo ora per-
duto, che in S. Giustina di Padova era stato apposto a
onore del nostro poeta reca, ch'egli fu partorito nella
terra da cui il Timavo partendo si avviava verso il mare:
Condita Trojugenis post diruta Pergama tellus
In mare fert Patavas unde Timavus aquas,
Hunc "enuit vatem.
10 ALBERTINO MUSSATO
cordo SU questo punto. Chi lo vuol figlio di
Viviano dal Musso, chi di Giovanni Cavalerio.
I più lo fanno figlio illegittimo del primo ; ma
anche costoro, alla lor volta, sono discordi nel-
r indicare la causa di questa illegittimità ed i
rapporti che tenevano legato Albertino col Ca-
valerio.
Nei varii documenti che possediamo del Mus-
sato, non pochi de' quali e importantissimi fu-
rono messi in luce dal prof. Gloria, il Nostro
è nominato costantemente Albertino Musso o
Mussato del fu Giovanni Cavalerio; in taluni
vi è aggiunta la indicazione di notaio^ di sto-
riografo, di poeta. In una carta notarile del
10 ottobre 1282, il Mussato stesso si sotto-
Ormai è dimostrato che gli antichi appellarono li-
mavo Euganeo le stesse acque termali di Abano, le quali
scaturiscono dal clivo chiamato Montirone e unendosi
costituiscono il lìumicello detto Rio Caldo, ch'era molto
abbondoso di quelle acque ai tempi romani. Il Montirone
sorge ai confini del tenere di S. Daniele d'Abano, appel-
lato anticamente Moutaone. Anzi un documento dell'anno
1304 pone in quel tenere il molino che oggi sta a' piedi
del Montirone ed ò condotto dalle stesse acque termali,
le quali unite nel Rio Caldo traversano, per avviarsi al
mare, il tenere medesimo.
Dunque emei'ge chiaro, mi sembra, che questo te-
nere, cioè il villaggio di S. Daniele d'Abano, sia la terra
indicata dall'epitatio predetto e quella che partorì il no-
stro poeta. »
CAPITOLO PRIMO 11
scrive: Io Albertino Musso notaio figlio di Gio-
vanni Cavalerio precone del sacro palazzo ').
Questo documento merita speciale attenzione ,
poiché ci fa sapere come nel 1282, cioè quando
il Mussato aveva vent'anni, il Cavalerio fosse
ancor vivo.
Ma quale dei due che abbiamo nominati fu
il vero padre di Albertino? Giambono d'Andrea
dei Favafoschi, coetaneo al Nostro , dice che
fu Giovanni Cavalerio precone, morto nel 1300,
e che Albertino diede, pel primo, lustro alla
sua famiglia. Un anonimo aggiunse più tardi,
nella cronaca del Favafoschi, al nome di Gio-
vanni Cavalerio le parole «abbastanza ricco»
{satis dives) ~). Secco Polentone, vissuto nel se-
colo decimoquinto, contrariamente al Favafo-
schi, in un'aggiunta alla cronaca di questo, dice
che il padre di Albertino fu Viviano dal Mus-
so, il quale, oltre che di Albertino, fu padre
dei frateUi di lui Gualpertino, che fu poi Aba-
te di S. Giustina, e Pietro Buono, che fu no-
taio.
1) Vedi: Appendice Dee. I. Esso è tratto dai Bocu-
meyitiineditiintorno a Francesco Petrarca e Albertino
Mussato raccolti dal Prof. Andrea Gloria. Estr. dal Voi.
VI. Ser. V degli Atti del R. Istituto veneto di scienze,
lettere ed arti, Venezia 1879.
2) Gloria op. cif. Doc. XIX.
12 ALBERTINO MUSSATO
Morto Viviano, quando i figli erano ancor
tenerelli, questi vennero accolti da Giovanni
Cavalerio, la cui moglie era stata balia ad Al-
bertino. A questo il Cavalerio lasciò, morendo,
i propri beni. Né la nobiltà dei Mussato co-
mincia con Albertino ; i suoi antenati , che si
cognominavano dal Musso, erano stati investiti
d' un feudo dal Vescovo di Padova fino dal-
l'anno 1111 '): «Paolo Dente, soggiunge inol-
tre il Polentone, uomo magnifico e potente non
avrebbe data la propria figlia legittima con pin-
gue dote ad Albertino, se questi non fosse stato
di nobile e antichissima famiglia, come si sa
dall' istrumento della dote, ch'io stesso vidi e
lessi -) » .
Ma questa figlia di Paolo Dente che il Po-
lentone chiama legittima è detta, per lo con-
trario, illegittima in un altro documento di Gio-
vanni da Naone o da Nono, il quale si mostra
nemico acerrimo del Mussato ^).
1) Ciò accadde invece, secondo un documento (n.° 213)
pubblicato dal Gloria nei suo Codice diplomatico, nel-
l'anno 1130.
2) Gloria op. cit. Doc. XX.
3) Tra l'altro male che dice del Mussato, vorrebbe
far credere malignamente che abbia usurpato l'incoro-
nazione e che siasi appropriato un libro composto da
Giambone d'Andrea, dopo che questi fu morto. 11 docu-
CAPITOLO PRIMO 13
Il da Naone la fa inoltre figlia di Gugliel-
mo e non di Paolo Dente. Parlando poi dell'ori-
gine del Mussato, lo dice figlio di Viviano dal
Musso, mentre ritiene figli legittimi del Cava-
lerio, Gualpertino e Pietro Buono. Per provare
la illegittimità di Albertino, racconta una sto-
riella, riprodotta anche dal Gloria, che la dice
narrata da un cronista anonimo, posteriore al
Mussato, nel supplemento che fece alla cronaca
del Cortellerio. Narra, cioè, come Giovanni Ca-
valerio si sia nascosto sotto il letto della mo-
glie, oppressa da grave malattia, mentre si con-
fessava ad un sacerdote di S. Giacomo, ed ab-
bia udito dalla bocca di lei, che Albertino era
figlio di Viviano dal Musso. Partito il sacer-
dote, Giovanni trascinò la moglie pei piedi fuori
del letto si che n'ebbe a morire ^). In altro
mento che, segnato col n° II, io credo opportuno ripro-
durre con altri in Appendice al mio libro, è tratto dal
Liber de generatione aliquorum civiuni urbis Paduce,
■ tamnobiliuììi quam igìiobiliumàì Johannes de progenie
dominorwn a Naone. Esso fu già riprodotto da P. Rajna
in appendice a un suo scritto: Le origini delle famiglie
Padovane e gli eroi dei romanzi cavallereschi, pubbli-
cato nella Romania 4^ année 1875.
1) La stessa storiella narra il Tiraboschi in una nota
al Gap. VI. Lib. II della sua Storia della letteratura
italiana. La dice di Giovanni Buono Moto, del quale -
cosi il Tiraboschi - conservasi presso il sig. Giovanni Ro-
14 ALBERTINO MUSSATO
documento pubblicato dal Gloria, lo slesso Gio-
vanni « attesta che i dal Musso furono in ori-
gine barcaiuoli e mugnai ; che Viviano dal Mus-
so sposò una signora del villaggio di Ottavo^
ch'egli (Giovanni) vide poi crocefissa per ere-
sia ; ch'essa partorì Gualpertino, Nicolò e Vi-
viano, quest'ultimo postumo al padre, ai quali
lasciò molti terreni nella villa di Ottavo ; e che
Albertino Mussato assunse nel proprio stem-
ma l'asinelio figurato nello stemma della detta
famiglia dal Musso ^)».
Finalmente un cronista anonimo del secolo
decimoquinto dice Albertino figlio di un mu-
gnaio ; ma poiché soggiunge aver ciò riferito
berto Pappafava una Storia m. s. delle Famiglie di Pa-
dova. Il Buono Moto dice inoltre che Albertino ebbe in
sua moglie Mabilia figlia naturale di Guglielmo Dente.
Il Colle nella sua Notizia della vita e degli scritti di
A. Mussato pubblicata nelle Memorie delV Accademia
di Padova, anno 1809, cita un Giovanni Bono, di poco
posteriore al Mussato, che scrisse un supplemento alle
famiglie padovane del Cortellerio. Questo Giovanni Bono
narra egli pure la storiella dell'infedeltà della moglie di
Gio. Cavalerio, ed asserisce che Albertino sposò Mabilia
figlia naturale di Guglielmo Dente. È chiaro che Tano-
nimo citato dal Gloria, il Buono Moto del Tiraboschi, il
Bono del Colle e il da Naone non sono che una sola,
identica persona. Il Liber de generatione ecc. secondo
il Rajna non può essere nò anteriore al 1325, nò poste-
riore al 1328.
1) Gloria op. cit. pag. 13 e Doc. XVIII.
CAPITOLO PRIMO 15
Albertino stesso nella sua storia, l'asserzione,
come vedremo, non ha alcun valore.
Da tutto questo arruffio di notizie, la più
parte discordanti Tuna dall'altra, che cos'è
che noi possiamo dedurre di certo ?
Il Gloria, appoggiandosi, oltre ai citati, ad
altri documenti che esistono nella Biblioteca
del Seminario vescovile di Padova, tra i quali
uno da cui emerge che Viviano dal Musso mori
nella fine del 1276 o nel principio del 1277,
quando cioè Albertino aveva quattordici anni,
conchiude, che Albertino, Gualpertino e Pietro
Buono, i quali tutti si cognominavano Mussato
nel tempo stesso che si diceano figli di Gio-
vanni Cavalerio, siano stati figli illegittimi di
Viviano dal Musso ^), che morto questi, senza
aver provveduto al loro sostentamento, Giovanni
Cavalerio li abbia accolti in sua casa, forse ad
istanza della moglie, già balia di Albertino, e
ch'essi l'abbian chiamato padre, tanto più che
egli, morendo, lasciava Albertino erede di tutti
i suoi averi.
1) Certo per questa ragione, cioè per essere stato fi-
glio illegittimo, Albertino si chiama, nelle sue Storie,
plebeo; (Vedi Hist. Aug. Lib. II, Rub. VII.) quantunque
i Mussato fossero di nobile e antichissima famiglia, come
asserisce Secco Polentone.
16 ALBERTINO MUSSATO
Ciò comprova il vedere in alcuni documenti
premesso al cognome Mussato la voce detto, la
quale non si legge mai allorché è nominato
l'uno l'altro dei figli di Viviano , e V esser
questi morto quando Albertino aveva circa quat-
tordici anni, il che s'accorda con le parole del
poeta stesso, che dice defunto suo padre quan-
d'egli non era ancor pubere.
Il fatto poi che Albertino si chiamasse Mus-
sato, vivente il Cavalerio, dimostra ad evidenza,
come la infedeltà della moglie di questo sia una
pretta invenzione di alcuni cronisti. Giovanni Ca-
valerio, come osserva il Gloria, non avrebbe tol-
lerato quel cognome (Mussato) , né fatto suo
unico erede il frutto dell'adulterio della mo-
glie.
In quanto poi all'esser stato Albertino figlio
di un mugnaio, come il cronista anonimo dice
risultare dalla Storia stessa del Nostro, basta
osservare che di ciò il Mussato non fa mai pa-
rola ; egli dice soltanto di aver posseduto un
mulino.
Molti biografi del Mussato, male interpre-
tando alcuni versi di lui, hanno asserito aver
egli sortito i natali da povera famiglia ; men-
tre, se, come abbiamo dimostrato, fu figlio di
Viviano dal Musso, uomo dovizioso, ciò non
CAPITOLO PRIMO 17
può essere. Egli divenne bensì povero dopo la
morte del padre, che mori intestato, senza quin-
di aver provveduto ai suoi figli illegittimi ^).
1) Ecco i versi del Mussato:
Editus in lucem mundi contagia Aevi,
Inque statu natus pauperiore fui.
Esse miser didici teneris infantulus annis.
Cuique miser tribui vix elementa pater.
(Elegia I)
«Questi versi- osserva il Gloria -non sono stati fi-
nora intesi bene dagli scrittori. Ei significò, mi pare,
che venuto al mondo ebbe a piangere i contatti o con-
nubii illegittimi; che per questi ei nacque in una delle
più misere condizioni ; che imparò ad essere infelice ne'
suoi più teneri anni ; e che a lui fanciullo potè l'infelice
padre porgere appena i primi rudimenti del sapere. » E
più innanzi : « Egli, a mio vedere, oltreché dinotò col
vocabolo contagia i connubii illegittimi, e perciò quello,
da cui ebbe i natali, non esjDresse con le parole miser
pater un padre indigente, ciò che innnaginarono taluni.
Anche noi, parlando dei nostri genitori che furono, di-
ciamo il povero ìnio padre, la povera mia madre, av-
vegnaché morti ricchi. E dopo ciò miser significa sven-
turato, non mendico, e forse il poeta usò quelPaddiet-
tivo, avendo avuto Viviano dal Musso morte miseranda,
quale sarebbe la istantanea, di che è indizio che egli
ricco non abbia provveduto con testamento al vivere
della sua illegittima prole. E quindi non m'accordo nem-
meno con quelli, che facendo dire al poeta ciò che non
ha detto, vogliono, per far credere la mendicità del pa-
dre, sostituire il vocabolo alimenta a quello elementa
recato dal testo. Il Mussato significò, penso, che da suo
padre, morto troppo presto, non ebbe che i primi rudi-
menti elementi del sapere, che gli servirono poi a far
da copista agli scolari. Anche Orazio scrisse: Hoc quo-
2
i8 ALBERTINO MUSSATO
Viviano cessò di vivere prima che Albertino
avesse raggiunto la pubertà ^), ed essendo que-
que te manet, ut pueros elementa docentem — Occupet
extremis invicis balba senectus (J^^'\&\,. 20, 17)» Op. cit.
1) Ciò è dimostrato ad evidenza dal Gloria nell'opu-
scolo citato; ma non ne fu persuaso il signor Dietrico
Kònig, il quale in un suo scritto: Ueber die Herkunft
des Albertino Mussato giudicò Albertino non già figlio
illegittimo di Viviano dal Musso, ma figlio illegittimo di
Giovanni Cavalerio, male interpretando le parole del Fa-
vafoschi e sostenendo l'ipotesi che Albertino nell'auto-
grafo 10 ottobre 1282, da noi citato, abbia omesso per
trascuratezza l'avverbio quondaìn innanzi al nome di
Giovanni Cavalerio suo padre. Per combinare poi l'auto-
grafo con ciò che scrive il poeta nell'elegia I: Quam fie-
rem pubes, sic pater ante fui, il Kònig fa l'altra sup-
posizione che il Cavalerio sia morto nell'anno 1275. Il
Gloria rispose vittoriosamente, con un nuovo scritto, alle
mal fondate supposizioni del Kònig, pubblicando dei nuovi
documenti intorno al Mussato.
Il Wychgram, nella sua dotta monografia: Albertino
Mussato - Ein Beitrag zur italienischen Geschichte des
vlerzehnten lahrhunderts - Leipzig, ISSO, nota come il
Cavalerio sia morto prima del 1282. Di questo errore egli
va compatito, poiché non conosceva il documento pub-
blicato più tardi dal Gloria, il quale nella risposta al
Kònig inclinerebbe a credere che il Cavalerio fosse an-
cor vivo nel 1294. Secco Polentone nella biografia che
scrisse del Mussato, e che il Muratori riprodusse dal Co-
dice Ambrosiano come prefazione alla Historia Augu-
sta, {Rerum Italicarum Scriptores X) mentre tace
della illegittimità di Albertino, dice che gli moriva il
padre, quand'egli aveva ventun'anno. Ammesso che tal
padre, com'è evidente, sia il Cavalerio, questi sarebbe
morto nel 1283, il che non contraddirebbe punto al do-
cumento IO ottobre 1282.
CAPITOLO PRIMO 19
sti il maggiore, dovette far le veci di pa-
dre a due fratelli e ad una sorella come ci
Di recente il signor F. Novati in un suo importante '
scritto: La biografia di Albertino Mussato nel de scri-
PTORiBUS iLLUSTRiBus di Secco Polentone, pubblicato
neW Archivio Storico per Trieste, l'Istria e il Tren-
tino Voi. II, fascicolo I gennaio 1883, riprodusse dal
codice Rieciardiano una nuova copia della biografia
scritta dal Secco, diversa in molti punti dall'altra; vi
sono cose meno importanti taciute, altre più notevoli
aggiunte. In essa fra l'altre è detto che Albertino alla
morte di suo padre aveva venti anni ; il che non toglie
che nel 10 ottobre 1882 il Cavalerio fosse ancor vivo.
Fa meraviglia tuttavia che il Novati, dotto e giudizioso
com'è, dopo aver riportato le parole del Tiraboschi:
« Par dunque falso che gli morisse il padre mentre con-
tava ventun'anni di vita, come dice il Polentone, per-
ciocché non direbbe Albertino ch'era divenuto padre pri-
ma di giungere alla pubertà;» osservi: «che però
Albertino avesse alla morte di suo padre ventun'anni
(o venti, secondo il R.) con tutto il rispetto per l'auto-
rità del Tiraboschi, parmi sia lecito il crederlo, senza
andar contro la testimonianza del Mussato medesimo,
il quale poeticamente scrivendo e per non perder l'oc-
casione di dire un' arguzia (!) può aver sacrificato un
pochino la verità ed affermato di esser divenuto pa-
dre ancora impubere. » Pare che il Novati non sospetti
nemmeno che abbia esistito Viviano dal Musso, e che
questi possa esser stato padre, benché illegittimo, di
Albertino! Egli anzi è tanto lontano dal creder questo
che, dopo avere in una nota al suo articolo, manifestato
il sospetto che Cavalerius non sia che la traduzione della
parola italiana Cavallaro, dal da Naone barbaramente
latinizzata, (Cavallaro infatti - so n sue parole - diceasi
anticamente per corriere: e in questo caso meglio che
il prceco, aggiunto dal da Naone a dinotar la professione
20 ALBERTINO MUSSATO
fa sapere egli stesso nella sua prima ele-
gia ^).
di Giovanni, servirebbe il vialor usato dal Secco) sog-
giunge : « Osservo inoltre che accettando questa opi-
nione si avrebbe forse mezzo d'intender meglio l'origine
del nome Mussatus, che probabilmente vien da ìnusso
(asino nei dialetti veneti): ed un asino infatti portava
Albertino nel suo scudo. » Si vegga a qual razza di con-
clusioni possa condurre una ipotesi mal fondata I Poiché
avrò occasione di riportarmi più volte nel mio lavoro
alla biografia del codice Ricciardiano, stimo opportuno
riprodurla in Appendice sotto il n.° III. Il Gloria final-
mente a sciogliere la questione che Albertino non ori-
ginò dal sangue dei Cavalerio, ma da quello dei Musso
Mussato cita la iscrizione che Albertino stesso compilò
a onore dell'abate Gualpertino suo fratello, pel trasferi-
mento delle reliquie di S. Luca nella Chiesa di S. Giu-
stina, iscrizione che si vede ancora in Padova all'arca
di S. Luca, nella chiesa di quella santa, e che si legge
pure tra i frammenti delle opere del Nostro. Dice schiet-
tamente quell'iscrizione che quell'abate Gualpertino, a
guisa che il nostro poeta suo fratello, discendeva dalla
famiglia dei Mussato
, abbas,
Gratia cui fratrem tribuit divina poetam,
Atque pios mores et sacras noscere leges,
Mussatosque dedit claro cognomina cives
Urbis honoratos patavime sanguine junctos.
1) Bina mihi fratrum series ad.juncta sorori.
Et tamen illorum de grege major eram.
His pater, ut major, patris post fata relinquor:
Le sette sorelle attribuite dal Polentone al Mussato,
secondo il codice Ambrosiano, sono un errore. Il Nevati
in nota all'articolo citato, scrive: « per inavvertenza
o per strano errore di lettura, il Muratori o altri, se
CAPITOLO PRIMO 21
Nelle strettezze in cui lo aveva lasciato la
morte del padre, Albertino provvedeva a sé ed
a' suoi, copiando libri per gli scolari del pub-
blico Studio, fatica dalla quale ritraeva uno
scarso guadagno ^). Più tardi, eruditosi, per la
sua stessa occupazione, nella legge, divenne no-
altri copiò per lui il brano dal codice Ambrosiano, tra-
scrisse sorore septem per septenni e lo corresse soro-
ribus septem. y> 11 codice Ricciardino ha sorore septene
che il Nevati corresse in septenni. V. Appendice, Doc. 111.
1) Parva mihi vietu prcebebant lucra Scholares,
Venalisque mea littera facta maiiu.
(Elegia D
Il Colle nella Memoria citata scrive: «Incontrasi ne-
gli antichissimi statuti della città e nei monumenti di
questo Studio (di Padova) un uffizio pubblico di copista
di libri ad uso delle scuole, col titolo di esemplare e
stazionario coU'aunuo salario di lire sessanta, al qual
uffìzio per le scuole di legge fu destinato nel 1275 dai
Rettori dello Studio un certo Pietro; e si può sostenere
che a quel Pietro succedesse il Mussato, o che l'ufiìzio
medesimo vi sostenesse contemporaneamente per le scuo-
le delle Arti, provvedute esse pure del loro copista, lo
che sembra indicato da Gio. Bono nel suo manoscritto.»
Secondo Gio. da Kaone, il Mussato fuit repetitor sco-
larium, eosque per scolas padiianas mìttebat, qui ca-
iones scribebat vendendo. Vedi Appendice Doc. IL Osser-
va il Novati : « La curiosa frase del da Naone scribebat
catones dee intendersi così, che Albertino ricopiava pre-
cipuamente libri scolastici: ora, com'è noto, fra i libri
singolarmente adoperati per l'istruzione dei fanciulli in
tutto il medioevo, stanno i noti versi morali attribuiti a
Catone l'antico, e che sono invece di Dionisio Catone,
lìorito il 160 dopo C. »
22 ALBERTINO MUSSATO
taio e trattò le cause nel foro ^), essendo al-
lora i notai addetti anche agli uffici forensi, e
venne in tanta fama che Paolo Dente, ricchis-
simo cittadino, gli diede in isposa la propria
figlia Mabiha -). A trentacinque anni, fa fatto
cavaliere, e chiamato a far parte del pubblico
Consiglio, che si componeva allora di mille cit-
tadini ^j. Era del resto naturale che un inge-
gno come il suo si aprisse per tempo, non ostan-
te le difficoltà gravissime ch'ebbe a superare
dapprincipio, la via agli onori. Oratore e poe-
1) Ad bona fortunse veni labentibus annis,
Yelaque sunt magno tunc mea tenta mari.
Transtulit ad causas Invenem sors prima forenses,
Et me verbosi mersit in ora fori.
(Eleg. cit.)
-) Che fosse o no legittima non è dato precisare. Il
Polentone, nella citata aggiunta alla cronaca del Fava-
foschi, dice ch'essa fu legittima. Che sia poi stata figlia
di Paolo Dente, come vuole il Polentone, e non di Gu-
glielmo, come asserisce il da Naone (V. Appendice Doc.
II e 111) è cosa evidente. Guglielmo infatti fu ucciso nel
1325, quando cioè Albertino contava 63 anni, e se fu uc-
ciso, come vedremo, in causa di un amorazzo, non si può
credere che fosse troppo vecchio. Albertino inoltre prese
moglie ancor giovane, per cui non ò possibile che abbia
avuto a suocero Guglielmo Dente.
3) Nostra per ambages jetas me transtulit illas.
Integra vix septem dura mihi lustra forent.
His raptus jam factus Eques loca celsa Senatus
Sortitus, me sic sorte ferente, fui.
(Eleg. cit.)
CAPITOLO PRIMO 23
ta, egli attirò a sé, ben presto, gli sguardi dei
suoi concittadini. Le condizioni della sua città
natale erano le più favorevoli a sviluppare la
sua attitudine alla eloquenza, la quale, come
avviene sempre nei governi liberi, facendolo co-
noscere al popolo, gli procacciò favore.
Dal momento che occupa un seggio nel pub-
blico Consiglio, egli diviene l'uomo principale
di Padova; non c'è avvenimento nella storia
padovana dei primi venticinque anni del secolo
decimoquarto, in cui egli non abbia parte gran-
dissima.
E gli avvenimenti, in quel primo quarto di
secolo, si tennero dietro 1' un T altro a danno
della città, la quale aveva, per lo innanzi, go-
duto d'un lungo periodo di pace.
Poco dopo che Albertino entrò nella vita pub-
blica, noi vediamo le cose di Padova grande-
mente mutarsi, e la pace dar luogo a guerre
lunghe e feroci. Per ritardare la rovina della
città, non ci voleva che l'ingegno ed il cuore
del Mussato, il quale parve, in più circostanze,
mandato dalla Provvidenza. Ma se valse a ri-
tardare, non potè impedire la rovina della cara
sua patria; cotanto gli animi erano agitati dalla
discordia I È grandemente probabile che se i
Padovani si fossero fin da principio attenuti
24 ALBERTINO MUSSATO
a' suoi saggi consigli, la potenza della loro città
non sarebbe tramontata si presto. Ma la sua
fu voce di chi predica al deserto ; che se spesso
nei momenti diffìcili ebbe il plauso della mol-
titudine, che vedeva in lui 1" unico atto a sal-
varla dalle imminenti sciagure, fu spesso ezian-
dio fatto segno all'iniquo furore della plebe ^).
Pel dono singolare ch'egli aveva dell'eloquen-
za, lo vediamo spesso adoperato da' suoi con-
cittadini nelle pubbliche ambascerie, e primie-
.ramente fu ambasciatore a papa Bonifazio Vili.
Ce lo fa sapere egli stesso neW Invettiva con-
tro la plebe pìO'dovana, nella quale volgendo
il discorso ai tribuni della plebe, agli artieri,
ai capi della Repubblica, dice, alludendo a sé :
« Non parlo a quella turba ignava ed infesta
che non accolse colui che seppe rendere verso
di sé placato e munilico papa Bonifazio ^ III,
uomo ai nostri giorni formidabile al mondo ") » .
1) Ssepe fluens in me populi gauientis abuude
Ingruit impensus trans mea vota favor:
Ssepe ruens in me vulgi clamantis inique
Invaiai t properaas in mea damna furor.
(Eleg. cit.)
-) yon eam ignavam Inrbam adloquor, quce eum,
qui Bonifaciinn i^apam ootavum, virum nostri tempo-
ris mi'.ndo formidabilem, sibi placabilem ac munifi-
citm.... ejfecit non accepit.
De Gestis Italicorum post Henricum VII. Ccesareni
Lib. IV. Rub. II.
CAPITOLO PRIMO 25
Il Mussato non dice in quale anno né perchè
sia stato mandato ambasciatore a Bonifazio.
Pare tuttavia che in quell'occasione egli abbia
chiesta al Papa ed ottenuta pel fratello Gual-
pertino l'Abazia di Santa Giustina. Secondo il
Gennari, Gualpertino sarebbe stato abate di
Santa Giustina circa il 1297 ^j, per cui veri-
similmente, come nota pure il Wychgram -), Al-
bertino sarebbe stato mandato a Roma per rac-
comandare al Papa la composizione delle lotte
fra Azzo d'Este e Bologna, alle quali pren-
deva parte anche Padova. Secondo il Cavacio,
invece, Gualpertino sarebbe stato nominato aba-
te nel principio del secolo decimoquarto ^). Se
fu cosi, è molto probabile, come pare anche al
Colle ^), che il Mussato sia stato ambasciatore
a Bonifazio nel gennaio del 1302, insieme col
vescovo Ottobono e con altri, per frenai'e gli
abusi dell'Inquisizione esercitata dai frati mi-
nori.
Non è a credere che Padova, benché guelfa,
lasciasse che preti e frati spadroneggiassero
a loro talento. Tutt'altro ! Il popolo italiano
1) Vedi Annali di Padova — Parte terza.
~) Pag. 4 del libro cit.
3) Cavacium, Histor. Coenob. D. lustince Lib. III.
4) 3Ieìn. cit.
26 ALBERTINO MUSSATO
preferiva generalmente il partito guelfo, «non
già nel senso di volere im Papato imperiale,
ma nel senso d'amare un Papato spirituale,
come necessario e benefico ancora nella vita
presente ^) » . Il popolo padovano poi nella cui
memoria erano ancor vive le atrocità di Ezze-
lino, vicario imperiale, aveva una speciale ra-
gione per essere guelfo, Padova tuttavia, come
avverte giustamente il De Leva, «non riteneva
del gueltìsmo che il bene del reggimento a po-
polo, ma costituito per modo che vi potessero
avere grado e voce i più valenti ed autore-
voli *)». La Repubblica era rappresentata dal
Podestà, supremo magistrato esecutivo: c'era
inoltre un consiglio minore di sessanta pubblici
officiali, ed uno maggiore composto, come di-
cemmo, di mille cittadini ^). Il popolo costituiva
un'associazione politica detta comunanza od an-
che coiiiune del ])opolo. Ad essa presiedevano
gli Anziani, coadiuvati da un consiglio minore
1) Baldassare Labanca — Marsilio da Padova, rifor-
matore politiGO e religioso del secolo XIV, Padova 1882.
pag. 96.
2) Dante e Padova, Studi storico-critici — Padova
1865, pag. 244.
3) Fu sollevato a tal numero nel 1277 ; prima era di
soli seicento cittadini.
CAPITOLO PRIMO 27
di quaranta, da imo maggiore di duecento e
finalmente dall' assemblea generale di tutti i
soci. Gli Anziani sostenevano gli interessi del
popolo nei consigli del comune e presso il po-
destcà, del quale divennero in breve gli ordi-
nari consiglieri nelle cose quotidiane ^).
Che ai chierici poi non si lasciasse troppo
libero il freno, lo provano le leggi del 1274,
per le quali essi venivano obbligati a pagare
le imposte e a sottostare, se rei di qualche de-
litto, alle pene minacciate a tutti gii altri cit-
tadini. Una volta s'andò perfino all'esagerazione
contro gli ecclesiastici^ esagerazione provocata
dal contegno poco edificante di alcuni di loro :
chiunque avesse ucciso un prete non veniva
multato che di un solo grosso (32 denari pic-
coli). La città per questa ordinazione (1282)
s'ebbe da Papa Nicolò IV la scomunica. Cio-
nonostante il decreto contro i chierici non fu
revocato che nel 1289 per interposizione di
frate Bonaventura dell'ordine dei minori ^).
1) Vedi: Gloria, Statuti del Comune di Padova dal
secolo XII all'anno 1285, ed Antonio Fertile , Degli
ordinamenti politici ed amministrativi della città di
Padova nel secolo XIII. Annuario della R. Università
degli studi di Padova per l'anno scolastico 1882-83.
2) Vedi: Gloria, Controversie fra- il Clero ed il Co-
mune di Padova nel secolo XIII ecc. Padova, 1855.
28 ALBERTINO MUSSATO
La stessa ripetuta difesa che Padova fece
di Pietro d'Abano, morto nel 1315, contro le
accuse dell' Inquisizione , mostra com' essa non
si lasciasse menomamente imporre dagli eccle-
siastici ^).
Ma, per tornare a Gualpertino, non sembra che
questi fosse uomo di rigorosi costumi, né fatto
certamente per la vita monastica. Anche senza
tener calcolo delle gravi accuse che gli sca-
glia contro il da Naone, secondo il quale avrebbe
avvelenato un Tobia priore del monastero di
S. Paolo, ottenuta l'Abazia di S. Giustina per
simonia, ucciso due monaci ed avuto più fi-
gli -) ; le stesse parole di Albertino bastano a
1) Per ciò che riguaixla questo grande Padovano,
vedi: Ronzoni, Della vita e delle opere di Pietro d'A-
bano, Roma 1878.
2) Vedi: Appendice, Documento IL
Il Colle cita le stesse accuse contro Gualpertino, at-
tribuendole a Giovanni Bono, e dice che il Cavacio, che
lo ril'erisce, non trovò nel ricchissimo archivio del suo
monastero alcun documento, giacché è costretto ad af-
lidarne la verità all'unica fede di Giovanni Bono. Che
Gualpertino avesse figli illegittimi attestano anche i Cor-
tusii, laddove registrano i nomi di coloro che furono ban-
diti dopo r uccisione di Guglielmo Dente : Post civile bel-
lum Abbas Sanctce Justince fraler Mussati poetm op-
imgnatus ad locum sicwn clam fugit, qui. spollaio a
Tlieotonicis loco sacro, fuit cnm duobus filiis spuriis
forbannilus. Lib. 111. Gap. VI.
CAPITOLO PRIMO 29
convincerne come sarebbe riuscito miglior sol-
dato che monaco. Albertino, infatti, nella ci-
tata Invettiva contro la plebe padovana, ci fa
sapere come il fratello abate abbia consumato,
per tutto il tempo della guerra, (contro Can-
grande) gii inverni e le estati in diurne e not-
turne vigilie sotto l'armatura, insieme con la
turba dei soldati ; come spesso abbia messi in
fuga dalle mura i nemici inseguendoli audace-
mente; come abbia provveduto, secondo il co-
stume dei laici, nelle adunanze dei cittadini, al
bene della città, deposto Tabito e quasi dimen-
tico, per amor della patria, della canonica di-
sciplina ^).
. Narra il Polentone che la fama del Mussato
usci ben presto dai confini della sua terra, e
che fu chiamato a Firenze, libera e potente
città d'Italia, quale esecutore degli ordinameìiti
di giustizia'), carica importantissima, alla quale
J) Qui pei' totius belli tempora hijemes cesUisque,
diurnis nocturnisque vigiliis sub casside cmn militmn,
pedihmique caterva consumpserat? Qui hostes a moe-
niis veluti furiosa persmpe insecutione fugaverat, Urbi
consultans, laicali more, in Civium conventibus, misso
liabilu, fereque oblitus canoniccQ amore liatriw disci-
plincB? —De Gestis Hai. post Henricum ecc. Lib. IV.
Rub. II.
2j Vedi: Appendice Dee. II. e III.
30 ALBERTI>'0 MUSSATO
venivano nominati anche i forastieri. Il Novali,
nel citato articolo sul Mussato, riproduce un
documento tratto dal R. Archivio di Stato in
Firenze, indice Strozziano, dal quale si rileva
che Albertino fu in Firenze fra gli esecu-
tori degli ordinamenti di giustizia per un se-
mestre decorrente dal primo aprile 1309 ^). Il
Wychgram poi ci fa sapere come nell'Archivio
fiorentino sia conservata una sentenza, nella
quale Albertino ]\russato di Padova comanda,
come esecutore degli ordinamenti di giustizia,
che sette pennonieri della lega di S, Donato
in Foce, i quali avevano gridato: raoia il i^o-
1) Offlciales forenses Civ. Fior., e. i9 : <s.D. Alber-
Unus Musciattus de Padua pì^o semestre incepto pri-
oìio aprilis 1309, ind. 7 . L'anno preciso in cui Alber-
tino ebbe questa carica era fino ad oggi ignorato. È falsa
pertanto la supposizione del Friedensburg, che il Mus-
sato l'abbia occupata dopo la morte di Enrico VII: Denn-
wenn gleicli seine Verwaltung des Amtes eines esecu-
tore degli ordinamenti della giustizia zu Florenz mò-
glicherweise erst in die Zeit nacli dem Tode Heinrichs
VII zu setzen istecc. {Zur Kritik der Hi storia Augusta
des Albertino Mussato nelle Forscìiungen zur Deutschen
Geschichte XXIII, 1 pag. 46. Gòttingen 1882.
Lo stesso Novati dà notizia di un altro sconosciuto
documento riguardante Albertino Mussato, dov'è pure
ricordato Antonio da Tempo padovano, l'espositore in
lingua latina delle regole della poetica volgare. È tratto
anch'esso dal R. Archivio di Stato in Firenze. Farmi
prezzo dell'opera il riprodurlo in Appendice sotto il n.IV.
CAPITOLO PRIMO 31
j^olo fiorentino ed e vv ivano i cp'cm eh sia.no im-
piccati come rei di tradimento.
Secondo il Bronziero, sull'autorità di Vi-
viano Fantoni, il Mussato sarebbe stato inoltre
Podestà di Lendinara « a' tempi che il Comune
di Padova era padrone di questa terra ^)».
1) Historia delle origini e condizioni principali del
Polesine di Rovigo di Giangirolamo Bronziero.
Vedi inoltre Appendice. Doc. IL
Lo Scardeone nel libro: De antiquitate urbis Fata-
va et Claris civibus patavinis, parlando del Mussato,
scrive: Prcelerea Lendenarice et Florentice Preturam
simima cum laude gessit.
Lendinara fu data dai Marchesi d'Este al Comune di
Padova nel 1293. Vedi : Corf Lib. I Gap. IX.
Capitolo Secondo
Seconda ambasceria del Mussato all'Imperatore. — Vicenza
si sottrae al dominio di Padova. — Lotta fra Padova e
Vicenza. — I Vicentini deviano il Bacchigliene a danno
di Padova.— Progressi dell'Imperatore in Lombardia. —
Timori dei Padovani. — Terza ambasceria del Mussato
ad Enrico. — Suo discorso all'Imperatore. — Condizioni
imposte da Enrico ai Padovani. — Doni dei Padovani al-
l'Imperatore. — La nomina del Vicario imperiale. — Ai-
mone vescovo di Ginevra. — Sua morte. — Quarta am-
basceria del Mussato all'Imperatore in Genova. — Ri-
torno in Padova. — Il Mussato espone al Senato l'esito
dell'ambasceria. — Nomina di Cangrande a Vicario di Vi-
cenza. — Discorso di Rolando da Piazzola al Consiglio.—
Discorso del Mussato. — Defezione di Padova all' Impero.
Colla venuta in Italia di Enrico VII co-
mincia pel Mussato il periodo più glorioso della
sua vita. E, poiché egli stesso ci narra gli av-
venimenti d'Italia, e specialmente di Padova,
in que' giorni, così noi, dietro la sua scorta
e quella dei cronisti a lui contemporanei, potre-
mo, con maggiore facilità e sicurezza che non
abbiam fatto toccando de' suoi primi anni, — ri-
3
34 ALBERTINO MUSSATO
guardo ai quali sono cosi scarse, incerte e con-
tradditorie le notizie, — narrare le principali vi-
cende della sua vita, le quali vanno stretta-
mente congiunte con quelle della Repubblica
padovana.
Dicemmo com'egli sia stato eletto uno degli
ambasciatori che, in nome di Padova, si reca-
rono a Milano per rendere più solenne, colla
loro presenza, la incoronazione dell'Imperatore.
Quest'onorevole incarico, ch'egli ebbe comune
con altri dei principali cittadini '), mostra di
già in Cjual conto lo tenesse la Pi,epubblica,
Queir ambasceria, del resto, non fn che un sem-
plice atto di cortesia della città verso il Mo-
narca. Pensavano i Padovani ch'egli era ve-
nuto in Italia per mettere in pace fra loro i
guelfi e i ghibellini, e che, per conseguire que-
sto scopo, doveva superare gravissimi ostacoli,
i quali gli avrebbero impedito di rivolgere il
pensiero esclusivamente alla città loro. Non
mancarono tuttavia adi ambasciatori di scan-
1) Ecco i nomi dei componeuti quell'ambasceria,
quali li registrano i Cortusii nella loro Cronaca : Henri-
cus Scrovegnus, liolandus de Giiarnarinis, Joannes
de Yigontia, Petrus de Mursis milites, Jo: Henricus
de Capite Vaccce ludex, Baricus de Lengua de Vacca
leguni Doctor, et Mussafus Poeta. Lib. I. cap. XII.
CAPITOLO SECONDO 35
dagliare 1" intenzione di Enrico, ed egli fece
loro intendere che i Padovani avrebbero fatto
bene a sottomettersi devotamente a lui ed al-
l'Impero.
Ritornati in patria, gli ambasciatori rife-
rirono ogni cosa ai loro concittadini, i quali
mostrarono non darsene per intesi.
I Torriani intanto furono cacciati da Mi-
lano per tradimento soprattutto dei Visconti,
che s'erano uniti ai Tedeschi. Crema, Cremo-
na, Brescia, Lodi e Como si allearono con
Guido della Torre e co' fuorusciti milanesi e
si ribellarono ad Enrico ; ma tosto, spaventate
del loro stesso ardire, una dopo l'altra gli apri-
rono le porte ed implorarono la sua clemenza.
La sola Brescia gli oppose resistenza, finché,
per r interposizione dei cardinali legati, che ac-
compagnavano r Imperatore, e per mancanza di
vettovaglie, dovette cedere dopo aver sostenuto
valorosamente l'assedio per quattro mesi. At-
traverso le sue mura smantellate fece il suo
ingresso Enrico AH, il quale passò poi a Cre-
mona, a Piacenza e a Pavia, finché il 21 di
ottobre di queir anno arrivo a Genova.
I Padovani, poco dopo l'incoronazione del-
l'Imperatore, allorché videro, contro ogni loro
previsione, che le cose di lui progredivano di
36 ALBERTINO MUSSATO
bene in meglio, incominciarono a sentirsi non
più tanto sicuri, come per lo addietro, e pensa-
rono di voler scoprire, se fosse stato possibile
senza compromettersi, quali fossero le sue in-
tenzioni verso la loro città. Affidarono il dif-
ficile incarico a due monaci, senza dar loro
autorità di proporre o di accettare cosa alcu-
na. Questo tentativo rimase infruttuoso, per-
ciocché i due monaci^ essendo discordi fra loro,
eseguirono la commissione con poca diligenza,
tradendo cosi la speranza di chi li aveva man-
dati. Uno di essi riferì, aver saputo dall'Impe-
ratore che questi non avrebbe trattato che con
un sindaco, che gli fosse stato spedito a tal
uopo dai Padovani, e che era disposto, purché
si fossero adempiute tutte le formalità, a lar-
gheggiar di favori col Comune di Padova.
Solleciti i Padovani spedirono allora all'Im-
peratore due plebei, uomini di espèrimentata
fede, Antonio Vigodarzere ed Albertino Mus-
sato, affidando loro lo stesso incarico che ave-
vano prima affidato ai due monaci ^). Non eb-
bero adunque nemmcn quelli un preciso man-
1) Luos plebeios probaku /idei viros, Antonium de
Vicoaggeris et Albertinum Mussaluni ilio etiam prò fi-
cisci jussere eadein, quce pr ce fatis Religio sis commissa
fuerant, perquisiluros. Hist. Aug. Lib. 11 Rub. VII.
CAPITOLO SECONDO 37
dato, poiché la città non voleva in nessun
naodo sottomettersi all'Imperatore ; cercava sol-
tanto la maniera di evitare che i suoi interessi
avessero ad urtare contro quelli di Enrico, per
modo che a lei ne potesse derivare alcun dan-
no ^). A differenza dei due monaci, i nuovi
ambasciatori ottennero tuttavia facoltà di prov-
vedere, secondo che loro meglio paresse, al
maggiore vantaggio della città. Presentatisi al-
l' Imperatore n'ebbero i patti seguenti: Che al
termine d' ogni sei mesi dovessero i Padovani
eleggere quattro cittadini fedeli all' Im.pero, uno
dei quali sarebbe confermato dall' Imperatore
stesso se si fosse trovato in Italia o, in caso
diverso, dal suo Vicario di Lombardia, ed
avrebbe il titolo di Vicario imperiale; che fosse
concesso ai Padovani di godere investiture feu-
dali valevoli in perpetuo nel territorio di Vi-
cenza ; che i Vicarii dovessero conservare le
leggi, i costumi, le consuetudini e le franchi-
gie del Comune. In compenso di ciò 1" Impera-
tore esigeva, per sé e pe' suoi successori, Tan-
ij Tunc et Palavi nimium rebus secunclìs elati
Legatos diws, 7ion quod Ccesari parere cuperent, sed
explorandi causa, ne incaute pereanf, studiose diri-
gunt. Ferretus Vicentinus (Murat. Rerum Italicarum
Scriptores X).
38 ALBERTINO MUSSATO
mia somma di quindici mila fiorini d'oro; al
•presente poi, per le spese del viaggio e per
quelle dell'incoronazione in R.oma, fiorini d'oro
sessantamila. Oltre a ciò, ogni cinque mesi, i
Padovani avrebbero dovuto pagare cinquemila
fiorini d' oro, come stipendio, al Vicario di Lom-
bardia ').
Gli ambasciatori, uditi i patti, li accetta-
rono colla riserva che venissero approvati dal
popolo padovano e, licenziati con larghe pro-
messe dall'Imperatore, se ne partirono coli" in-
tenzione di ritornar quanto prima colla rispo-
sta, Non si può negare che le condizioni im-
poste dall'Imperatore ai Padovani non fossero
gravose; ma Padova era città guelfa, e come
tale, osserva il Toews, non poteva aspettarle
gran fatto diverse -).
A Padova intanto era giunta la notizia
che Alboino della Scala e Cane suo fratello
erano stati nominati vicarii imperiali di Ve-
rona, che Ptizzardo da Camino aveva ottenuto
gii stessi privilegi in Treviso, Feltre e Bellu-
1) Hist. Ai'.fj. Uh. Il Rub. VII.
2) Lo stesso Toe^^'s propende a far cadere, con molta
probabilità, quest'ambasceria nella prima settimana del-
l'aprile 1311. Albertinus Mussatus v.nd Heinrich VII
von Liuremburg , Inauguralclissertation Greifswald^
1874 pag. 12.
CAPITOLO SECONDO 39
no. Questa notizia aveva grandemente turbato
gli animi dei Padovani; sicché i legati, al loro
ritorno in città, avevano trovato il popolo assai
male disposto ad accogliere le condizioni del-
l' Imperatore. Ciò non ostante essi le esposero
dapprima ai Magistrali^, poscia al Senato; ma
le loro parole furono accolte dalle risa e dai
fischi della moltitudine.
Quei patti parvero iniqui e dannosi alla
città; insopportabile la gravezza di esborsare
tanto danaro; si ordinò la difesa di Padova e
di Vicenza, si stabili di allargare le fosse nei
confini, di munire gli accampamenti, di prov-
vedere armi e cavalli per far fronte, nel caso
di guerra, al nemico, si volle conservati alla
città gli antichi costumi e le antiche leggi ;
una sola co$a si sarebbe concessa all' Impera-
tore, quella di chiamare i rettori della città col
nome di Vicarii imperiali; ma nuli' altro che
col nome.
Il Mussato ') tentò di piegare gli animi
1) Albertino non dice veramente esser stato lai a par-
lare in quella occasione; egli dice soltanto uno dei le-
gati: Nec- alter legatorum tacnit', ma che sia stato
proprio lui noi rileviamo dalla Epistola II nella quale, al-
ludendo a quella circostanza, dice:
Multa peroranti dudum, frustraque roganti
Exhibita est nulla prò mihi parte fìdes.
40 ALBERTINO MUSSATO
esacerbati de' suoi concittadini a più miti con-
sigli ; volle farli persuasi, ma invano, eh' essi
avevano un'opinione affatto erronea della po-
tenza dell' Imperatore ; ciò egli poteva asserire
con certezza, egli ch'era stato presso Enrico
ed avea veduto ogni cosa davvicino. L' Impe-
ratore si sarebbe certamente sentito offeso da
tanta arroganza dei Padovani e da tanto di-
sprezzo alle sue proposte. Si rammentassero
che se si fosse venuti ad una guerra, l'esito
sarebbe stato molto incerto ; si piegassero adun-
que pel loro meglio alla volontà dell'Impe-
ratore.
Queste parole, se non ottennero il loro ef-
fetto, ammansarono gli animi dei più, ai quali
parve opportuno di aspettare quindici giorni
prima di dare a Cesare la risposta; gli avve-
nimenti avrebbero intanto suggerito salutari
consigli. Prevalse l'opinione di costoro.
Parrà strano come al Mussato, a cui sta-
vano tanto a cuore la libertà e la grandezza
della patria , potessero parere accettabili le
proposte imperiali: ma la cosa non farà più
meraviglia, quando si vegga più innanzi le tristi
vicende toccate a Padova, per non averle ac-
cettate. (Hielle proposte, se non conservavano
alla città, come osserva giustamente il Tira-
CAPITOLO SECONDO 41
boschi, tutta la forma di repubblica libera, po-
tean nondimeno per le circostanze dei tempi
jjarere onorevoli ^). Oltre a ciò Albertino, ben-
ché guelfo, vedeva in Enrico VII il legittimo
discendente degli Imperatori romani, un uomo
mandato dalla Provvidenza per stabilire, come
dice uno storico tedesco, su base imperiale la
nazionale formazione dell' Italia '). Ma ciò che
lo fece inclinare ancor più ad Enrico, senza
tuttavia fargli omaggio de' suoi principi, fu
l'averlo conosciuto davvicino e l'essergli en-
trato in grazia. Ora è facile pensare, quanto
disgusto debba avergli recato 1" accoglienza fatta
dai Padovani alle proposte dell' Imperatore. Egli
dà sfogo al suo sdegno contro di essi in un' E-
2iìstola nella quale profonde elogi ad Enrico ^).
Non erano ancora passati i quindici giorni,
che i Padovani aveano stabilito lasciar tra-
1) Storia della letteratura italiana. Lib. II Gap. VI.
2) Albertinus Mussatus gehòrtezujenen idealistischen
Geistern, -n-elche die nationale Gestaltung Italiens auf
kaiserlicher Grimdlage von einen Manae ewarteten,
der auch seiner persònliclien Herkunft nach als ein ganz
besonders von der Vorsehung auserwilhltes "NVerkzeug
erschien.
0. Lorenz Deutschlands Geschichtsqiiellen in Mit-
telaller.
3) Epistola II. In laudem D. Henrici imperatoris
et commendationem sui operis de gestis ejusdem.
42 ALBERTINO MUSSATO
scorrere prima di dare la risposta ad Enrico
VII, che un grande avvenimento gettò d' im-
provviso lo scompiglio negli animi loro, ed essi
che presumevano tanto di sé, incominciarono
a dubitare della loro potenza ed a temere quella
dell'Imperatore, che fino a quel punto avevano
reputata quasi nulla ^). A^icenza, che dal 1266
fino a questo tempo era stata soggetta al do-
minio di Padova, se ne sottrasse il 15 aprile
di quest'anno 1311 ~).
Da lungo tempo i Vicentini erano stanchi
di obbedire ai Padovani, e molti fuorusciti vi-
centini s'erano già ricoverati presso Cangrande,
che aspettava con ardore il momento opportuno
per impadronirsi di A'^icenza. Questo non tardò
a presentarsi. L'Imperatore desideroso di ven-
dicarsi dell'oltraggio ricevuto da Padova, non
appena seppe l'intenzione dei Vicentini, pensò
di cogliere l'occasione, che la sorte propizia gli
presentava, per umiliare i Padovani e per ac-
crescere la propria potenza.
1) Reputaris Imperatoris potenliam quasi nullani.
Cort. Lib I Gap XIII.
-) Con questa stessa data leggiamo nei Libri com-
memoriali della Republica di Venezia nnAocv'agnàv-
dante Baiamonte Tiepolo, che chiede aiuti ai Padovani
per vendicarsi di Venezia. Fra gli altri nominati in quel
doc. e' è Albertino Mussato. Vedi: Appendice. Doc. V.
CAPITOLO SECONDO 43
Fino dalla sua venuta in Italia, i ghibel-
lini di Vicenza avevano progettato di sottrarsi,
col suo favore, al dominio di Padova ; ma non
si sarebbero forse mossi così tosto, se Sigilfredo
di Novello conte di Ganzerà, fuoruscito vicen-
tino, essendo di passaggio per recarsi al Papa,
come ambasciatore del Re di Cipro, non aves-
se, sotto mentite spoglie, visitata la" sua città
e, conosciuto le stato delle cose e viste le forze
dei congiurati, non si fosse deciso di recarsi
egli stesso dall'Imperatore, il quale, assogget-
tata Lodi, s'incamminava verso Cremona ^).
Enrico accolse l'invito di Sigilfredo, e chiamato
a sé Aimone vescovo di Ginevra, uno de' suoi
consiglieri, uomo destro e valoroso, gli affidò
l'incarico d'impadronirsi di Vicenza, usando
dell'astuzia maggiore. Questi prese con sé buon
numero di soldati, coi quali si recò a Mantova
e poscia a Verona, sotto pretesto di condurli,
per ordine dell'Imperatore, all'assedio di Cre-
mona. Giunto in Verona, messosi d'accordo con
Cane e coi fuorusciti vicentini, a un dato gior-
no, essendo le porte aperte per tradimento dei
cittadini e per l'ignavia dei Padovani -), en-
1) Gennari - Annali di Padova, Parte terza, pag. 134.
-) I Padovani non si curarono di scongiurare il pe-
ricolo, non ostante clie il JMussato li avesse ammoniti
44 ALBERTINO MUSSATO
trò in Vicenza. I soldati che erano a dife-
sa della città, corsero spaventati a nascon-
dersi chi qua chi là nelle vie più remote, nelle
case, nei templi. Alcuni si rinchiusero nel ca-
stello, alle porte del quale Cane appiccò il fuo-
co, per cui furono costretti ad arrendersi. I
vincitori vi entrarono depredando ogni cosa.
Molti Padovani stretti nelle funi furono con-
dotti prigionieri a Verona e, per redimersi,
dovettero pagare una grossa taglia: erano tutti
degni di morte — esclamano con nobile sdegno i
Cortusii — poiché per vigliaccheria avevano
perduta la città ^).
A Padova la notizia non fu dapprincipio
quasi creduta vera. I cittadini armati mossero
in fretta fino a Barbano per acquistar certezza
del fatto, e sarebbero andati più in là, se le
strade allagate non l'avessero loro impedito.
Ritornati in città, convocarono il Consiglio,
il quale ordinò che la città fosse ben munita,
e stabili nuove gabelle per sopperire alle spese
gravissime della guerra imminente.
con centinaia di lettere, clie terminavano sempre: Cu-
slodile Yicensa: Vicentiam custodite.
De Gestis Hai. post Henricum ecc. Lib. IV Rub. II,
1) Erant omnes digni viorle, quia x>ropter vilitatem
2ierdide)-ant Civitatem. Lib. I Capo XIII.
CAPITOLO SECONDO 45
Preceduti dal Carroccio, i cittadini, in nu-
mero grandissimo, s'avviarono quindi verso
Vicenza, fuori le mura della quale i Vicentini,
capitanati dallo Scaligero, li stavano aspettando.
La battaglia fu sanguinosa e la vittoria
rimase ai Vicentini, i quali uccisero e fecero
prigioneri quanti più nemici poterono, e quasi
ciò non bastasse, andati a Longare, divertirono
con argini le acque del Bacchiglione, perchè
non scorressero più verso Padova. I Padovani,
per vendicarsi, depredarono il territorio vicen-
tino, e quei di Vicenza, alla lor volta, il ter-
ritorio di Padova ^)
L' Imperatore intanto s' impadroniva di Lodi
e di Cremona e già moveva all' assedio di Bre-
scia. Spaventati i Padovani da tanti e così
rapidi progressi di lui, non vedendo in qual
maniera poterglisi opporre quando, dopo assog-
gettata Brescia, si fosse, com' era probabile,
rivolto a Padova, si pentirono di aver agito
con tanta imprudenza nel respingerne i patti
e, senza por tempo in mezzo, cercarono un
efficace rimedio.
Il loro pensiero, com'è naturale, corse tosto
ad Albertino Mussato e ad Antonio Vigodarzere,
1) Gennari. Annali di Padova, Parte terza pag. 136.
46 ALBERTINO MUSSATO
dei quali, mentre poco tempo innanzi aveano
accolto coi fischi e colle risa i saggi consigli,
ora esaltavano la prudenza;, la bontà e la so-
lerzia, maledicendo a coloro che avevano sug-
gerito l'opposto parere '). Albertino, benché for-
temente sdegnato^ godette in cuor suo di que-
sto rinsavire de' suoi concittadini. Essi lo scon-
giurarono di recarsi di nuovo presso l'Impera-
tore, al quale si offrivano disposti di accettare
qualunque patto, pur di evitarne la vendetta.
Non è a dire come il nome di Albertino Mus-
sato suonasse in que' giorni sulle bocche di
tutti, accompagnato dai più grandi elogi. Si
diceva eh' egli solo poteva salvar la P^epubblica
e caduta rialzarla ; il popolo supplicante non
sapeva staccarsi dalla sua casa, e Vitaliano de
Basilii, che reggeva quasi a suo senno il volgo,
circondato dai Tribuni, a mani giunte, pian-
gendo, gli s' inginocchiò dinanzi per suppli-
carlo di recarsi dall'Imperatore. Albertino stette
alquanto perplesso. L'oltraggio ricevuto pochi
giorni prima e la difficoltà dell'impresa lo re-
sero dapprima incerto pur dinanzi a tanta di-
mostrazione ; ma l'amore di patria la vinse sul-
l'animo suo, e, dimentico delle offese, accet-
1) Hisl. Aug. Lilj. III. Riib. VI.
CAPITOLO SECONDO 47
tò, insieme con Antonio Vigodarzere, il gra-
voso incarico ^).
Aimone, che da Vicenza seppe l'intenzione
dei Padovani, fece loro conoscere, che se aves-
sero voluto prestare obbedienza all'Imperatore,
pur conservando la loro libertà, avrebbero po-
tuto, col suo mezzo, ottenere facilmente la cle-
menza di lui ; gli facessero, pertanto, note le
loro intenzioni. Fu tenuto per ciò un abbocca-
mento a Barbano, paesello fra i confini di Pa-
dova e quelli di Vicenza. Mussato espose ad
Aimone com'egli fosse disposto a recarsi di
nuovo all'Imperatore, in nome dei Padovani,
per ottenere i patti di prima. Dopo di ciò i
Padovani elessero gli ambasciatori' che, con-
dotti da Aimone, dovevano presentarsi ad En-
rico. Gli ambasciatori eletti furono sei, fra i
quali Albertino Mussato e Antonio da Vigo-
darzere; due di essi, per cause indipendenti
dalla loro volontà, dovettero arrestarsi per via,
sicché quattro soli si presentarono all'Impera-
') De Gestis Hai. ecc. Lib. IV Rub. II. Vedi pure Epi-
stola III Ad Rolandum ludicem de Placiola:
mihi cara, Deum tester, Respublica, vivum,
Opportuna subit tunc mihi cura tui.
Pro te, digna parens, fuerit si forte necesse
Mens fuit instanti subdere colla neci.
48 ALBERTINO MUSSATO
tore, che si trovava al campo dinanzi a Bre-
scia.
Toccò al Mussato, per voto unanime dei
suoi colleghi, rivolgere la parola ad Enrico ^).
Prima tuttavia di parlare all' Imperatore, egli
cercò destramente di rendersi benevoli coloro
che più l'avvicinavano, primo fra i quali Ame-
deo conte di Savoia secretarlo del reale Con-
siglio. Introdotto alla presenza del Monarca,
egli vide seduti da un lato Alboino Signor di
Verona, Federico e Cane della Scala, dall'al-
tro i Vicentini. Non si perdette d'animo per
questo ; ma si arrestò innanzi al trono ; ob-
biettò, difese ed esaltò instancabile le forze dei
Padovani, ed ogni qualvolta quei potenti ne-
mici prorompevano in ingiurie contro i suoi
concittadini e la padovana Repubblica, egli ri-
spose con parole ancora più gravi, al loro co-
spetto ^). Nel suo discorso blandì dapprima
l'Imperatore, per indurlo a prestare benigno
orecchio alle sue parole; poscia tentò con fine
astuzia, persuaderlo della devozione dei Pado-
vani verso di lui ; cercò di scusare il ritardo
della città nel rendergli grazie delle miti condi-
zioni ad essa imposte: — S'era stabilito, è vero,
1) Hist. Aug. Uh. Ili Rub. VI.
2) De Gestis ìtal. ecc. Lib. IV Rub. II.
CAPITOLO SECONDO 49
che i legati padovani sarebbero ritornati ad un
dato giorno per la risposta; ma si dovette pri-
ma interrogare il voto non di una sola per-
sona, bensì di un popolo numeroso che difficil-
mente potè essere riunito dalle colonie, dai ca-
stelli, dai municipi, dalle borgate, il quale, poi-
ché intese la liberalità di tanti benetìzii, alzò
grida di giubilo fino alle stelle. Ma ciò che
principalmente aveva trattenuto i Padovani dal
comparire innanzi a Cesare nel giorno prescrit-
to, era stata la discussione, che s' era protratta
a lungo, sul modo di meglio onorarlo e di fargli
palese la riconoscenza della città. Quand' ecco
una grave sventura venne a colpire la Repub-
bhca. Cane s'era impadronito di Vicenza e ne
aveva scacciato il presidio. Oh, quanto meglio
se i Padovani si fossero affrettati ad obbedire
all'Imperatore ! Del resto che importava loro
la perdita di Vicenza, quando pensavano che
potevano vivere in pace, come gli altri popoli,
sotto la salvaguardia di Cesare? Essi sottomet-
tevano adunque sé stessi e la città all'impero
di lui; volesse egli lasciarli vivere nelle loro
leggi, permettesse che si sceghessero abili Pre-
tori, secondo il vecchio costume, uno dei quali
sarebbe confermato da lui stesso al termine
cF ogni semestre ; concedesse loro di godere
50 ALBERTINO MUSSATO
dei beni, dei quali erano stati improvvisamen-
te spogliati ^). —
Nel discorso del Mussato non si può non am-
mirare l'accortezza dell'oratore, il quale seppe
rappresentare all'Imperatore le cose sotto un
aspetto ben diverso dal reale. La finzione po-
trà parere perfino soverchia, quasi egli volesse
farsi beffe d'Enrico; ma chi pensi al grande
amore che il Mussato nutriva per la sua città
e alla ferma sua persuasione, che non ci fosse
per Padova altra via di salvezza, che quella
di rendersi amico l'Imperatore, converrà ch'egli
non poteva parlare altrimenti, e che il discorso
da lui pronunciato, —del quale noi abbiamo ten-
tato di rendere brevemente il concetto — era il
più opportuno per raggiungere lo scopo. E una
colpa la sua di cui merita pieno compatimento,
seppure non gli torna ad onore, quando la si
metta specialmente a confronto di tante altre
consimili di quei tempi, commesse per fini bassi
od iniqui.
Il Wychgram fa alcune considerazioni sul
discorso del Mussato, colle quali cerca, fra le
altre cose, di mettere in evidenza l'abilità di-
plomatica del Nostro. EgU nota infatti come
•) Ilist. Aug. Lib. Ili Rub. VI.
CAPITOLO SECONDO 51
Albertino con singolare accortezza, faccia bensì
l^arola del Pretore, il quale sarebbe confermato
dall'Imperatore e della restituzione ai Padovani
dei beni ch'essi possedevano nel territorio vi-
centino, dei quali erano stati spogliati, ma tac-
cia allatto dei danari che Padova avrebbe do-
vuto pagare ad Enrico, argomento cotesto, sul
quale, com' era da temersi, l'Imperatore avrebbe
usato la massima pressione ^).
Enrico ascoltò di buon grado il discorso di
Albertino, e i Principi che sedevano al lato
dell' Imperatore mostrarono di approvare la di-
fesa che il Mussato aveva sostenuta della sua
cittcà -). Terminata l'orazione, l'Imperatore si
ritirò insieme coi Principi a discutere sul da
farsi, e solo dopo tre giorni diede, per iscritto,
agli ambasciatori la risposta.
Concesse di nuovo ai Padovani di eleggere,
ogni sei mesi, quattro cittadini fedeli all' Im-
pero, l'elezione dei quali sarebbe tosto notifi-
cata a lui, se si fosse trovato in Italia o, in
1) Der Geldpunkt, auf den jetzt, wie man fiirchteii
niusste, der Kònig den gròssten Druck ausiiben wùrde,
Avird rnit keinem Worte erwiihnt.
Ein Beitrag zur italienischen Geschichte cles vier-
zehnten lahì-liunderts. Leipzig 1880 pag. 18.
2) De Gestis Hai. ecc. Lib. IV. Rub. II.
52 ALBERTINO MUSSATO
caso diverso, al suo Vicario generale di Lom-
bardia. Egli poi il Vicario avrebbero scelto
uno dei quattro a Pvettore della città col ti-
tolo di Vicario imperiale. Questi avrebbe fatto
giuramento innanzi al Vescovo o ad altra per-
sona autorevole della città di esercitare il go-
verno di questa legalmente e fedelmente ad
onore ed utilità dell' Impero. Stabilì che questa
concessione avesse valore per soli sei anni, par-
tendo dal giorno in cui venne data ; starebbe
poi nella sua clemenza prolungarne il termine.
Il Vicario reggerebbe la città ed il distret-
to in nome dell' Imperatore e secondo le leggi,
le consuetudini e gli ordinamenti approvati e
da approvarsi, purché non fossero contro Dio,
né in pregiudizio dell' onore di Cesare e del-
l' Impero. I Padovani, per vivere sotto la pro-
tezione dell' Imperatore e per essere esenti da
ogni gabella verso il Vicario generale, paghe-
rebbero ogni anno, in compenso, alla regia
Camera ventimila fiorini d' oro. In un secondo
diploma l' Imperatore ordina che i cittadini pa-
dovani, i quali, nel giorno in cui Vicenza si
era sottratta al dominio di Padova o in ap-
presso, fossero stati spogliati dai Vicentini dei
loro beni, li abbiano a ricuperare, coli* obbligo
tuttavia di venderli per giusto prezzo al Co-
CAPITOLO SECONDO 53
mane o ai cittadini di Vicenza, se quello o
questi avessero voluto comperarli. Stabili inol-
tre che i Padovani avrebbero pagato, per una
sola volta, entro a un dato termine, centomila
fiorini d' oro alla Camera imperiale. I diplomi
portano entrambi la data del 9 giugno 1311 ^).
Questi nuovi patti dovevano parere, come
infatti parvero, assai miti ai Padovani, i quali
avevano tutte le ragioni per sospettare che En-
rico si sarebbe mostrato severo verso di loro.
Il Mussato, alla cui destrezza erano principal-
mente dovuti, ne fu contento; e questa volta,
allorché li espose in Senato, n' ebbe lodi gran-
dissime. Su 550 voti, 17 soli furono contrari
alla accettazione di essi.
Pochi giorni dopo il vescovo Aimone rice-
vette, a nome dell' Imperatore, dai Padovani il
giuramento di fedeltà. Ciò fu nel 20 giugno,
il giorno medesimo in cui, come osserva il Mus-
sato, cinquantasei anni prima la città aveva
abbandonato l'Impero per darsi alla Chiesa ').
1) Erra il Wychgram che li dice in data del IO giu-
gno (Vedi pag. 19 in nota). 11 Mussato li riporta testua-
li nella sua storia. Essi terminano: Dal. in Castris ante
Brixiam V Idus Jan. anno Uomini MCCCXI.
Indictione nona, Regni vero nosh'i anno lertio.
2) Hist. Aug. Lib. III. Rub. VI. Aggiunge il Gennari
che nello stesso mese di giugno l'anno 1164, il popolo
54 ALBERTINO MUSSATO
A meglio confermare i Padovani nel loro
giuramento di fedeltà air Imperatore, avvenne
che proprio in quei giorni fossero di ritorno
gli ambasciatori spediti al Pontefice, i quali
recarono al Senato il papale responso; che si
dovesse obbedire in tutto all' Inclito Be figlio-
di Santa Chiesa ^). Aimone intanto avea pro-
posto ai Vicentini, secondo il desiderio dei Pa-
dovani, di lasciar scorrere il Bacchigliene pel
suo letto. Quelli gli risposero negativamente,
ed avendo egli insistito, gli si sollevarono con-
tro ed avrebbero assalito il suo palazzo, se al-
cuni assennati cittadini non li avessero distolti
dal feroce proposito. 11 Vescovo si partì indi-
gnato, ed i Padovani, cogliendo l'occasione per
meglio entrare nelle grazie dell' Imperatore ,
vollero aggiungere a ciò che gli dovevano se-
condo le condizioni imposte, un' offerta spon-
tanea, della quale fa menzione il Mussato nella
padovano cacciò gli ufficiali cesarei, da" quali era per
istrane guise aspreggiato, e diede forma di repubblica
al suo governo: da che forse è venuto in processo di
tempo, che l'elezione dei Podestà succeduti ai Consoli,
appunto in questo mese facevasi. Annali di Padova.
Parte terza.
1) Senatuique papale responsura retulere, ut scilicet,
Inclyto Regi Ecclesiae Sanctae fdio pareatur omnino.
Hist. Aug. Lib. HI. Uub. VI.
CAPITOLO SECONDO 55
sua storia, come di cosa memorabile e che gii
recò sommo piacere, poiché vedeva per essa,
stringersi ancor più la buona relazione fra Pa-
dova ed Enrico. Addussero i Padovani innan-
zi air Imperatore otto cavalli giovani di cin-
que anni e di una bellezza straordinaria, ric-
camente bardati, che furono la meraviglia di
tutti. Quattro n' ebbe in dono Enrico, due Ame-
deo di Savoia e gli altri due Guido di Fian-
dra. Tanto l'Imperatore che i Principi si mo-
strarono gratissimi del presente ^).
Per tutto questo parrebbe che il legame tra
i Padovani ed Enrico dovesse, nonché rom-
persi, nemmeno rallentare ; eppure non fu cosi.
Ben sei sapeva Albertino, il quale viveva in-
certo sulla fermezza de' suoi concittadini. Egli
è vero che avevano accettato con entusiasmo
le condizioni imperiali ; ma passato quel timo-
re, pel quale s' erano affrettati ad accoglierle,
quando fosse venuto il momento di mettere in
pratica ciò eh' esse prescrivevano , si sareb-
bero essi adattati ad ubbidire senza lamento ?
essi che da tanto tempo erano abituati non
già a sottomettersi all' altrui volontà , bensì
ad imporre agli altri la propria? L' occasio-
1) Hist. Aiig. Lib. IV. Paib. II.
56 ALBERTINO MUSSATO
ne che confermò tali sospetti non tardò a pre-
sentarsi.
Verso la fine di settembre di quell' anno ^),
il Podestà Rodolfo da San Miniato cessò dal-
l'incarico, e dei quattro eletti dai Padovani,
secondo l'imperiale rescritto, fu da Enrico no-
minato vicario Gherardo da Enzola parmigia-
no. Ma quella mutazione improvvisa di nomi,
quelle formalità riguardanti la nuova carica,
alle quali non erano avvezzi, il ricordo di ciò
che aveano sofferto — non era passato molto
tempo — sotto i vicari! ionperiali, e specialmen-
te sotto l'ultimo di esecrata memoria; l'idea,
per lo contrario, di libertà, di grandezza e la
memoria di tante domestiche glorie, che loro
risvegliava in mente il nome di Podestà, fece-
ro sì che gli aniuii popolari fremessero e ri-
manessero per alcun tempo incerti innanzi alla
novità delle cose, né s' acquetassero che per
opera dei principali cittadini, i quali si sfor-
1) lY. Kal. Od. Hist. Aug. Lib. IV. Rub. IV. I Cor-
tiisi (Lib. I. Gap. XIV.), con evidente errore, mettono
in luglio la nomina del Vicario imperiale. Il Verci nel
Libro IV della sua Storia della Marca Trivigiana e
Veronese trova in errore anche il Mussato, e prova
con documenti, che Gerardo era Vicario di Padova fino
dal 21 di settembre.
CAPITOLO SECONDO 57
zarono dimostrare esser necessario adattarsi alle
imposte condizioni.
Era in que' giorni, per buona ventura, in
Padova il vescovo Aimone, mandatovi dall' Im-
peratore a farvi riconoscere il suo potere e a
togliere ogni occasione di dissidio tra i Pa-
dovani e i Vicentini, col cercare che le pos-
sessioni di quelli nel vicentino, venissero da
questi restituite a norma del regio editto, e che
il Bacchiglione tornasse, per l' antico alveo, a
scorrere nel territorio dei Padovani. Ma poi-
ché le cose tra quelli e questi, anziché com-
porsi, s'inasprivano ogni di più, Aimone volle
condur seco il Mussato innanzi ad Enrico, per-
chè gli facesse fede, insieme con lui, della man-
suetudine e della fedeltà dei Padovani. Si mi-
sero entrambi in cammino, ma non toccarono
la meta, poiché il Vescovo ammalò, e mentre
si riduceva in patria, per ricuperar la salute,
morì per via ad Ivrea. Questa morte dev' essere
spiaciuta grandemente al Mussato, poiché con
Aimone egli vedeva mancarsi un mezzo poten-
tissimo per raggiungere lo scopo vagheggiato
di unire, più che fosse possibile, Padova al-
l' Imperatore. Egli è perciò che noi lo vedia-
mo in istretto rapporto col A'escovo di Ginevra,
come ne fa fede la sua Storia Augusta, nella
58 ALBERTI>-0 MUSSATO
quale gli tributa parole di moltissima lode,
specialmente per ciò che fece a vantaggio dei
Padovani ^).
Morto Aimone, pare che il Mussato, rimasto
solo, vedendo di non poter conchiudere nulla,
sia ritornato in Padova senz' altro ^).
Poco tempo appresso egli fu inviato insie-
me con altri, per la quarta volta ad Enrico,
il quale era passato a Genova per muovere di
là a Rom.a. Insieme cogli ambasciatori delle
altre città e con quelli di Roberto di Napoli,
che, spinto dai progressi che faceva l' Impera-
tore in Italia, aveva creduto conveniente man-
dargli le sue felicitazioni, prima che andasse
a cingere in Roma la corona imperiale, si tro-
varono in Genova anche i legati padovani, i
quali, oltre a quello di accompagnare l' Impe-
ratore a Roma, avevano l'incarico di niuover
h Is qiiippe Gebenensis mansuetudine multa, v.t
ci'jusque generis homines, sic et Paduanos ad sv.os^
Regisque amore alliciebat. Tir hilaris faciei, verbo-
rum cuique gratissimorum, et effector studiosus eo-
rum, qi'.ce spondebat, laudem multam emeruit in his
commerciis memorici celernce Paduanis commendan-
dam. Hisf. Aug. Lib. IV. Rub. IV.
2) Questo non rileviamo dalla sua storia, ma possia-
mo facilmente immaginare, poiché, dopo aver detto del-
la morte di Aimone, egli non fa più parola della sua
ambasceria.
CAPITOLO SECONDO 5&
lagno dinanzi a lui contro i Vicentini, che
non solo ricusavano di restituire ai Padovani
i beni che questi possedevano nel territorio di
Vicenza, ma non volevano rimettere il Bacchi-
gliene nel suo letto, con danno gravissimo del-
la vicina Padova. Le sponde del Bacchigliene,
furono il teatro delle principali battaglie fra
Padova e Vicenza ; quel liume, in quelle fu-
neste fazioni fu, come scrive lo Zanella, più fa-
moso che il Simoenta nella guerra di Troia ^).
1) Guerre fra Padovani e Yicentini al tempo di
Dante nel libro Dante e Padova, Padova 1865. Mi pia-
ce riprodurre il seguente tratto in cui lo Zanella de-
scrive, oltre il corso del Bacchigliene e la pianura cir-
costante, il modo con cui i -Vicentini impedivano alle
acque di scorrere verso Padova.
«Dopo avere co' suoi tortuosi avvolgimenti bagnate
le frapposte campagne, il Bacchiglione entra in Padova
a porre in movimento i mulini della città. Ogni volta"
che si rompeva 1' amicizia fra le due rivali, era cura dei
Vicentini l'impedire che l'acque del tìume scorressero
verso Padova.
A questo fine presso il ponte di Longare piantava-
no alcune palafitte, guardate da due grosse torri di le-
gno ; le acque straripando dilagavano le vicine pianure,
non bastando a raccoglierle il canale del Bisato, che a
que' giorni non andava oltre il ponte di Barbarano.
Quella lingua di terra che è posta fra i colli Berici e gli
Euganei naturalmente bassa e piena d' acquitrini si can-
giava in una vasta palude, di cui restano tracce nei ca-
nali che si fecero per asciugarla: scolo di Gora, Fossa
Bandigà, scolo Arnalda, scolador di Lezzo, Canaletto ed
W ALBERTINO MUSSATO
Quattro furono gli ambasciatori che Padova
inviò questa volta ad Enrico : Rolando da Piaz-
zola, Jacopo degli Alvarotti, Enrico di Capo-
divacca ed Albertino Mussato. Circa cento gior-
ni essi stettero in Genova, senza ottener nulla.
Invano esposero all' Imperatore le difficoltà del
rimanere più a lungo; egli si mostrava restio
a conceder loro il permesso del ritorno.
Finalmente il Mussato, che godeva la stima
e r affetto di Enrico, gli fece conoscere V im-
possibilità in cui erano di ricevere dalla lon-
tana Padova i necessarii sussidii per prolun-
gare la loro dimora in Genova, e come per
ciò fossero costretti ad andarsene, e gli pro-
mise che sarebbero ritornati pel tempo della
incoronazione. L'Imperatore non accordò espres-
samente la licenza, ma neppure la negò '). Gli
iiltri. Chi visita quelle campagne ora seminate di vil-
laggi si accorge del latto, nel vedere che vi mancano
edifici di vecchio tempo, i quali sorgono in quella vece
sui colli vicini. È questo il palude di cui parla Dante,
le cui acque pur troppo rosseggiarono molte volte di san-
gue fraterno».
Vedi inoltre il dotto scritto di Fedele Lampertico:
Bella interpretazione della terzina 16 nel Canto IX
del Paradiso, pubblicato nel II. Volume de" suoi Scritti
storici e letterari, Firenze, Successori Le Monuier, 1883.
1) Si non licentiam jiì'cebuit e.vj^ressius, tanien non
negava. Hist. Aug. Lib. V. Rub. X. I Cortusii dicono che
CAPITOLO SECONDO 61
ambasciatori padovani fecero tosto ritorno in
patria, non senza prima aver ottenuto un re-
scritto imperiale (27 gennaio 1312), che or-
dinava ai Vicentini di rimettere il Bacchiglio-
ne nell'antico suo letto, e di restituire ai Pa-
dovani i beni convenuti; Non appena giunti in
Padova, dopo un viaggio disastroso, Albertina
Mussato espose dapprima agli otto sapienti ')
e ai primati della città, poscia al pieno Sena-
to l'esito dell'ambasciata ad Enrico in Geno-
va, facendo conoscere la condizione dell' Impe-
ratore. Poiché ebbe finito di parlare, si levò
nella sala un mormorio. Diverse erano le opi-
nioni dei consiglieri ; pochi soltanto, desiderosi
di pace e nemici di ogni novità, insistevano non
essere opportuno rompere l' amicizia coli' Im-
peratore ; i più, sapendolo lontano, occupato
dell' andata a Roma ed esausto di finanze ,
sicché ne presagivano vicina la caduta, sug-
gerivano apertamente la ribellione.
gli ambasciatori partirono da Genova secretamente: Am-
basciatores de Padua secrete de Imperatoris Curia
recesserunt. Lib. I. cap. XIV.
1) Questo magistrato veniva eletto per vegliare alle
novità che agitavano la Repubblica ed ovviare a' peri-
coli, che alla medesima potevano soprastare. Vedi Giam-
battista Verci, Storia della Marca Trivigiana e Vero-
nese. Libro IV.
62 ALBERTINO MUSSATO
Il Consiglio si protrasse a lungo, né si venne
in quel giorno a conclusione veruna. Forse in
quella sua relazione il Mussato, come osserva
il Wychgrani fece un passo imprudente. Egli,
die conosceva troppo bene V umore de' suoi con-
cittadini, avrebbe dovuto tacere della condizio-
ne dell'Imperatore, la quale, malgrado lo splen-
dore di Genova , non era certo la migliore,
com' è dato rilevare dalle fonti di quel tem-
po ^). Si direbbe quasi che Albertino s' è que-
sta volta dimenticato della consueta destrezza,
se non si pensasse che ì" amore eh' egli por-
tava a' suoi concittadini non poteva permetter-
gli di fingere al loro cospetto, come aveva fat-
to dinanzi all' Imperatore. Oltre a ciò dell'am-
basciata di Genova avevano fcitto parte con
lui altri cittadini, fra cui Rolando da Piazzo-
la, oratore dei più valenti e punto amico a
Cesare, i quali non avrebbero taciuto s' egli
avesse esposto le cose quali non erano.
E ammesso pure che avesse potuto ricorre-
re air astuzia, quale vantaggio avrebbe otte-
nuto? Nessuno; poiché i fatti che avvennero
1) Vielleicht war es eia unkluger Schritt. dass er aucli
der momentanen Lage cles Kònigs, die trotz ali des ge-
nuesischen Glanzes nach den gleichzeitigen Quelleii dodi
keine giiustige war Erwiibnung tliat. pag. 23.
CAPITOLO SECONDO C3
subito dopo, avrebbero distrutta completamente
r eftìcacia delle sue parole.
I Padovani, come notammo, non volevano
saperne di soggezione all' Imperatore. S' erano
indotti, è vero, pochi mesi prima a tentare, per
mezzo del Mussato, una conciliazione con lui ;
ma avevano fatto ciò in un momento di pau-
ra, passato il quale s" erano pentiti, nonostan-
te che Enrico avesse mostrato una speciale be-
nevolenza a loro riguardo. Non lasciavano per-
tanto di cogliere ogni occasione, per far cono-
scere, com' essi obbedissero a malincuore alle
pretese imperiali. Quando si trattò della no-
mina del Vicario si levarono a tumulto ; quan-
do poi seppero €om' erano stati trattati in Ge-
nova gli ambasciatori, si agitarono di nuovo
e maggiormente ; non ci voleva che un' occa-
sione per farli prorompere in aperta rivolta ;
e questa non tardò a manifestarsi.
II giorno appresso al Consiglio, del quale
abbiamo narrato testé, pervennero al Comune
di Padova lettere di Cangrande, nelle quali
annunziava esser egli stato eletto dall' Impe-
ratore a Vicario di Vicenza. La notizia si dif-
fuse in un baleno per la città, e con essa cor-
se voce che lo stesso Cane fosse stato segre-
tamente nominato Vicario di Padova, Treviso
64 ALBERTINO MUSSATO
e Feltre ''). Non ci volle di più perchè i cit-
tadini si levassero a tumulto. Fra le grida del
popolo, fu radunato immediatamente il Consi-
glio, per discutere sul partito da prendersi in
tanto frangente. Quando i consiglieri furono al
posto, Rolando da Piazzola, grandemente agi:
tato, ascese la tribuna e pronunciò una vee-
mente orazione contro V Imperatore :
— Dopo aver taciuto per quasi cento giorni,
ora che avea fatto ritorno, per divino aiuto,
ai patri lari da quella Curia, ove il timore
gli avea negata la facoltà di parlare, ora, che
rivedeva i dolci aspetti de' suoi concittadini,
avrebbe finalmente parlato. Aveva veduto, pur
troppo, quel Re mandato per la rovina del
mondo ; ne avea veduto cogli occhi ì" aspetto,
mentre l'anima rifuggiva dal guardarlo; quel
Re dinanzi a cui gli elementi stessi inorri-
divano ; la terra negava i suoi frutti, l' aria
^) Il Mussato la ritiene un'invenzione: vet'-is falsa
ipsa eadem instans fama permiscuit, ut Rex iniquus
illuni iCanem) non modo Yeronce, sed Paduce, Tarvi-
sio, Fellroque praefecerit. Hist. Avg. Lib. VI. Rnb. I.
II Wycligram, in una nota, osserva che quella voce
non poteva esser che falsa, poiché, prima di tutto Enri-
co sapeva che Cane era nemico di Padova, e in secon-
do luogo Treviso, in quel tempo, era soggetta a nizzar-
do da Camino.
CAPITOLO SECONDO 65
divenuta infetta, irrespirabile sofìbcava i viven-
ti, il fuoco distruggeva gli edilizi e inceneriva
al suolo ogni cosa. Aveva veduto città, poco
prioia iiorentissime, ridotte in rovine, campa-
gne deserte, i volti dei nobili inselvatichiti dal-
l' inedia, la plebe morta di fame. La Lombar-
dia, terra feracissima, resa incolta e selvag-
gia, e retta da tiranni che, col nome di Vica-
ri! imperiali, ne consumavano perfino le estre-
me reliquie. Genova, la stessa Genova, città
fiorente di ricchezze, di cittadini, egli avea ve-
duto, in soli tre giorni, mutare totalmente d'a-
spetto. Come se — continuava — licenziato
questo nostro presidente venisse a lui sostituito
un ignoto, e i vostri plebisciti e le leggi fos-
sero abrogati, e questo Senato disciolto, e i
tribuni turpemente e ignominiosamente deposti;
cosi fu fatto a Genova, dove il Podestà e l'Aba-
te conservatore della città furono scacciati, di-
spersi gli ordini dei popolari, abolite le anti-
chissime costumanze. Tardi se ne avvidero, e
invano, i cittadini, che or piangono la loro sven-
tura e maledicono la loro inerzia. Essi che avea-
no respinto dai loro confini l' Imperatore Fe-
derico armato, accolsero costui inerme.
Questi tuttavia sono vani lamenti, imper-
ciocché, perdute le forze, si sottomisero al gio-
66 ALBERTINO MUSSATO
go e pagarono al regio fisco sessantamila fio-
Tini. Ma si taccia delle altrui sventure e si
parli deir Imperatore. Qual ragione rende for-
midabile costui? Non è egli forse, per flagel-
lo di Dio, privo di soldati? Duecento, soli due-
cento gliene sono rimasti, i quali non pagati
da sei mesi incominciarono ad alzare la voce
contro r Imperatore. Egli stesso avea veduto
il popolaccio gridare alle porte del palazzo, per
essere soddisfatto del prezzo dei cibi e dei vini
somministrati, e l' Imperatore tenerlo a bada
e intanto vendere le cariche e gli offici per
danaro. Non ebbe vergogna di nominar Cane,
uomo scellerato, a Vicario di Vicenza, perchè
poi si faccia tiranno anche di Padova e vi su-
sciti la guerra intestina. Si rammentassero i
Padovani delle stragi nefande commesse da Ez-
zelino da Romano, figlio di Satana ^).
Cane, se ben riguardassero alla sua vita,
a' suoi costumi sin dagli anni più teneri, non
era da meno di Ezzelino ; anzi di questo ancor
più feroce. Fatto adulto s" era lordato le mani
nel sanane de' suoi ; né avrebbe certo usato
1) Era credenza popolare che Ezzelino fosse figlio del
demonio. Questa credenza suggerì al Mussato la mera-
vigliosa scena dell'atto primo della sua tragedia Ec-
ccrinis.
CAPITOLO SECONDO 67
indulgenza cogli odiati Padovani, egli nato ed
educato in quella cittcà, dove undecimila de' loro
padri — e la memoria n era ancor fresca • —
aveano subito, ad un tempo, morte nefanda ^).
Ma i ricordi abbondano ; meglio tacerli, e pas-
sare ad un consiglio opportuno sul da farsi.
E qui l'oratore consigliò di negare obbedienza
all' Imperatore, di resistergli, di abbattere le
aquile da tutti i pubblici e privati edifìzi, di
armargli contro la città, i castelli e le colonie,
di sacrificare la vita per la libertà. Finalmente,
rivoltosi a Gherardo da Enzola, 2rli intimò di
rinunziare al vicariato e di riprendere, insieme
col dolce e santo nome, 1" ufficio di Podestà ; se
ciò non gli piacesse, s' avesse il suo stipendio
e se ne andasse : avrebbero chiamato di nuovo
Rodolfo da San Miniato ~), —
11 Consiglio applaudi fremendo all' orazione
di Rolando, convinto si dovesse fare ciò eh' egli
suggeriva. Ma poiché il remore si fu calmato
alquanto, si rizzò il Mussato, che volle far sen-
tire ancora una volta la sua voce per ritrarre
l'amata sua patria dall'orlo del precipizio in
1) Di questa strage fa menzione il Mussato nel bel-
lissimo Coro, col quale chiude V atto terzo della sua
tragedia.
2) HisL Aug. Lib. Vi. Rub. I.
68 ALBERTINO MUSSATO
cui stava per cadere ; benché fosse persuaso
che pochi lo avrebbero ascoltato. L' autorità
del suo nome impose silenzio:
— Non si giudicasse stolta audacia la sua,
se tentava rivolgere la mente di tanti, persuasi
dall'eloquente parola di Rolando, a consigli più
miti ; pure non rincrescesse a' suoi concittadini
di ascoltare colui, che altre volte s'eran pentiti
di non aver ascoltato ; forse le buone ragioni
avrebbero avuto vittoria sugli animi esaltati.
Egli non negava essere stato mal suggerito
r Imperatore nella scelta di Cane a Vicario di
Vicenza ; ma certo ignorava Enrico di quai tri-
sti conseguenze sarebbe stata cagione quella
nomina. E, dopo tutto, non aveva egli il diritto
di nominare chi meglio gli piacesse? Che si
debba fare, ciò importa discutere. Rolando aveva
esortato i Padovani alla rivolta, aveva fatto cre-
dere l'Imperatore povero, abbandonato, odioso
a' suoi popoli. Non negava egli (il Mussato)
esser ciò vero ; ma fino a un certo punto. En-
rico non era cosi oppresso dalle sventure che
non potesse rialzare il capo. Non era egli forse
favorito dalla Chiesa? Lo potrebbe attestare
lo stesso Rolando, che vide coi propri occhi
sedergli allato quattro Cardinali inviati dal Pon-
tefice. Oltre a ciò, se i Re di Francia e di Pu-
CAPITOLO SECONDO 69
glia non erano andati d'accordo, come correva
voce, intorno agli sponsali, non ne avevano tut-
tavia respinti i trattati. Pertanto s'egli volesse
conceder loro alcuni doni regali ; cioè al Re
di Francia il regno di Arles e quel tratto di
paese che si stende dal Rodano fino ai conlini
dell'Allemagna, e al Re di Puglia il vicariato
della Toscana e della Lombardia, non gli sa-
rebbe forse aperta la via di Roma ? Egli di-
verrebbe allora di nuovo potente. Non creda
Rolando poter provare cosi abbandonato, cosi
povero, com' egli asserisce, l' Imperatore, a cui
tutti i ghibellini d' Italia rivolgono lo sguardo
come a loro stella, e a cui nelle stesse città
guelfe le intestine fazioni rivolgono di nascosto
il desiderio. Finché egli viva e tinche le na-
zioni riconosceranno in lui il Re e l' Impera-
tore dei Romani, 1' avranno i Padovani sempre
minaccioso e terribile sul loro capo. Vogliono
essi un rimedio giusto ed efficace? Non si fac-
ciano ribelli, come vorrebbe Rolando ; lodino
ed accettino i decreti che ordinano sia rimesso
il Bacchiglione nel suo letto e siano loro re-
stituiti i beni che posseggono nel Vicentino.
Che ne avverrà? Certamente Cane e gli osti-
nati Vicentini non obbediranno all'imperiale
decreto ; poiché se ritornassero ai Padovani le
70 ALBERTINO MUSSATO
loro possessioni, chi potrebbe resistere alla co-
storo potenza ? I Padovani posseggono castelli
e luoghi fortificati sparsi per tutto il territorio
vicentino, e il loro potere si farebbe sentire
nel seno stesso di Vicenza. Che se, contro il
comando di Cesare, i Vicentini negheranno la
restituzione, facciano i Padovani sentire i loro
giusti lamenti all' Imperatore ; si valgano delle
loro forze per ottenere, in nome del sacro Im-
pero, r una e l' altra delle cose a cui hanno
diritto. Agiscano sotto lo scudo del diritto ciò
che Rolando persuaderebbe loro di fare in di-
sprezzo dell' Imperatore. Che importa dare il
nome di Podestà al Vicario dell' Impero, quan-
do r officio ed il potere sono i medesimi ? Per-
chè atterrare le aquile? Si prepongano gli atti
virtuosi alle parole ; si cerchi raggiungere lo
scopo colle opere non con le vane ostentazio-
ni, si segua sempre il diritto, anche se il
Re fosse malvagio ; il diritto è costante ed im-
mortale, il Re incerto, mortale ; esso cade co-
me cadono i fiori nel verno. Conchiudeva il
Mussato : dovessero i Padovani obbedire ai de-
creti imperiali ; che cosi avrebbero potuto non
solo respingere indietro quel Cane loro nemi-
co che li inseguiva, ma convincere della sua
fallacia e della sua iniquità lo stesso Impe-
CAPITOLO SECONDO 71
ratore, se si fosse scostato dalla via della giu-
stizia ^). —
L'eloquente parola di Albertino non produs-
se, com'era da aspettarsi, grande effetto sugli
animi degli uditori, la più parte dei quali era
già con R,olando, prima ancora che questi pro-
nunciasse il suo discorso. Pochi soltanto, quelli
di etcà più matura e di maggior senno, resta-
rono colpiti dalle serie argomentazioni del Mus-
sato ~), e discussero incerti su ciò che si do-
vesse fare. Eran d'avviso non doversi prendere
cosi tosto una risoluzione ; ma doversi aspet-
tare alcuni giorni, finché gli avvenimenti stessi
indicassero il partito migliore. Si passò alla
votazione. La proposta di Rolando fu appro-
vata da quasi due terzi dei votanti.
La plebe, sempre vaga di cose nuove, non
appena seppe la decisione del Consiglio, prima
1) Il Mussato scrisse più tardi un' Epistola a Rolan-
do, per riconciliarsi con lui della pubblica contesa avuta
in questa occasione. L'Epistola s' intitola: Ad Rolanchim
ludicem de Placiola amicwn suum sibi conciliandum
de contentione Inter se habita de rebus publicis altero
existente Indice Jntianorum, altero Priore Gastal-
dionmn.
2) Il Barthold giudica 1" orazione del Mussato «degna
dei più bei tempi della liberta di Grecia o di Roma».
Wohl der Bliìthezeit griecMscher oder romischer
Freiheit loùrdig.
72 ALBERTINO MUSSATO
ancora che questo si sciogliesse, corse furibon-
da, con iucomposte grida, ad atterrare le aquile
dai pubblici e privati edifizii e dalle porte della
città ; né pur troppo si astenne, come accade
sovente in simili circostanze, dagli incendii e
dalle rapine (15 febbraio 1312).
Questi fatti misero uno sgomento profondo
neir animo di Albertino, il quale, malgrado
tutti i generosi suoi sforzi per salvarla, vedeva
la patria correre a certa rovina. Ciononostante
non gli diede il cuore di abbandonare V ingrata
e tanto meno di farsele nemico ^). In cospetto
del bene eh" egli avrebbe ancora potuto recarle,
fece tacere nell' animo ogni privato rancore, e,
benché in opposizione a quanto egli stesso aveva
suggerito, stette con essa contro l'Imperatore,
al quale pur lo legavano tante prove di fidu-
cia e di affetto, facendo, per tal modo, cono-
scere a' suoi concittadini, che s'egli avea con-
sigliato la soggezione di Padova all' Impero,
avea ciò fatto non per ingraziarsi Enrico e per
speranza che avesse di ottenere qualche van-
taggio personale ; ma unicamente pel bene della
sua città. La quale, pur avendo cercato tutte
l) Non mihi cum Patria liceat contendere nostra.
Epist. IL
CAPITOLO SECONDO 73
le vie per nuocere a sé stessa, fu ancora tanto
avventurata, che in quel momento l' Imperato-
re, per essere distratto da gravissime occupa-
zioni, non potesse pensare a punirla ; né più
tardi, avendo egli pubblicato un terribile editto
contro di essa, fosse in tempo di mandarlo ad
esecuzione, per essere stato colpito da morte
immatura.
Capitolo Terzo.
I Padovani si riconciliano col Mussato — Uccisione di Gu-
glielmo Novello dei Paltanieri — Si vuole la guerra con
Cane — Cominciano le ostilità fra Padova e Cane — I
Padovani tentano di riprendere Vicenza — Assalto di Ma-
rostica — Atto di valore del Mussato — Cane espugna il
castello di Mota — Si volge a Camisano — Quindi a Pa-
dova — Viene respinto — Uccisione di Rizzardo da Ca-
mino — Alleanza dei Padovani con Guecello da Camino
— Nuovo tentativo per ricuperare Vicenza — Cane fa
straripare il Bacchigliene — I Padovani lo rimettono nel
suo letto — Assalto di Lonigo — Assedio di Poiana —
Valore del ^lussato — Cane devasta il territorio pado-
vano — Viene respinto — Esigenze di Guecello — Oppo-
sizione dei Padovani — Guecello viene cacciato da Tre-
viso — Congiura di Nicolò da Lezzo — Ribellione di So-
limano de' Rossi — Padova è messa al bando dell' Impe-
ro — Si riaccende la guerra con Cane — Il Conte di Go-
rizia viene in aiuto di Cane — Sconfìgge i Trevisani sulle
rive del Montegano — Morte di Enrico VII.
Dopo quanto era accaduto, se il Mussato
aveva tutte le ragioni per essere malcontento
de' suoi concittadini, questi vedevano in lui un
nemico della libertà della patria, un fautore di
Enrico, al quale cercava appianare la via, per-
chè potesse meglio raggiungere il fine delle sue
76 ALBERTINO MUSSATO
mire ambiziose. Sennonché la ragione stava tut-
ta dalla parte di Albertino e il torto da quella
de' suoi concittadini; poiché s'egli, nel consi-
gliare ad essi la sommissione all'Imperatore,
avesse avuto di mira, piuttosto che il bene di
Padova, il proprio interesse personale, nessuna
occasione, meglio di questa, avrebbe potuto spin-
gerlo ad abbandonare la sua città per schierarsi
dalla parte dei nemici. Ma, appunto per sal-
varla da questi e, in modo particolare, da Ca-
ne, il più formidabile di tutti, ei la voleva uni-
ta all' Imperatore.
Nessuno forse dei Padovani odiava Cangran-
de più del Mussato, poiché nessuno meglio di
lui vedeva a che mirasse l'irrequieto Signore
di Verona. Cane, infatti, aveva a cuore non
tanto gli interessi dell'Imperatore quanto i pro-
pri ; egli cercava di allargare il suo dominio
e di aumentare la sua potenza, e poiché sapeva
che il Mussato aveva penetrato questo suo di-
segno, lo ricambiava di pari odio.
Stando le cose in questi termini, essendo,
cioè, il Mussato tanto nemico a Cane, a quel
Cane, che era l' oggetto principale dell' odio dei
Padovani, e contro al quale una guerra era
divenuta inevitabile, lo sdegno de' suoi concit-
tadini verso di lui si calmò ben tosto. Sulle pri-
CAPITOLO TERZO 77
me il Podestà, come narra il Ferreto, avea
dovuto salvarlo dal furore del popolo, ma non
appena gli animi furono tranquilli, i cittadini
si volsero di nuovo a lui, come al solo capace
di condurre, nel miglior modo, le cose ; ed egli,
riacquistata l'antica influenza, s'adoperò con
tutti i mezzi, dapprima come Gastaldione ^), poi
come Anziano della Repubblica "), al vantaggio
maggiore della sua città, non ostante che que-
sta si fosse messa per una china pericolosa.
Una prova dell'odio suo contro Cane l'ab-
biamo nel fatto che egli, dopo l' uccisione di
Guglielmo Novello, insieme con gli altri reg-
gitori della città, mandò a confino Marco For-
zate, Gaboardo Scrovegno, Traverso dei Dale-
smanini e molti altri, i quali avevano mostrato
apertamente di parteggiare per Cane e di ac-
crescere, con le loro male arti, la potenza di
lui. I Cortusii, nel far menzione del fatto, dicono
che quei cittadini furono banditi non per giu-
stizia, ma per vendetta di partito ^). Chi pensi
tuttavia all'uccisione del Novello, favorita dal
popolo, e all'amicizia che i banditi ostentavano
1) Vedi: Epistola 111.
2) Vedi: De Gestis Ital. ecc. Lib. IV. Rub. II.
3) Nofi per justitiain, sed per partem. Lib. I. Cap^
XV.
78 ALBERTINO MUSSATO
per Cane, dovrà convenire essere stato quello
dei reggitori di Padova atto di suprema pru-
denza, col quale impedirono, forse, novelli di-
sordini, che nella città ostile allo Scaligero si
sarebbero in breve manifestati.
Guglielmo Novello dei Paltanieri di Monse-
lice, notissimo pe' suoi sentimenti ghibellini, era
considerato come uno dei capi del partito. Un
giorno, mentre si trovava nella sala del Con-
siglio, fu improvvisamente assalito ed ucciso
da alcuni assassini per ordine di Antonio da
Carmignano. Si disse queiruccisione essere stata
commessa per atterrire i partigiani dell'Impero ;
fatto sta che gli uccisori, e per la potenza di
chi li aveva mandati e pel favore del popolo,
poterono uscire incolumi dalla città. All'annun-
zio della morte di Guglielmo, Rinaldo Scrove-
gni, altro dei capi del partito ghibellino, fuggi
a Vicenza ed offerse sé stesso e il suo castello
di Trambache a Cane ; ma questi, temendo la
potenza dei Padovani, non volle accettare ; onde
Rinaldo fu, per ordine di Padova, mandato in
esiglio a Capodistria ^). Tutto questo avvenne
nella seconda metà di febbraio del 1312.
Il partito imperiale, che vedemmo cosi scarso
1) Cort. Lib. I. Gap. XV
CAPITOLO TERZO 79
nella votazione del famoso consiglio, tenuto il
15 febbraio, andava perdendo terreno ogni gior-
no più. I giovani particolarmente si mostravano
avversi all' Imperatore ed ardevano dal desiderio
di venire alle mani con Cane, nella certezza di
riacquistare alla Repubblica ciò che aveva per-
duto e di ritornarla alla potenza di pochi anni
innanzi. I vecchi, ammaestrati dall'esperienza,
prevedevano invece la totale rovina della città,
e disapprovavano altamente la defezione di que-
sta all'Imperatore; sennonché i loro consigli ve-
nivano accolti dai giovani con sorrisi di scher-
no. Erano appena incominciate le ostilità con
Cane, e i giovani andavano dicendo, che il ter-
ritorio di Vicenza, devastato dal fuoco, sarebbe
caduto in potere di Padova, che Cane avea po-
sto ogni fiducia nei luoghi fortificati, perchè non
avrebbe mai osato di venire alle armi in campo
aperto coi Padovani; tanto era grande il va-
lore di questi ! Vicenza in breve sarebbe stata
.presa ; Verona e la Lombardia avrebbero obbe-
dito ai comandi di Padova. Consigliassero adun-
que i vecchi, cui la tarda età è maestra, di
muovere verso Vicenza, né di tornare indietro
se non dopo averla vinta. Il ferro si doma men-
tre é caldo ; l' ingiuria si vendica mentre è re-
cente.
80 ALBERTINO MUSSATO
Alle inliammate parole dei giovani, i vecchi
rispondevano : Avesse voluto il cielo che i Pa-
dovani, signori di Vicenza, avessero procurato
di sostenere i Vicentini nella loro libertà anche
col soccorrerli. Padova ora vivrebbe in pace:
ne il Signor di Verona sarebbe stato collocato
dall'Imperatore in Vicenza, il che può essere
causa della rovina della Marca Trivigiana ; poca
favilla gran fiamma seconda. Non v' ha nulla
che si faccia agli altri che non possa esser fatto
a noi stessi. A che rallegrarsi che Vicenza e
Verona vengano devastate dal fuoco ? La stes-
sa cosa potrebbe accadere a Padova. Si faccia
adunque la pace, a cui tende ogni uomo, come
ad ultimo fine, e senza cui nulla può esservi
di lieto ! Essi avean veduto i tempi di Ezzeli-
no da Romano, erano stati spettatori delle cru-
deltà di quel feroce. Chi poteva assicurare che
in causa della guerra non si ritornasse sotto
un dominio pari a quello? I giovani allevati
in pace, alieni da ogni arte guerresca, cercas-
sero la pace ; poiché nella guerra il loro ardore
giovanile potrebbe condurre a rovina.
Tali saggi consigli i giovani schernivano
dicendo : (Costoro sono rimbambiti, poiché non
vogliono vendicarsi dei nemici di Padova ; a-
scoltiamo il consiglio di coloro che voglio-
CAPITOLO TERZO 81
no Vicenza o che bramano di vivere con
onore.
L' entusiasmo per la guerra s' era fatto in
breve così grande che nessuno, per timore della
morte, osava far parole di pace ^).
La defezione di Padova ad Arrigo era già
stata notilicata il 21 febbraio 1312, per let-
tera a Firenze, eh' era il capo del partito guel-
fo ~), e le ostilità fra Padova e Cane ruppero
col principio di marzo dello stesso anno. Il Mus-
sato ebbe, come vedremo, parte grandissima in
quelle lotte;, nelle quali si mostrò non meno va-
loroso colla spada di quello che si fosse mo-
strato colla parola nelle ambascerie e nelle
pubbliche adunanze.
I Padovani fecero dapprima scorrerie nel ter-
ritorio vicentino e veronese, ove devastarono e
abbruciarono ogni cosa. Capitanati dal Conte
Rizzardo Vinciguerra veronese, nemico acerri-
mo di Cane, s' impadronirono dei castelli di
Montagnana e di Cologna. Imbaldanziti da que-
sti successi, volsero quindi il pensiero a Vicen-
za. Da certe congetture stimavano che i Vicen-
tini fossero già stanchi della signoria di Cane
1) Cori. De Bisputatione semiin cion jiivenibus et
quasi prophetia futurorian. Lib. I. Gap. XVI.
2) Bonaini Ada Henrici VII. 1877.
6
82 ALBERTINO MUSSATO
e pentiti d^ essersi, con poca prudenza, sottratti
al dominio di Padova. Pensavano i Padovani:
se noi ci accostiamo con grosso esercito alla
città e promettiamo ai Vicentini di perdonar
loro ogni trascorso, purché si sottomettano di
nuovo al nostro potere, è certo eh' essi si ri-
bellano a Cane e, scosso l'abborrito giogo, si
danno a noi. Animati da questa speranza, ca-
valcarono verso Vicenza. Giunti al ponte di
Quartesolo si soffermarono e, non vedendo no-
vità alcuna dalla parte di Vicenza, mandarono
innanzi un drappello di fanti leggeri ad esplo-
rare come stessero le cose di là dal fiume. Fatti
mille passi, i fanti videro venirsi incontro i Vi-
centini, coi vessilli imperiali e colle insegne de-
gli Scaligeri, divisi in due schiere, l'una a poca
distanza dall'altra. Gli esploratori non si per-
dettero d'animo ; ma, senza por tempo in mez-
zo, vennero a lotta, benché ineguale, coi ne-
mici. La battaglia fa incominciata con alte gri-
da da una parte e dall'altra. I Vicentini, dopo
breve combattimento, furono volti in fuga ; non
pochi rimasero morti sul campo.
Cangrande, intesa la disfatta, volò da Ve-
rona a Vicenza, e poiché sospettava che ne
avesse avuto colpa la fazione dei guelfi Vicen-
tini, ne dannò a morte parecchi, ad altri im-
CAPITOLO TERZO 83
pose grosse taglie ; quelli che s' erano sottrat-
ti colla fuga alla • vendetta, n'ebbero pubbli-
cati i beni e furono dichiarati nemici dell" Im-
pero ^).
I Padovani incoraggiati dalla vittoria, si vol-
sero con tutto Tesercito a Marostica, terra del
distretto vicentino, e, dopo averla espugnata,
tentarono di muovere l'assalto alla rocca, posta
in luogo eminente. Due giorni durò quell'as-
salto, dopo i quali, vedendo gli assedianti che
le spese avrebbero superato di gran lunga il
vantaggio della vittoria, desistettero dall'im-
presa. Il Mussato fu veduto in quell'occasione,
aiutato da' suoi, spingere sull' ultima cima di
quel colle un ariete da collocarsi alle porte del
castello. L'ariete in mezzo alla grandine, onde
lo saettavano quei terrieri^ già stava per toc-
care la cima, allorché Albertino, guardandosi
intorno, si vide abbandonato con soli dodici va-
lorosi. Sentendosi impotente alla diffìcile impre-
sa, dovette cedere e ritirarsi -). Questi fatti
avvennero nell'aprile del 1312.
Cangrande, desideroso di vendetta, riunì un
grosso esercito, composto di Mantovani, di Ve-
1) Hist. Aiig. Lib. IV. Rub. VI. Cort. Lib. I. Cap. XV,
2) De Geslis Hai. ecc. Lib. IV. Rub. II.
84 ALBERTINO MUSSATO
ronesi, di Vicentini, e corse ad espugnare il
castello di Mota che apparteneva ai Padovani.
In breve il castello s' arrese, e Demetrio, clie
n' era il Signore, fu fatto prigione e mandato
à Vicenza, dove mori in carcere. Lo Scaligero
si volse quindi a Camisano ; ma, respinto da
Martino Cane, dovette ritirarsi ^). Poco ap-
presso prese col suo esercito la via diretta per
Padova e devastò lungo il cammino quante più
ville potè. I Padovani già se lo vedevano alle
porte della città, e n'erano spaventati, allorché
il valoroso Rizzardo Vinciguerra, riunito l'eser-
cito padovano, seppe opporsi a Cane, con tanta
efficacia, che questi non potendo sostenerne l'im-
peto, mandò in fretta per soccorso a Guarnieri
di Homburg, vicario imperiale di Lombardia.
A'enne tosto Guarnieri e, dopo avere per un
giorno e mezzo devastato col suo esercito il
territorio padovano e abbruciate le ville di Ro-
volon e di Zovon, carico di bottino, ritornò
senz' altro alla sua sede ~).
I Padovani intanto s' erano uniti col mar-
chese Francesco d'Este e con Guecello da Ca-
mino, Sicrnore di Treviso, Feltro e Belluno, af-
1) Hist. Aug: Lib. VI. Rub. II. e III.
2j Hist. Aug. Lib. VI. Rub. Vili, e IX.
CAPITOLO TERZO 85
fine d'intraprendere una nuova spedizione con-
tro Vicenza. Padova a que' giorni era piena
di fiducia nelle sue forze e presagiva bene del
suo avvenire, poiché gli avvenimenti le si vol-
gevano favorevoli. L' Imperatore era lontano ;
Rizzardo da Camino, vicario imperiale di Tre-
viso, Feltre e Belluno, era stato ucciso, e suo
fratello, che gli era successo nella Signoria,
aveva rinnovato immediatamente l'alleanza con
Padova.
Stava Rizzardo giuocando agH scacchi, come
era costume dei nobili d' allora, quando gli si
avvicinò un contadino che, tratta di sotto la
veste una ronca, lo percosse mortalmente nel
capo. Il contadino fu fatto a brani dagli astan-
ti. Si disse che fosse stato mandato da alcuni
nobili trevigiani, che erano fra i più diletti a
Rizzardo ^). Guecello, successo a lui nella Si-
gnoria per voto comune, rinnovò, come dicem-
mo, l'alleanza coi Padovani, i quali, col suo
aiuto e con quello del Marchese di Este, si
1) Cort. Lib. I. Gap. XVIII.
A costui e alla sua morte allude l'AUgbieri nei versi
E dove Sile e Cagnan s" accompagna
Tal signoreggia e va con la test' alta
Che già per lui carpir si fa la ragna.
(Paradiso IX).
86 ALBERTINO MUSSATO
avanzarono di nuovo nel giugno 1312 verso
il ponte di Quartesolo, depredando ogni cosa al-
rintorno. Furono n:iandati innanzi alcuni uomi-
ni, fra i quali il Mussato, ad esplorare se Vi-
cenza potesse essere espugnata. Questi riferi-
rono non doversi insistere nell'idea d'asse-
diare la città, poich' essa era fortemente mu-
nita all' intorno, ed oltre a ciò Cane, al di
dentro, con grande numero di soldati, ne ve-
gliava alla difesa. Fu stabilito di ritirarsi; ma
alcuni audaci vollero spingersi prima al ponte
di Longare, devastando i campi dei nemici.
Benadossio da Parma, eh' era a capo di quelli,
gridava perchè desistessero dalla temeraria im-
presa^ essendo i nemici nascosti dentro le tor-
ri; ma poiché vide che nessuno gli dava ascol-
to, corse anch' egli sul ponte. I Vicentini usci-
rono d'improvviso dalle torri e si scagliarono
addosso ai Padovani, molti dei quali- precipi-
tarono nel fiume e fra gli altri Benadossio,
che mori annegato.
Saputa la trista nuova, i Padovani manda-
rono in soccorso dei loro fratelli buon numero
di mercenarii, che mutarono le sorti della bat-
tagha. I nemici furono messi in fuga ; moltis-
simi restarono sul campo. L' esercito padovano
andò ad accamparsi alla villa di Longare, col-
CAPITOLO TERZO 87
r intenzione di abbattere l'argine, oltre il quale
i Vicentini aveano fatto deviare il Bacchigliene
a danno di Padova. Cane volò da Vicenza a
difesa di quell'argine e, respinti i nemici, fece
uscir le acque del fiume che allagarano le cir-
costanti campagne. I Padovani, veduto riuscir
vano ogni tentativo, fortificato il castello di
Montegalda, a presidio dei loro confini, dopo
piccole rappresaglie, si ritirarono in città ^).
Ma il desiderio di rimettere nell' antico alveo
il Bacchiglione non li lasciava aver pace. Verso
la fine di luglio di quell'anno, essi costruirono
di nottetempo presso Longare un ponte di le-
gno, e sul far dell' aurora passarono il fiume,
avanzandosi con suoni di trombe e con gridi
di allegrezza. Giunti a Longare fecero sosta,
e mandarono innanzi alcuni esploratori, perchè
vedessero se dalla parte di Vicenza si manife-
stasse nessun movimento. Questi s'abbatterono
per via in alcuni nemici a cavallo, parte-^dei
quali misero in fuga, parte fecero prigionieri.
Dopo di ciò i Padovani fecero intendere, per
la seconda volta, ai Vicentini che avrebbero
loro perdonato ogni cosa, purché fossero ritor-
1) Hist. Aug. Lib. VI. Rub. XI. e XII. Con. Lib. I.
Gap. XVIII
88 ALBERTINO MUSSATO
nati all'antica obbedienza; ma, non avendo
avuto risposta, si diedero a devastare i campi
e ad incendiare le ville del territorio di Vi-
cenza, dopo di che rimisero il Bacchiglione nel
suo letto.
L'esercito si volse quindi a Lonigo. Alcuni
degli abitanti, che parteggiavano pel Conte Vin-
ciguerra, avevano, d'intesa coi Padovani, ap-
piccato il fuoco alla villa, perchè coloro che
erano a difesa della rocca, percossi dal terro-
re, si arrendessero più facilmente. Ma la cosa
non ebbe effetto; poiché, non ostante la villa
ardesse quasi per intero, la rocca fu difesa
con tanto valore dal presidio veronese, postovi
da Cane, che i Padovani dovettero abbando-
nare r impresa. Il Mussato ascrive a colpa dei
suoi concittadini il non aver superato quella
rocca. Egli dice che, vinto Lonigo, sarebbe ca-
duta anche Vicenza e che la guerra sarebbe
stata finita ; ma i Padovani non vollero sfor-
zarsi di raggiungere la fortuna, che loro arri-
deva. In quel giorno i terrieri aveano già ab-
bandonato i ripari e le adiacenze ali" intorno,
quando il Mussato si gettò nelle fosse, ecci-
tando i soldati a seguirlo. Neil' uscire vide le
soldatesche che fuggivano. Come furibondo le
richiamò indietro e le rimproverò acremente,
CAPITOLO TERZO 89
additando loro il castello mezzo espugnato. In-
vano ! Cariche di preda continuavano la fuga ^).
L'esercito si rivolse quindi all'assedio di Poiana
terra fortissima, dove Albertino diede novella
prova del suo valore.
Era Poiana tra i confini di Padova e quelli
di Vicenza. In essa riparavano, come a sicuro
asilo, quanti eran ladri ed assassini nei din-
torni, i quali uscivano, di tempo in tempo, a
depredare le circostanti campagne, mettendo lo
spavento negli abitanti. Ai Padovani importava
moltissimo l'occupar quella terra, una delle più
munite di Cane, per aver libero il passo, ogni
qualvolta avessero voluto entrare per quella
parte nel territorio vicentino, il che fino a quel
punto era stato loro impedito. La cinsero per-
tanto d'assedio. I difensori opposero, per una
intera giornata, valida resistenza, scagliando
pietre e frecce senza numero sugli assedianti,
per modo che questi cominciavano a disperare
della riuscita. Quand' ecco, sul far della sera,
sopraggiunse Mussato, il quale, impugnata la
bandiera del quartiere di Ponte molino e fatte
gettare attraverso le fosse lunghe travi che
servissero come di ponte, s'aperse la via col
1) De Gestis Ital. ecc. Lib. IV. Rub. II.
90 ALBERTINO MUSSATO
ferro e superò le mura. I difensori, atterriti
dallo spavento e dalla violenza dell'attacco^ ce-
dettero, ed Albertino fece gettare il fuoco sui
tetti delle case. Accorso in suo aiuto il rima-
nente dell' esercito padovano, i nemici furono
inseguiti fin dentro la rocca, espugnata la qua-
le, la vittoria fu completa.
Il Mussato, che parla nelle sue storie con
giusta compiacenza di questo fatto, si lagna
che i vinti nemici, i quali dovevano esser te-
nuti prigioni, -siano stati, nel giorno seguente,
lasciati partire con ciò che possedevano ^).
Mentre l'esercito padovano intendeva all'as-
sedio di Poiana, Cangrande, con forte numero
di soldati;, devastava il territorio di Padova.
Aveva già preso il ricco villaggio di Curtarolo,
mettendolo a fuoco e facendo strage degli abi-
tanti, allorché, avendo inteso che Guecello da
Camino, Pagano della Torre, vescovo di Pa-
dova, e Gualpertino Mussato, abate di Santa
Giustina, venivano in soccorso di Curtarolo,
abbandonò la preda e si rifugiò in Vicenza. I
Padovani, ritenendosi superiori di forze a Ca-
ne, capitanati da Guecello, cavalcarono a Vil-
t
-^- «^ >
1) nisf. Aufj. Li-b. VII. Rub. X. De Geslis Hai. Lib.
IV. Rub. II.
CAPITOLO TERZO 91
laveria e quindi proseguirono fino alle porte
di Vicenza, devastando ed incendiando ogni
cosa. Cane usci dalla città, e Guecello avrebbe
voluto appiccar battaglia con lui, ma ne fu
sconsigliato per la vicinanza della città. Verso
la fine di settembre (1312) per la via di Cit-
tadella, l'esercito ritornò in Padova ^).
Fino a questo punto le sorti della guerra
si erano mostrate favorevoli a Padova, tanto
eh' essa si riteneva ormai sicura del buon esi-
to, credendo le proprie forze superiori a quelle
di Cane, di cui s' era formato un assai me-
schino concetto ') ; nò la sua fiducia sarebbe
stata fuori di proposito, se tutti coloro che le
si professavano amici, fossero stati tali vera-
mente. Eir ebbe ad accorgersi ben presto che
alcuni di coloro ne' quali aveva posta maggior
fede, e che, meglio degli altri, avrebbero po-
tuto giovarle, piuttosto che essere animati dal
desiderio del bene di lei, miravano al proprio
interesse personale, pronti a tradirla ogniqual-
volta si fosse presentata ì" occasione propizia.
Dicemmo come Guecello da Camino avesse
i) Hisf. Aug. Lib. VII. Rub. X. e XI. Cort. Lib. I.
Gap. XYIII.
2) Paduani relevanlur in alluni, quasi Dominum
Canem prò nihilo reputantes. Cort. Lib. 1. Gap. XIV.
92 ALBERTINO MUSSATO
stretta amicizia coi Padovani, affine di com-
battere con essi contro Cangrande. Di quel-
l'amicizia accolta con grande entusiasmo, i Pa-
dovani ebbero a pentirsi ben presto, poiché le
esigenze del Signore di Treviso divenivano, di
giorno in giorno, più esorbitanti. I meglio av-
veduti, tra i quali il Mussato, capivano molto
bene a che tendesse Guecello, e gli tenevano
di continuo gli occhi addosso. Lo scopo suo
era quello di farsi, a poco a poco, Signore di
Padova : ma questo egli intendeva conseguire
in modo che i Padovani si fossero trovati un
bel giorno, quasi senza accorgersene, sotto il
potere di lui, impotenti a liberarsene. La sua
intenzione, pertanto, non differiva punto da quel-
la di Cangrande, sennonché questi era un ne-
mico aperto contro il quale si poteva combat-
tere fino air ultiuio, prima di cedere ; mentre
Guecello copriva i suoi malvagi propositi sotto
la maschera dell' amicizia.
Con un tal verme roditore nel seno, la Re-
pubblica non avrebbe potuto durare a lungo,
se gli- avveduti, di cui dicemmo, non avessero
posto un limite alle esigenze di Guecello. Esa-
gerando di continuo l'importanza del suo aiuto
ai Padovani, i quali, pur di tenerselo amico,
cercavano di onorarlo in tutti i modi e di sod-
CAPITOLO TERZO 93
disfare ogni suo desiderio, egli aveva ottenu-
to, oltre un palazzo in città, molte e ricche
possessioni dei fuorusciti, nonché la facoltà di
eleggere il Podestà, come difatti lo elesse nel-
la persona di Bornio dei Samaritani bolognese
suo favorito. Non contento di tutto questo,
voleva essere nominato capitano supremo della
guerra, con pieno potere di punire i trasgres-
sori degli ordini militari, adducendo non essere
i Padovani avvezzi alle discipline militari, e
quindi poter riuscire dannosi alla Repubblica,
qualora non avessero chi obbedire. Nel timore
di perdere la libertà, i Padovani s'opposero a
questo suo desiderio, ed egli tentò allora di
pervenire al dominio della città, allettando a
sé i più valenti. Ma quando vide di non riu-
scire a nulla, svelò l'animo suo ambizioso: Poi-
ché gli veniano negate quelle cose che solo a
vantaggio del popolo padovano egli chiedeva,
avrebbe provveduto a sé stesso ; a lui bastava
allontanare i nemici da' suoi confini e difendere
i campi trevigiani ; avrebbe prestato omaggio
all'Imperatore, né avrebbe nociuto a sé stesso
per giovare a degli ingrati. —
Egli credeva che, all'intender le sue minac-
ce, i Padovani, disperando delle loro forze, gli
avrebbero concesso quanto domandava ; ma
94 ALBERTINO MUSSATO
s'ingannò. Essi gli mostrarono apertamente di
non curarsi di lui. Guecello sdegnato si ri-
volse a suo cognato Enrico conte di Gorizia e
all'Arcidiacono di Aquileia, che parteggiava per
lo Scaligero , affine di trattare segretamente
con esso loro, per far lega con Cane ; la qual
cosa non appena seppero i cittadini di Treviso
si sollevarono, nella tema che Cane potesse
diventare signore della città loro, e, prese le
armi , cacciarono Guecello nel dicembre del
1312 ').
Le trame di Guecello contro la libertà di
Padova furono sventate in tempo ; ma egli non
era il solo che cospirasse a danno della Re-
pubblica, col proponimento di farsi signore della
città; c'era qualcun altro che mirava allo stesso
scopo, usando della maggiore astuzia.
S'era già manifestata in molte città d'Ita-
lia, che si reggevano liberamente, la tendenza
di alcuni fra i pricipali cittadini ad acquistare
la signoria assoluta. Per raggiungere questo
fine, essi cercavano di mostrarsi più. che mai
teneri della libertà e grandezza della patria,
largheggiavano in munificenze , profondevano
in lussi e in feste, alle quali potesse prender
1) Hisl. Aug. Lib. X. Rub. I.
CAPITOLO TERZO 95
parte anche il popolo, affine di rendersi a que-
sto sempre più accetti. Per tal via toccavano,
a poco a poco, la meta, e il popolo ingannato
sentiva, quando meno se lo sarebbe aspettato,
gravarsi sul collo il giogo impostogli dal no-
vello Signore. In Padova c'era più d'uno che
aspirava alla Signoria, e che vedeva per ciò,
con molto piacere, farsi, di giorno in giorno,
peggiore la condizione della città in mezzo a
tanti nemici. Ma qui non era così facile riu-
scire nell'intento come altrove. Quei cittadini,
che non aveano voluto sottomettersi all'Impe-
ratore, non avrebbero sofferto giammai che un
loro pari esercitasse sovr'essi un comando as-
soluto ; coloro poi che aveano consigliato la
sommissione ad Enrico , primo fra i quali il
Mussato, avrebbero impedito con ogni sforzo
la Signoria di un solo, per evitare la quale,
più che per altro , avevano forse , con tanta
insistenza, patrocinata la causa dell' Imperato-
re. E poi l'assoggettarsi alla tirannia di una
sola famiglia era per Padova, come osserva il
AVychgram, un regresso ; ben altra cosa era
l'assoggettarsi all'alta Signoria' dell' Imperato-
re, sotto la quale ciascuna città non era che
un membro di un gran tutto, senza esser co-
stretta a rinunziare alla propria particolare co-
96 ALBERTINO MUSSATO
stituzione ^). Egli è per ciò che il Mussato, al
quale non isfuggivano le intenzioni dei malva-
gi, strappò dal viso la maschera ad uno di
questi pretendenti, il quale, mentre avrebbe po-
tuto tornare col suo ingegno e colle siie ric-
chezze di utilità grandissima alla patria, se-
gretamente la tradiva per porre sé stesso a
capo della città. Era questi Nicolò da Lozzo,
del quale Albertino ci dà nella sua Storia il
seguente ritratto :
« V'era in Padova un uomo di nobilissima
stirpe, Nicolò da Lozzo, di mirabile eloquenza,
di profondissimo ingegno, d'immensa magna-
nimità, di liberalità profusa. Ma lo stimolo
d' una irrequieta invidia e un'ambizione senza
conlini traviavano queste virtù. Egli abborriva
le civili istituzioni, ad eccezione di quelle di
cui era stato autore egli stesso : segretamente
intollerante di chiunque gli fosse pari o mag-
giore nella città, riteneva suo biasimo l'altrui
lode, e perciò soleva odiare i buoni ed amare
1) Dass die Unterordiiung uuter die Tyrannis eines
einzigeu Geschleclites, wie die Dinge lagen, fiir Padua
einen Riickschritt bezeicdiiien iiiusste war klar. Ein An-
deres war die Oberherrscliart des Kaisers, untar die
jede Stadt nur das Gleid eiaes ungelieuren Gaazen oline
Verzicht auf selbstàndige Verfassung bedeutete. pag. 34.
CAPITOLO TERZO 97
gli adulatori. Nessuno era migliore di lui, quan-
do l'occasione, non la virtù, lo volgesse al be-
ne ; nessuno peggiore, quando si trattasse di
nuocere. Quante volte in Senato la sua elo-
quenza corroborava cause inferme ! Nell'uscir
dal Pretorio coloro stessi, i quali avevano san-
cito coi loro voti i decreti sostenuti da lui, li
detestavano; né il frequente pentimento li ri-
teneva dal ricadere in appresso nella stessa
colpa. Scoperto infedele, superava con inganne-
vole astuzia, gli sforzi di chi s'era fidato in
lui. Comperava i fautori coi doni, quali arric-
chendo, in onta alla religione, con sacre pre-
fetture e convertendo per abuso le ceremonie
divine a comodo dei secolari, quali con annue
largizioni, fino a consumare i suoi granai e le
sue vettovaglie ; alcuni arricchiva colle perdite
della Repubblica, altri col patrimonio dei po-
veri. Macchinatore di grandi cose, coll'aiuto di
costoro faceva in città ciò che meglio gli pia-
ceva, e molto giovava alle sue imprese la fa-
cilità che eravi allora di servire. Ma quantun-
que fazioso, non era mai stabile in un par-
tito ; seguiva sempre gli eventi più fortunati.
Ossequente alla plebe contro gli ottimati, men-
tre prevalsero i plebisciti; in consorzio cogli ot-
timati e feroce contro la plebe, se questa soc-
98 ALBERTINO MUSSATO
combesse, passava, con alterna vicenda, al par-
tito più felice, fosse questo guelfo o ghibellino.
Ora amico ora nemico dei Signori di Verona,
secondo le varie vicissitudini dei tempi. Era
tenuto grande per questo miscuglio di vizii e
di virtù. Né deesi lasciar da parte T esterno
d" un uomo cosi singolare. Biondo , rossigno,
aveva occhi bianchi, mobili, sporgenti, labbra
tumide, petto largo^ ventre voluminoso, gambe
gonfie, pustolose, sempre infermicele ; statura
piccola, ma robusta, vesti lunghe sino a terra
sovraccariche d'ornamenti ^).»
Costui, contro gli sforzi del Mussato per per-
suaderli del contrario , aveva istigato i Pado-
vani a ribellarsi all'Imperatore, non già per-
ch'egli credesse di salvare, in tal modo, la P^e-
pubblica, ma per giovare, se fosse stato pos-
sibile a sé stesso nei rivolgimenti che, in causa
della defezione , sarebbero avvenuti. Allorché
Vicenza cadde in potere di Cangrande corse
fama ch'egli fosse stato complice di quel fatto.
Il popolo lo voleva morto, e fu necessaria tutta
l'autorità dei principali cittadini, fra i quali il
Mussato, per salvarlo dalla proscrizione. Pri-
ma di tutto non v'era piena certezza ch'egli
1) Hist. Ai'Q. Lib. X. Rub. II.
CAPITOLO TERZO ^ 99
fosse colpevole; in secondo luog-o , potente co-
m'era, avrebbe potuto, insieme coi nemici, sov-
venire i ribelli a danno della città. Ma la le-
zione" non ebbe alcuna efficacia suir animo di
lui, poiché non cessò di cospirare continuamente
insieme coi faziosi, fìngendosi ghibellino coi
ghibellini, guelfo coi guelfi, per meglio coprire
le sue trame e riuscire nell'intento. Nelle pub-
bliche adunanze sparlava di Cane, lo diceva ve-
nuto su dal fango, disceso da un sordido ven-
ditore di olio, lo chiamava atroce, scellerato,
intollerabile e, quasi ciò non bastasse, propose
in Consiglio di dare diecimila fiorini d'oro, in-
sieme con molti privilegi, a chi lo avesse uc-
ciso. Frattanto in segreto trattava collo Sca-
ligero a danno della Repubblica. D'accordo col
suo degno amico Antonio da Curtarolo, il quale
reggeva Este in nome di Padova, aveva sta-
bilito di dare, a un dato giorno, in mano a
Cane Lozzo, Este e Monselice, ed intanto mu-
niva il suo castello a spese dei Padovani. Nelle
taverne e nelle piazze già s'incominciava a su-
surrare di tradimento, allorché i principali della
città, vedendo come fosse stoltezza il fidarsi di
colui, dal quale erano stati ingannati tante vol-
te, si riunirono in consiglio a discutere sul mo-
do di evitare il pericolo. I più furono d'avviso
100 ^ ALBERTINO MUSSATO
si dovesse dissimulare la cosa e mandare a Ni-
colò due messi, che lo invitassero a Padova
per affari della Repubblica. Al Mussato, ch'era
il più avveduto del Consiglio, e che compren-
deva molto bene a che tendesse isicolù, parve in-
sufficiente tale misura, e, pur approvando che
si mandassero a Nicolò i due messi , propose
che si spedisse nascostamente, di notte, parte
della milizia padovana a Lozzo, affinchè occu-
passe il castello prima che vi entrassero i ne-
mici; si lasciasse poi piena libertà a Nicolò di
recarsi a Padova, o di rimanere a Lozzo. Il
provvedimento parve esagerato al Consiglio,
né fu accolto ; si temeva la potenza di Nicolò,
e si cercava renderlo benigno alla Repub-
blica.
Quanto avesse ragione il Mussato e come la
sua proposta fosse assennata dimostrarono i
fritti non molto dopo. Furono adunque spediti
a Lozzo i due raess^'i/ ai quali Nicolò promise
ch'entro tre giorni si sarebbe recato a Padova.
Frattanto stette aspettando il Conte di Ilom-
burg, che doveva comparire col suo esercito
e con Cane; ma poiché vide che tardava,
stette incerto sul da farsi. Este era bene assi-
curata dalle milizie padovane, ed egli pensò di
affrettare la venuta di Cane a Lozzo, il qua-
CAPITOLO TERZO 101
le vi andò. Ciò avvenne ai 22 dicembre del
1312.
Appena saputa la cosa, i Padovani cavalca-
rono verso Lozzo. Per via scorsero globi di
fumo innalzarsi dalla villa di Arqucà, incendiata
dalle milizie di Cane, capitanate da Antonio
da Curtarolo. Fatti certi del sito pel quale
erano passati i nemici^ ne chiusero tutti gli
aditi, sicché quelli furono costretti ad arren-
dersi. Antonio da Curtarolo dovette alla cono-
scenza ch'egli avea di quelle strade e alla ce-
lerità del cavallo, se potè sfuggire alla vendetta
dei Padovani e ricoverarsi in Lozzo. Esultanti
per la vittoria, si ridussero questi coi prigio-
nieri, sul far della sera, in Este, donde, colle
macchine da guerra e con un grosso esercito,
mossero all'assedio di Lozzo. Ma la fortuna fu
loro nemica ; poiché il freddo intenso di quella
notte impedì che potessero prendere il castello.
Il giorno appresso corse voce che il Conte
Guarnieri di Homburg si avvicinava a Verona,
coi soldati di Lombardia, in aiuto di Cane. A
questa notizia i Padovani s'affrettarono di mu-
nire Este e Monselice. Guarnieri, accompagnato
da Cane, entrò infatti poco dopo in Lozzo. Di
là uscì co' suoi a devastare le ville poste ai
piedi di Venda, e prese d'assedio il castello
102 ALBERTIXO MUSSATO
di Nicolò di Castelnovo, difeso invano da suo
figlio Albertino. I Signori di Castelnovo erano
consanguinei del traditore di Lozzo ^).
Cane, fatto baldanzoso pei lieti avvenimen-
ti, invitò, per lettera, i Padovani ad una bat-
taglia in campo aperto. Confortati dal loro va-
loroso Podestà, Bornio de' Samaritani, essi ac-
cettarono e gli risposero, che scegliesse egli
stesso il luogo opportuno. Cane scelse la pia-
nura a pie di Montegalda : ma voleva la bat-
taglia nel giorno seguente. I Padovani, che
aveano l'esercito disperso parte ad Este parte
a Monselice e in altri luoghi, domandarono
tre giorni di tempo. Lo Scaligero non ne volle
sapere e, lasciato Lozzo, andò co' suoi a Vi-
cenza ; Guarnieri fece ritorno in Lombardia *).'
A vendicarsi di Cane, che avea loro tolto
Lozzo, i Padovani cavalcarono segretamente a
Legnago ; ma non avendo potuto prenderlo,
perchè difeso valorosamente, distrussero ogni
cosa all'intorno ed abbruciarono molte ville bel-
lissime, dopo di che ritornarono ad Este ca-
richi di preda. Ciò avvenne il 2 feb. 1313 ^).
Il traditore di Lozzo ebbe la ricompensa
1) Hist. Aug. Lib. X. Rub. IV.
2} Eisl. Aug. Lib. X. Rub. V.
3) Hist. Av.g. Lib. XIL Rub. L Cort. Lib. l. Gap. XIX.
CAPITOLO TERZO 103
che si meritava. Cane, nonché mostrargU gra-
titudine, gli abbruciò il castello ed i palazzi.
Duplice ragione ve lo indusse : le spese in-
sopportabili e la paura d'un assedio da parte
dei Padovani ^).
Né Nicolò fa il solo nemico interno, contro
cui Padova dovette lottare. La tendenza a ri-
bellarsi alla Repubblica si manifestava in molti
dei principali cittadini ogni giorno più.. Soli-
mano de Rossi, benché nato di famiglia guelfa,
aderiva alla fazione dei ghibellini, e perciò
era malcontento del modo con cui veniva retta
la città. Possedeva un forte castello nella villa
di Brazolo e, poiché non voleva pagare le im-
poste che le condizioni della Repubblica in que'
giorni esigevano, sofferse di demolire le proprie
case in città, e si ritrasse superbamente nel
suo castello. I Primati stabilirono di richia-
marlo all'ordine e di venire con esso lui ad una
conciliazione, ma egli si recò dall'Abate di S.
Giustina e lo assicurò non avere alcuna mal-
vagia intenzione contro la Repubblica. Gli diede
in pegno un proprio tiglio giovinetto, cui l'Abate
avrebbe potuto flagellare e perfino uccidere, se
1) Hist. Aug. Lib. XII. Rub. III. Il Ferreto dice che
fu Nicolò stesso che diede fuoco al castello, vedendosi
impotente a difenderlo.
104 ALBERTINO MUSSATO
egli avesse mai tentato di ribellarsi alla Re-
pubblica ; invocava, in cambio, il patrocinio del-
l'Abate contro i propri avversarli e principal-
mente in difesa del suo castello. L'Abate ac-
colse benignamente le discolpe di Solimano, ab-
bracciò padre e figlio e li presentò ai Primati.
Combinata ogni cosa, Solimano, lasciato il fi.-
glio in ostaggio all'Abate, se ne tornò a Bra-
zolo. In quella, fece ritorno da Legnago col-
l'esercito il Podestà Bornio, il quale, saputa
la cosa, disse non potersi permettere che un
cittadino, per aver dato in ostaggio il proprio fi-
glio, vivesse secondo una legge particolare, con-
tro i costumi e le istituzioni della Repubblica.
Solimano citato a scolparsi ed invitato all'ob-
bedienza, fìnse malattia, per cui Bornio, per
decreto dei Primati, mosse di nottetempo colla
milizia dal quartiere di Torricelle verso Bra-
zolo, conducendo seco il figlio di Solimano e
due figliolette, una di cinque e l'altra di tre
anni, per appenderli alle forche in cospetto del
padre, o per opporli a' suoi dardi, s'egli non
si fosse arreso. Solimano tenne testa dapprima
a' suoi concittadini ; ma, poiché vide tornargli
inutile ogni sforzo, ricorse ad un'astuzia: do-
mandò di consultare l'Abate di S. Giustina e
Zauiboneto Capodivacca suo parente. Fatto ca-
CAPITOLO TERZO 105
lare il ponte levatoio, andò loro incontro- con
placido volto; quand'ecco, nell'atto che stava
per abbracciare l'Abate, il ponte fu alzato, se-
condo l'istruzione che egli avea data a' suoi,
e r Abate e Zamboneto rimasero suoi prigio-
nieri.
I Padovani indignati posero, con tanta vio-
lenza, l'assedio al Castello , che Solimano fu
costretto a chieder la pace; se non gli veniva
accordata, spinto dalla disperazione, per ven-
dicare i propri tigli, avrebbe esposto l'Abate
e Zamboneto alle spade dei loro concittadini.
Stettero i Padovani alquanto incerti sul da farsi.
Albertino, non ostante l'amore grandissimo che
portava al fratello, come si rileva da più luoghi
delle sue opere, insisteva si dovesse pensare,
anzi tutto, al bene comune. Dopo lunga incer-
tezza, fu stabilito che Solimano se ne partisse
co' suoi. Egli, fiducioso, commise sé e le sue
cose a Zamboneto. Non l'avesse mai fatto!
Nell'uscir dal Castello, Zamboneto, infiammato
di sdegno al pensiero del perfido tradimento che
Solimano gli avea ordito contro, diede a' suoi,
che n'erano grandemente desiderosi, l'assenso
di ucciderlo. Sohmano, coperto di ferite, cadde
nel luogo stesso, dove avea sedotto l'Abate e
Zamboneto. A questo il popolo perdonò la man-
106 ALBERTINO MUSSATO
cata fede, sentenziando che la frode dee ven-
dicarsi colla frode ^). Ciò avvenne nel febbraio
del 1313. Il Castello di Brazolo fu distrutto,
i beni di Solimano confiscati, i figli banditi ').
Non è a dire se Cane godesse di queste
guerre intestine della nemica Repubblica; egli
si vedeva, per tal modo, agevolata la via a di-
venire Signore di Padova ^). Aveva egli stesso
lusingata, con promesse, l'ambizione di que' ri-
belli, che, fidenti nella potenza di lui, s'erano
opposti alle leggi della Repubblica, Quando poi
si videro ridotti a mal partito, senza ch'egli
pensasse menomamente a soccorrerli, s'accor-
sero troppo tardi di essersi ingannati e di aver
cooperato, danneggiando se stessi, alle mire del
Vicario imperiale. Le cose di Padova volgevano
alla peggio; le dissensioni interne ne avevano
stremato le forze, e Cane, vedendosi prossimo
a raggiungere il suo intento, coglieva l'occa-
sione propizia, per rendere ancora più misera
la condizione della città, coll'indurre Enrico VII
a promulgare contro di essa una terribile sen-
1) Uisl. Aug. Lib. XII. Rnb. II.
2) Cort. Lib. I. Gap. XIX.
3) Exortaque Cani Grandi Icelitia, dum impUcilos
hostes viieritjam commodius ac facilius coìifligendos.
Hist. AuiT. Lib. XII. Rub. II.
CAPITOLO TERZO 107
tenza, la quale, per fortuna, non ebbe effetto
veruno. Quella sentenza parve cotanto severa,
anzi cotanto ingiusta, ai Padovani, che l' odio
loro contro lo Scaligero, dal quale ritenevano
fosse stata provocata, toccò il sommo.
11 popolo, più fedele alla Repubblica, l'aveva
sempre odiato a morte. Prima di questo tem-
po. Cane cavalcava un giorno poco lungi da
Padova, oltre le Brentelle, seguito da due dei
suoi, quand'ecco fa circondato improvvisamente
da tre contadini di quei luoghi, che gli uc-
cisero il cavallo e fecero stramazzare a terra
il cavaliere.
Guai a lui se i suoi non l'avessero sottratto,
senza indugio, alle mani di quei villici furibon-
di ! ^). Un'altra volta i Padovani si recarono
di nottetempo, con numeroso esercito, tìn quasi
sotto le mura di Vicenza e si nascosero in
un'imboscata, donde mandarono innanzi alcuni
fanti leggeri, per istigar Cane ad uscire dalla
città. Speravano di potergli chiudere la via al
ritorno e farlo prigione; ma al chiarir dell'alba
furono scoperti, ne Cane si mosse da Vicenza ^).
L'Imperatore, come è chiaro dopo quanta
1) Hist. Aug. Lib. Vili. Rub. IX.
2) Hist. Aug. Lib. XIII. Rub. X.
108 ALBERTINO MUSSATO
siamo venuti narrando fin qui , aveva le sue
buone ragioni , per dichiarare i Padovani ri-
belli dell'Impero; s'aggiunga che questi ave-
vano mandato di recente aiuti a Firenze con-
tro di lui. Ma forse non sarebbe venuto si pre-
sto nella determinazione di emanare contro di
loro la sentenza, se non vi fosse stato indotto
dalle continue querele degli esuli, e quel che
è più, dalle instigazioni di Cangrande, al quale,
come osserva il Wychgrara, diede forse un fa-
vorevole appiglio lo scambio di lettere fra Ro-
berto di Napoli e Padova, lettere che il Mus-.
sato riproduce nella sua Hìstoria Augusta, e
nelle quali Padova non mostra cosi chiaramen-
te il desiderio di un'alleanza con Roberto, che
Cane potesse farne giusto fondamento di ac-
cusa ^). Nella terribile sentenza, l'Imperatore,
dopo di avere enumerato tutti i torti dei Pa-
dovani verso l'Impero, passa alle pene che
vuol loro inflitte. Toglie ad essi il diritto di
eleggersi il Podestà, abolisce il pubblico Stu-
dio, ]i priva del diritto di conferire la laurea,
nonché delle franchigie, privilegi, immunità,
onori, feudi e diritti d'ogni sorta, che da lui
o da' suoi predecessori fossero • stati loro con-
1) Wychgram. Op. cif. pag-. 37.
CAPITOLO TERZO 109
cessi, ch'essi avessero, in qualunque modo,
acquistati; comanda che sieno atterrate le mura
e le fortificazioni della città, cosicché sia li-
bero l'entrare e l'uscire a chiunque e da tutte
le parti. Oltre a ciò impone che il Comune e
r Università paghino alla regia Camera dieci-
mila libbre d'oro ; dichiara banditi da tutto
l'Impero i Padovani, che potranno venire of-
fesi impunemente da chiunque, presi e fatti
schiavi; quelli poi che un giorno o l'altro aves-
sero a cadere nelle mani dell'Imperatore sa-
ranno sospesi alle forche. Priva i giudici, gli
avvocati, i notai del diritto di esercitare il loro
officio, vieta alle città, ai castelli, alle ville
soggetti all'Impero di dare apertamente o na-
scostamente aiuto, consiglio o favore a Padova
a' suoi cittadini, pena grossissime multe; scio-
glie dalle loro obbligazioni tutti coloro che ne
avessero contratto con la città o con alcuno
dei cittadini, dichiara finalmente immuni dalle
pene gli appartenenti alla famiglia imperiale,
gli esuli dalla città per ragione di partito o di
fedeltà all'Imperatore e tutti coloro, ch'entro
due mesi, si fossero assoggettati fedelmente ai
mandati dell' Impero ^).
1) Hist. Aug. Lib. XIV. Rub. VII.
liO , ALBERTINO MUSSATO
Dicemmo cpme i Padovani rimanessero in-
dignati alla notizia di questo bando. Esso parve
loro , oltre ogni dire, esagerato ed ingiusto,
benché le pene minacciate difficilmente potes-
sero, né allora né poi , essere dall' Imperatore
inflitte. Una sentenza consimile esli avoa a:ià
pronunciato contro i Fiorentini dal suo tribu-
nale eretto in Pisa. Ad essi, oltre i privilegi
annullati, i giudici ed i notai cassati, aveva in-
flitto una multa di centomila fiorini e avea
tolto il diritto di batter moneta ^). Ma più ter-
ribile ancora fu la sentenza che Enrico pro-
nunciò contro Roberto re di Napoli (7 mag-
gio 1313), nella quale lo dichiarò decaduto
dal trono, come colpevole di lesa maestà verso
di lui, e, nello stesso tempo, sciolse i sudditi
dall'obbligo di obbedienza, vietando loro di più
prestargli omaggio ; che se, per caso, gli fosse
caduto nelle mani, gli avrebbe fatto tagliare
la testa.
Ma la condizione, in cui si trovava l'Impe-
ratore, era tale da togliere aflatto il timore a
coloro contro i quali le condanne venivano pro-
nunciate; che anzi quanto più erano terribili
nelle parole, tanto più venivano accolte con de-
1) Giovanni Villani Lib. IX. Gap. XLVIII.
CAPITOLO TERZO 111
risione. Enrico, infatti, ridotto quasi senza eser-
cito, era stato costretto a spedire TArcivescovo
di Treveri, suo fratello, in Germania, per for-
marne uno di nuovo, afline di muovere col-
l'aiuto di Federico re di Sicilia e dei Geno-
vesi contro Roberto di Napoli, il quale godeva
la protezione di Filippo il Bello re di Francia
e di Clemente V.
Ma più che contro l' Imperatore, lo sdegno
* dei Padovani era contro Cangrande. Essi non
avevano inteso di mostrarsi ribelli a quello,
ma soltanto di difendersi da questo, che li mi-
nacciava di continuo, e che avrebbe voluto farsi
Signore di Padova, per rinnovare, come dice-
vano, le atrocità di Ezzelino. Esacerbati dal
suo modo di procedere a loro riguardo, nonché
mostrarsi spaventati delle pene minacciate, de-
siderosi di conservare la libertà e di riacqui-
stare il perduto, stabilirono di raccogliere tutte
le loro forze e di rivolgerle contro di lui. I
mille padri del Consiglio, con mirabile concor-
dia, votarono unanimi la guerra contro Can-
grande.
Ai cittadini e ai mercenarii si unirono gli
abitanti della campagna, muniti di falci e di
forche, e il numeroso esercito nel mese di giu-
gno di quell'anno (1313), mosse per Este e
112 ALBKRTINO MUSSATO
Montagnana, ed oltrepassò i confini Veronesi,
ponendo l'assedio ad Arcole, che dopo breve
lotta, s'arrese. Di là si volsero i Padovani a
Verona, dinanzi la quale s' arrestarono. Era
nel loro esercito il Conte Vinciguerra di San
Bonifazio, esule veronese, desideroso di rimpa-
triare.
Ottenne questi il permesso di avanzarsi, con
una coorte di mercenari, lino alle porte della
città, che trovò chiuse. Una valida resistenza
era inoltre preparata dal Podestà Federico della
Scala ; per cui i Padovani, dopo un inutile ten-
tativo, pensarono di abbandonare V impresa.
Nel ritorno abbruciarono i palazzi che Cane
possedeva a Montorio, a Caldiero, a Soave, ad
Illasi, facendo strage degli abitanti e traendo
seco gli armenti.
Sostarono a Montagnana, indi per timore
di Enrico conte di Gorizia, che s'apparecchia-
va a venire dalla parte di Treviso in aiuto di
Cane, fecero ritorno in città ').
L'entusiasmo, col quale i Padovani s'era-
no accinti alla guerra contro Cangrande, venne
meno alla notizia della venuta del Conte di
Gorizia. Ed è naturale. Essi speravano di aver
^)Hist.At({/.Uh.XlY, Rub. IX; Cort. Lib. I, cap. XIX.
CAPITOLO TERZO 113
a combattere contro il solo Cane e, per vin-
cerlo, si sentivano abbastanza forti ; ma quando
seppero ch'egli s'era procacciato un alleato tanto
potente, compresero che non era ancor giunto
il momento di fiaccare l'orgoglio del Signor di
Verona. Il Conte di Gorizia, giunto col suo
esercito a Sacile, domandò ai Trevisani il pas-
saggio, affine di potersi unire con Cane, e, poi-
ché gli fu negato, si dispose ad ottenerlo per
forza. I Trevisani, per poterglisi opporre, chie-
sero aiuti a Padova, la quale ne mandò loro,
e, nel medesimo tempo, spedi buon numero dei
suoi a Bassano, per impedire che Cane si avan-
zasse da quella parte. I Trevisani si accam-
parono di là dalla Piave alle rive del Mnnte-
gano ^), dove aspettarono l'esercito del Conte,
che non stette molto a comparire. La lotta fu
accanita da ambe le parti, sennonché gli al-
leati furono messi in fuga. Molti restarono sul
?) « Tale, scrive il Gennari, ò la vera lezione del
passo dei Cortusii (Lib. 1, cap. XX), malamente leggen-
dosi nell'edizione dell'Oslo Tarvisini equitaverunt ad
partes Mcntagnanae, e poco appresso transire Matita-
gnanam. E meravigliomi assai che il eh. Muratori ab-
bia ritenuta nel testo la falsa lezione, e si sia conten-
tato di notare la vera a piò di pagina, come una va-
riante tratta da un Codice M.S. di casa Collalto ». Let-
' tera sopra la famiglia de Maccaruffì, Padova, Bian-
chi 1857.
114 ALBERTINO MUSSATO
campo, altri furono fatti prigionieri, non pochi
fuggendo affogarono nella Piave. Il Conte di
Gorizia, anziché approfittare della vittoria per
unirsi a Cane, forse impaurito dalla notizia che
un grosso esercito di Padovani era accampato
tra Cittadella e Bassano, lasciò che i suoi de-
predassero i campi situati fra Montegano e la
Piave ed abbruciassero i villaggi dei Trevi-
sani, i quali mandarono due ambasciatori a
Padova, perchè non li abbandonasse in tanta
sventura. I Padovani accorsero in loro difesa ;
ma i Trevisani, eccitati dagli ambasciatori di
Cesare, che si trovavano allora in Treviso,
prestarono giuramento di fedeltà all'Imperatore,
non senza meraviglia dei loro alleati. Il Conte
di Gorizia tentò allora pratiche di pace coi
Trevisani, e, ritornato a Sacile, licenziò il suo
esercito, nel quale s'era manifestato un morbo
contagioso ; ma i Trevisani dopo essere stati
alquanto incerti, trovarono più conveniente di
stringere un'alleanza offensiva e difensiva coi
loro vecchi amici, i Padovani, eccettuando
l'Imperatore, al quale avevano giurato obbe-
dienza.
Pochi giorni appresso, il 24 agosto 1313,
mentre l'esercito padovano si trovava accam-
pato in Montebello, nel territorio di Vicenza,
CAPITOLO TERZO 115
si sparse improvvisa la notizia che l' Impera-
tore era morto. Non è a dire se ai Padovani
riusci grata la nuova, non ostante che oggetto
principale del loro odio non fosse Enrico, bensì
Cane, ch'essi ritenevano cagione precipua di
tutte le loro sventure. In Padova, al dire dei
Cortusii ^), fu fatta una gran festa, quasiché per
la morte dell' Imperatore, la cittcà non avesse
j)iù nulla a temere per la sua libertà, né do-
vesse essere più funestata da Cane. Stolta il-
lusione ! poiché il Signor di Verona, dopo la
morte di Cesare, anziché desistere dalla sua
inimicizia contro i Padovani e dalle sue pre-
tensioni sulla città loro, si mostrò più acca-
nito, e, mentre prima fingeva dì agire per l'in-
teresse dell' Impero, adesso fece vedere aper-
tamente che agiva per proprio conto.
Mussato, ammiratore di Cesare, provò gran-
dissimo dispiacere alla nuova della morte di
lui, e nella Historia Augusta se ne occupa
come di cosa di grandissima importanza, quale
era infatti. I particolari, ch'egli dà con tanta
cura della malattia, della morte e della tu-
mulazione di Enrico, mostrano l'affetto ch'egli
nutriva per quell' uomo.
1) Lib. I, Gap. XXII.
116 ALBERTINO MUSSATO
Non fa cenno della voce ch'era corsa di av-
velenamento ; osserva soltanto come l' Impera-
tore abbia cessato di vivere il giorno di San
Bartolomeo, vicino alla Basilica dedicata a
quel Santo, il giorno istesso nel quale, molto
tempo innanzi, Corradino di Svevia era caduto
sotto la mannaia di Carlo d'Angiò.
Della immatura morte dell' Imperatore che
dava tante speranze di sé, il nostro storico,
riverente alla Chiesa cattolica, vede una delle
cause, e forse la principale, nell'essersi Enrico
messo in lotta col Papa. Finché si lasciò gui-
dare dalla Chiesa, la fortuna gli arrise, quando
le si fece ribelle ebbe a naufragare ^).
1) Hist. Au(j. Lib. XVI, Rub. Vili.
Capitolo Quarto.
Continuano le ostilità fra Padova e Cane — Cane devia nuo-
vamente il Baccliiglione a danno dei Padovani — I Guelfi
in Padova hanno il potere della Repubblica — Abbocca-
mento fra Bailardino Nogarola, Albertino Mussato e Mar-
silio Polafrissana — Pace tra i Padovani e il Conte di
Gorizia — Cane occupa Montegalda — Gli Alticlini e gli
Agolanti — Vendetta di Nicolò ed Obizzo da Carrara —
Il popolo assedia la casa di Albertino Mussato — Questi
si rifugia a Vigodarzere - Orribili stragi di quei giorni
— Albertino viene richiamato in città — Sua invettiva
contro la plebe — Il podestà Ponzino dei Ponzoni — Ca-
nale da Limena a Brusegana — Tentativo di riprender
Vicenza — Atti eroici del Mussato — Vien fatto prigio-
niero — Sconfitta dei Padovani — Proposte di pace —
Opposizione di Maccaruffo — La pace viene sancita —
Ritorno del Mussato in Padova — Sua incoronazione
poetica.
Alla nuova della morte di Arrigo, l'esercito
padovano, che trovavasi accampato a Monte-
bello, coir intenzione di ricuperare Vicenza,
corse a porre l' assedio prima al castello di
Barbarano poi a quello di Longare, ma senza
alcun risultato, poiché l' uno e l'altro erano
ben difesi dalle milizie di Cane. Capitanati dal
118 ALBERTINO MUSSATO
loro podestà Nicolò da Calbolo, i Padovani
fecero ritorno in città, non senza prima aver
dato alle fiamme alcuni villaggi dei Vicentini.
Cane, che non aveva forze sufficienti per com-
battere in campo aperto i nemici, fece, per
vendetta, una scorreria nel loro territorio, de-
vastando e depredando ogni cosa ^). Più tardi
egli deviò nuovamente a Longare le acque del
Bacchigiione, perchè non scorressero verso Pa-
dova ').
Il Conte di Gorizia avea mosso guerra, in
quel frattempo, ad Ottobono Patriarca di Aqui-
leia, il quale domandò soccorso a Treviso ed
a Padova. In quest' ultima città il Conte mandò
nn suo messo per trattar di pace, nella quale
erano compresi anche i Trevisani.
Vi fu una tregua di quindici giorni, dopo
la quale furono ripigliate le ostilità, che du-
rarono sino alla fine dell'anno. Il Patriarca,
non ostante l'aiuto di Treviso e di Padova, si
vide costretto a domandare la pace ^).
Poco tempo innanzi avvenne in Padova un
cambiamento, pel quale i guelfi ebbero nelle
1) De Gestis Hai. ecc. Lib. 1, Rub. IV. Cort. Lib. I,
Gap. XXI.
2) De Geslis Hai. ecc. Lib. I, Rub. IX.
3) De Gestis Ital. ecc. Lib. Ili, Rub. IV.
CAPITOLO QUARTO 119
mani il potere. La fazione dei ghibellini, che
pareva spenta dopoché la città, liberatasi dalla
tirannia di Ezzelino, s'era costituita in Repub-
blica, nella lunga pace di circa mezzo secolo,
aveva, a poco a poco, alzata di nuovo la te-
sta. Continue risse funestavano la città ; né per
l'uccisione di Guglielmo Novello dei Paltanie-
ri, né per esser stati cacciati in bando i capi
della fazione ghibellina si potè mai ristabilire
completamente la pace. Avvenne pertanto che
sulla fine d'ottobre di quest'anno (1313) fu
abolito il magistrato tribunizio e trasferito ogni
diritto pubblico e privato nei principali guelfi ;
il nome ghibellino non doveva essere neppure
pronunciato ; parte guelfa e Comune di Padova
doveano suonare la stessa cosa. Il Senato fu
accresciuto a mille uomini, quasi tutti guelfi ;
di soli guelfi fu creato un nuovo magistrato,
colla facoltà di rescindere i decreti del Senato
e di trattare le faccende della guerra. Da que-
sto magistrato doveansi eleggere i quattro An-
ziani Conservatori della libertà e gli otto Sa-
pienti, ai quali era affidato il governo della
città ^).
1) Anciani Conservatores quatuor Libertalis et Sta-
tus, octoque secretorum conscii. — Be Gestis Ital.
ecc. Lib. II, Rub. IL
120 ALBERTINO MUSSATO
In quei giorni Bailardino Nogarola, man-
dato da Cane, significò ai Padovani come il
suo Signore fosse disposto a trattare di pace.
Fatta una tregua, i Padovani elessero Marsi-
lio Polafrissana ed Albertino Mussato, i quali,
com'era stato convenuto, s'abboccarono, nel no-
vembre di quest'anno, con Bailardino ai piedi
di Montegalda ^).
Cane aveva domandato, pel primo, la pace.
Si sentiva egli forse inferiore di forze ai Pa-
dovani, cosi da prevedere che la lotta non gli
sarebbe in avvenire favorevole ? oppure si senti
vinto dalla stanchezza del lungo guerreggiare?
Né r una cosa, né l'altra. I Padovani credet-
tero, sulle prime, che la causa di questa de-
terminazione da parte di Cane fosse stata la
morte dell' Imperatore, per la quale lo Scali-
gero, sentendosi a mal partito, credesse più
conveniente far la pace con Ptdova; ma eb-
bero tosto ad accorgersi che s'erano ingannati.
La ragione, che adduce il ^Yychgram, del de-
siderio di pace con Padova, manifestato dallo
Scaligero, è forse la più probabile. « Le inno-
vazioni, egh dice, introdotte nel governo della
Repubblica erano dovuto a forti turbamenti
i) De Geslis Ital. ecc. Lib. II, Rub. II.
CAPITOLO QUARTO 121
interni, ai quali dobbiamo ascrivere la inten-
zione di Cane di metter fine alle ostilità, poi-
ché egli, più che in queste, sperava nelle lotte
intestine ^) ». Se cosi fu. Cane ha dato prova
di somma avvedutezza, perciocché le lotte in-
testine non tardassero, come vedremo, a ma-
nifestarsi .terribili in seno alla città.
I due messi padovani si recarono a Mon-
tegalda, col mandato di insistere sulla restitu-
zione di Vicenza. A questo patto soltanto sa-
rebbe stato possibile un accordo fra i Pado-
vani e lo Scaligero. Ma era proprio su questo
punto che Cane non intendeva di cedere, per
cui l'abboccamento, che durò fino a sera, non
ostante l' eloquente parola del Mussato, non
ebbe esito veruno.
Fu dapprincipio conteso alquanto chi do-
vesse parlare per primo ; disse finalmente Bai-
lardino :
« — Non mi vergognerò, in presenza d'Ita-
liani, d'essere io il primo a parlare di pace.
1) Starke innere Unruhen waren mit diesen Neue-
ruQgen verbunden; iliuen Iiaben wir es wolil zuzuschrei-
ben, dass Cane, hoffend aus dern verwirrten Zustande
irgend welchen Nutzen ziehen zu kònnen, jetzt zum
ersten Male seit dem Begiun dar Feindseligkeiten Frie-
den zu schliessen beabsichtigt.
122 ALBERTINO MUSSATO
Domando pace, a nome di Cane Vicario del-
l' Impero.
— A che tanto schermirti di parlare pel
primo, gli rispose Mussato, se Cane stesso è
quegli che cerca la pace ? Noi pure vogliamo
la pace. Esponi le condizioni.
— Che si depongano le armi, disse Bai-
lardino, affinchè ognuno possa libero e securo
andar per le vie e per le città.
— Sei un cattivo medico, soggiunse Mus-
sato, che vuoi curare il male, senza prima e-
stirparne la radice. Cane ceda Vicenza; deesi,
anzitutto, toglier la causa della dissensione.
— Vuoi tu, rispose Bailardino, che Cane
ceda Vicenza, che è sua ?
— Sua? interruppe il Polafrissana ; è sua
patria ? vi nacque ?
— Non è possibile, rispose Bailardino, ch'ei
possa rinunziare al dominio di essa. Gliel' ha
data r Imperatore in ricompensa de' suoi ser-
vigi, né può cederla ad alcuno. Vi lagnate a
torto, s'egli, per comando di Cesare, s' impa-
dronì della città ; il torto l'avete voi. Padova-
ni, che, colle guerre e cogl'incendii, avete de-
vastato il territorio di Vicenza e quello di
Verona ....
— E Mussato all'incontro: Tu vorresti
CAPITOLO QURATO 123
coprire, con oneste parole, gli orrendi fatti.
Smetti di lodar Cane, che, violato il diritto di
alleanza, quale aveva stretto coi Padovani, sic-
come ladro, occupò Vicenza, trasse schiavi i
nostri concittadini, ne uccise alcuni e, compera-
to da Cesare il falso titolo di Vicario, ci mos-
se atroce guerra .... Sazio di sangue e di scel-
leratezze omai ceda, ritorni Vicenza a Padova,
impetri supplichevole la pace, mentre le circo-
stanze e la clemenza degli offesi gliene por-
gono il destro. Si renda benevoli i Padovani,
che gli perdoneranno, se si mostrerà pentito » ^).
La discussione non fu sempre seria, tanto
poco erano persuasi i messi d'ambedue le parti
di poter raggiungere lo scopo, pel quale s'era-
no riuniti. Mussato non mancò, tuttavia, di
sostenere, con la maggiore eloquenza, le ra-
gioni della sua patria. Ai Padovani, del resto,
non era punto spiaciuto che le trattative di pace
con lo Scaligero fossero riuscite vane; essi sti-
mavano venuto il tempo di ritorgli Vicenza.
Il Papa aveva nominato Vicario imperiale
per tutte le provincie d' Italia soggette al-
l' Impero Roberto re di Napoli. Per questo
fatto, il partito guelfo aveva preso ardire e
1) De Gestis Ital. ecc. Lib. II, Rub. II.
12 i ALBERTINO MUSSATO
credeva che i ghibellini non avrebbero più sa-
puto resistergli. Ma le speranze elei Padovani
rimasero ben presto deluse. S'era offerto a co-
storo, ({ual mediatore di pace tra essi e Cane,
il Duca di Carinzia, il quale aveva spedito un
messo al Senato. Nel medesimo tempo il Conte
di Gorizia avea proposto ai Padovani, per
mezzo di un ambasciatore, di far la pace con
lui e di stringere una lega offensiva e difen-
siva. Essi chiesero consiglio ai Trevisani loro
alleati, i quali, dopo lunga incertezza, rispo-
sero doversi accettare la pace, non la lega.
Entrambi i messi partirono indignati da Pa-
dova, la quale diede la colpa a Cane del cattivo
esito della pratica. Cane la riversò sui Trevi-
sani ed invase il loro territorio, fino a Castel-
franco, devastando alcune ville. Sennonché i trat-
tati di pace fra i Padovani e il Conte di Gori-
zia furono ripigliati e la pace conchiusa; per cui
lo Scaligero tralasciò di molestare i Trevisani.
Colla nuova stagione (1314) i Padovani si
spinsero oltre l'Adige, e, dopo aver devastato
campagne ed incendiato villaggi, ricchi di preda,
fecero ritorno in città. Cane, con grosso eser-
cito, accresciuto degli aiuti de' suoi amici di
Lombardia, si avanzò nel territorio padovano
fino ad Abano, che diede alle fiamme.
CAPITOLO QUARTO 125
I Padovani ricorsero per aiuto a Treviso,
fortificarono Monselice e impedirono a Cane di
passare il fiume. Questi, veduta vana T impre-
sa, incendiò i circostanti villaggi e si rivolse
a Montegalda, dove i Padovani avevano eretta
una fortezza. Antonio Malizia, con cinquanta
uomini, la difendeva; ma, tradito da' suoi, fa
consegnato a Cane e condotto prigioniero a Ve-
rona. La fortezza fu distrutta dai fondamenti ^).
Poco appresso avvennero in Padova fatti
gravissimi, i quali misero a soqquadro l'intera
città. Fin dall'ottobre dell'anno antecedente,
per i mutamenti, che, come notammo, erano
stati introdotti nel governo della Repubblica,
il potere era caduto interamente nelle mani
dei guelfi, che ne abusarono a danno special-
mente dei ghibellini, molti de' quali vennero
mandati a confino.
^) Cos'i il Ferreto vicentino. Il Mussato, invece, at-
tribuisce la perdita di quel luogo alla viltà del Malizia
(De Gestis Ital. ecc. Lib. II, Rub. VII). I Cortusii an-
ch'essi fanno il Malizia traditore (Lib. \, Gap. XXI).
Il Verci (Storia della Marca Trivigiana e Veronese
Lib. V), e il Gennari (Annali di Padova, Parte terza)
stanno col Ferreto. « L'autorità degli scrittori, dice il
Verci, è grande, perchè contemporanei; ma se è vero
che il Malizia fu condotto prigioniero a Vicenza, come
vuole il Ferreto, convien riportarsi a quanto scrisse
questo scrittore». Tomo V, pag. 28, nota 1).
126 ALBERTINO MUSSATO
Fra i più prepotenti dei guelfi, ch'erano sa-
liti al potere, primeggiavano due plebei, Pie-
tro degli Alticlini e Ronco degli Agolanti, fat-
tisi ricchi col continuo usureggiare, e capaci
d'ogni azione più malvagia. Il primo, insieme
con altri dell'ordine militare e plebeo, era stato
citato in giudizio da Albertino Mussato, come
reo di concussione. Albertino era allora degli
Anziani. A questo onorevole officio, che, come
egli scrive, pareggia il consolato romano, era
stato eletto nel dicembre 1313. Pietro degli
Alticlini fu posto in carcere, convinto del reato,
e costretto inesorabilmente a restituire all'era-
rio il tolto danaro. Egli aveva tre tìgli, e Ronco
ne aveva uno, pari in tutto, se non peggiori,
ai loro padri. Oggetto principale dell'odio di
costoro erano i Carraresi, famiglia potente, va-
lorosa e stimata.
A capo di essa erano Giacomo ed Uberti-
no, uomini di molto senno, i quali, per non
recare maggior danno alla patria, travagliata
da tante guerre, fingevano di non curare, a
costo di parer pusillanimi, le calunnie che sul
loro conto, spargevano gli Alticlini e gli Ago-
lanti ; ma due giovani ardenti della loro stirpe,
Obizzo figliuolo di Marsilio Papafava da Car-
rara e Nicolò figlio di Ubertino non potevano
CAPITOLO QUARTO 127
sopportare in pace le ingiurie dei loro nemici,
e meditavano, in cuor loro, terribile vendetta.
Avvenne un giorno ^) che il Consiglio degli
Otto alla presenza del Podestà Dino de' Rossi
da Rimini, stabilisse, per suggestione dei Ron-
chi e di Pietro degli Alticlini, di bandire do-
dici ghibellini della fazione dei Carraresi. Non
ci volle di più, perchè Obizzo e Nicolò si de-
cidessero all'agognata vendetta. Invano Giaco-
mo ed Ubertino tentarono d' indurre il Pode-
stà ed il Consiglio a revocare il decreto, invano
ricorsero all'eloquenza di Albertino Mussato e
di Rolando da Piazzola, i quali non ottennero
nulla da quei magistrati severi ed ostinati.
Nicolò ed Obizzo, col favore della notte, in-
trodussero in città quanti più poterono dei loro
coloni. La mattina seguente, mentre recavansi
al Pretorio, avendo incontrati sulla pubblica
piazza Pietro e i suoi figli, li assalirono. Pie-
tro, ferito nel capo, dovette alla celerità del
suo cavallo, se potè sottrarsi alla morte. Que-
sto fatto fu il segnale della rivolta. Tutta la
città fu in armi ; i partigiani dei Carraresi,
1) Secoudo il Mussato questo giorno sarebbe stato il
VII Kal. majas (De Gestis Ital. ecc. Lib. IV, Rub. I),
secondo invece un documento citato dal Verci (num. 669)
il 17 dello stesso mese.
128 ALBERTINO MUSSATO
fra i quali il Mussato a capo della prima cen-
turia del Quartiere di. Pontemolino ^), eccitati
da Nicolò e da Obizzo, gridavano: viva il pO'
jjolo, e i loro contr'arii : muoiano i Carrared.
Il Podestà ed il Vescovo Pagano della Torre,
accorsi a .sedare ' il tumulto, non furono ascol-
tati. Obizzo alzò il vessillo del popolo, e al
grido di viva il popolo, muoiano i traditoìH,
la moltitudine corse furibonda alle case degli
Alticlini.
Quivi ogni cosa fu messa a ruba e a sacco,
furono rovistati tutti gli angoli della casa e,
in oscuri sotterranei, furono scoperti cadaveri
di ogni età, di ogni sesso, quali in istato di
putrefazione, quali ancor freschi, sulle cui livide
carni stavano impressi i segni delle sofferte
torture.
L'indignazione e il furore del popolo non
ebbero, a tal vista, più limiti. Tutto quel gior-
no fu consumato nelle stragi.
Trascorsa la notte, fra lo spavento dei cit-
tadini, Nicolò ed Obizzo, coi loro seguaci, mos-
sero, sull'alba, in cerca di Pconco. Stava questi
appiattato in casa d'un amico, il quale, per
1) Primus Quarterii Pontis Molendinorum pilus
[De Gcstis Ital. ecc. Lib. IV, Rub. I).
CAPITOLO QUARTO 129
timore, lo svelò al popolo. Trafitto da mille
spade, Plonco fu trascinato cadavere, per le
vie della città, fino alla piazza ; spettacolo mi-
serando! Quel giorno le case degli amici dei
Ronchi e degli Alticlini furono spogliate senza
distinzione. E poiché il popolo, quando si lascia
trascinare alla rapina ed al sangue, non ismette
facilmente, né sa distinguere, nella sua vendetta,
i veri dai falsi amici, anzi spesso giudica ne-
mico chi gli é amico sincero e disinteressato ;
così la plebe padovana, in quel giorno, dopo
aver sfogato le giuste sue ire sopra gli Alti-
clini- e i Ronchi, rivolse ingiustamente il suo
furore contro Albertino Mussato, dimenticando,
a un tratto, i benefizii ricevuti da lui, e come
egli fosse stato il primo a rivelare le infamie
di quegli usurai.
Poco tempo innanzi, Albertino, per soppe-
rire ai gravi dispendii della guerra, aveva pro-
posto in Consiglio una tassa sui contratti, che
era stata approvata alla quasi unanimità. Ad
un tratto, in mezzo alla moltitudine inferocita
s'alza una voce, che ricorda il promotore della
tassa. A quella voce mille altre rispondono, e
la folla, senza esitare, si riversa impetuosa sulla
via, che conduce alle case del Mussato, poste
nel Quartiere di Pontemolino.
130 ALBERTINO MUSSATO
Si trovava Albertino, in qnell'istante, nel-
l'atrio di Alberto Dente, col quale era unito
in parentela. L' abitazione di costui era vicina
alle mura della città ed era ben munita. Stette
alquanto incerto il Mussato se difendere di colà
la casa sua^ ch'era di fronte, dagli insulti della
plebaglia; ma l'animo altamente generoso ne
lo dissuase. Alberto Dente avrebbe voluto che
si nascondesse in un sotterraneo ; ma egli, co-
raggioso, rifiutò, e, fattosi allestire un cavallo,
gli salse in groppa e, ficcatigli nei fianchi gli
sproni, si slanciò fuori del palazzo, fendendo la
moltitudine che, attonita si trasse in disparte.
Per la vicina porta della città, si condusse in
salvo a Vigodarzere.
Il Quartiere di Pontemolino, come seppe
dell'ingiuria che si voleva recare al Mussato,
fu tutto in armi. 11 Podestà Dino de" Rossi ac-
corse egli pure con la milizia, e quelli della
famiglia s'erano posti con ardore alla difesa
dalle finestre e dal tetto; ma ogni sforzo sa-
rebbe tornato inutile, se non fossero giunti in
tempo Nicolò ed Obizzo, i quah, parte colle
promesse, parte colle minacce, indussero il po-
polo feroce a desistere dalla sconsigliata im-
presa.
Orribili ^ragi, oltre alle narrate, furono
CAPITOLO QUARTO 131
commesse, in que' giorni. Guercio, figlio di Ron-
co, fu trucidato, mentre travestito tentava fug-
gire dalla città. Pietro degli Alticlini e i suoi
figli s'erano rifugiati nel palazzo vescovile ; ma
poiché il popolo minaccioso li domandava, il
Vescovo li consegnò ad Obizzo, che promise di
condurli in salvo. Questi li accompagnò di not-
tetempo alla porta delle Torricelle, che trovò
chiusa. Sopravvenne in quella Nicolò, seguito
da' suoi, che, riconosciutili, mise loro le mani
addosso. Il giorno appresso furono fatti morire
sulla pubblica piazza, con ogni sorta di strazii,
nò si permise che i loro cadaveri fossero sep-
pelliti ^).
Poco appresso gli Anziani, i Gastaldioni e
i cittadini dell'ordine nobile e popolare si riu-
nirono in Consiglio, per trovar modo di rendere
la pace alla città. Fu stabilito di abolire le
riforme e di ritornare all'antico reggimento. La
città sarebbe stata governata, come per lo in-
nanzi, da diciotto Anziani, e la potestà tribu-
nizia sarebbe stata ristabilita. Fu fatto, inoltre,
un pubblico decreto, mercè il quale Albertino
Mussato sarebbe stato richiamato in patria ed
1) De Gestis I/al. Lib. IV. Rub. 1. Cort. Lib. I. Gap.
XXII.
132 ALBERTINO MUSSATO
accolto colle maggiori dimostrazioni di onore,
per risarcirlo della immeritata ingiuria. Fra
coloro che parlarono più efficacemente in favore
di lui fu Giacomo da Carrara. Il decreto venne
approvato a voti unanimi.
Ritornato in Padova, il Mussato pronun-
ciò dinanzi al Consiglio un'orazione veemente,
ch'egli chiama: Invettiva contro la plebe ]ìa-
dovana ^). Questa invettiva che rivela una volta
di più quanta fosse l'eloquenza di Albertino è
per noi di singolare importanza, poiché ne offre
molte notizie sulla vita di lui, che invano
avremmo cercate altrove. Di essa abbiamo fin
qui fatto menzione più volte ; ora ci piace dirne
qualche cosa in particolare.
- Rivolgendosi ai Tribuni della plebe, agli Ar-
tieri, ai Capi della Repubblica : « Dovrò ver-
gognarmi, egli dice, ed arrossire, se pure ac-
quistai qualche merito, di recitar da me stesso,
dopo tanta ingratitudine, le mie lodi?>. Ri-
corda il fatto per cui dovette fuggire dalla città,
parla della sua ambasciata all' Imperatore e
dell'accoglienza avuta, al suo ritorno, dalla pa-
tria cieca ed ingrata, rammemora la meritata
1) Invectiva in plebeni paduanam. De Geslis Ital.
ecc. Lib. IV. Rub. II.
CAPITOLO QUARTO 133
perdita di Vicenza e le centinaia di lettere
colle quali egli ammoniva i suoi concittadini
di stare in guardia. Essi, in tanto frangente,
s'erano di nuovo rivolti a lui, per piegar l'animo
di Cesare, ed egli aveva accettato l'incarico
ed avea conseguito lo scopo. E perchè dunque
tanta ira della plebe contro di lui ? Si rese
egli colpevole verso la Repubblica? Consumò
il pubblico danaro ? Arricchì forse a danno dei
privati? « Se v'è un solo, egli esclama, che sia
stato molestato o spogliato da me, mi citi pure
in giudizio ». E qui narra, come, eletto degli
Anziani, abbia svelato reo di concussione Pie-
tro degli Alticlini. Avrebbe tanto osato, mac-
chiato di simil colpa e dimentico di sé stesso
al punto di non stimare dovuta a sé quella
pena che voleva inflitta agli altri? Nessuno po-
trà mai dire ch'egli, fornito di bastanti for-
tune per condurre una vita agiata, abbia messo
le mani nel pubblico patrimonio. Eppure il fu-
rore della plebe gii si scagliò contro, confon-
dendolo coi malvagi. « Una torma di vilissimi
contadini, egli dice, cui l'indigenza e la fame,
nella desolazione della guerra, aveano spinto
in città, un gregge di baldracche e di stranieri
che, cupidi di novità e venuti in cerca, quali
soldati, de' nostri stipendii, s'erano riuniti, come
134 ALBERTINO MUSSATO
in sentina, in questa nostra Padova, gridavano:
Muoia lo spregiatore e il dileggiatore del po-
polo, collii che, colla voragine della Carpella,
ha aggravato del peso d'intollerabile contri-
buzione il popolo padovano. Queste voci s'ac-
crebbero ed eccitarono al saccheggio della mia
casa » . Non nega il Mussato di aver scagliato
vituperi contro la plebe, né di aver aderito al-
l'onere della Carpella. Per giustificarsi della
prima accusa, ricorda gli atti di valore da lui
compiuti a Marostica, a Poiana, a Legnago,
dove i plebei, che ora lo perseguitavano, per
non seguire il nobile esempio di lui, s'erano
lasciati sfusfoire, tutte le volte, una bella oc-
casione, per conseguire una segnalata vittoria.
« Dopo il ritorno, egli soggiunge, la vostra
inescusabile colpa e i miei frizzi contro la vo-
stra dappocaggine mi vi resero, come stimo,
odioso ». Si paragona, non sempre opportuna-
mente, a Camillo, a Scipione, a Seneca, e passa
quindi alla Carpella.
Per sopperire alle spese sempre crescenti
della guerra fu tenuto un consiglio tra i Pri-
mati. Vi fu chi disse, che i Toscani e i Lom-
bardi, nei bisoa'ni di iiruerra, facevano uào della
Carpella '), dazio dei più giusti e tollerabili,
1) Dal verbo latino carpo.
CAPITOLO QUARTO 135
perciocché aggravi, a seconda delle sue forze,
tanto il ricco quanto il povero. « Esso consiste,
nota il Mussato, in questo: che uno, due, tre,
quattro o più denari vengano distratti, per ogni
libbra, in qualunque contratto, tanto da colui
che sborsa, quanto da colui che riceve, e sic-
come quelli che posseggono di più, spendono
e riscuotono di più; cosi quest'onere veniva a
pesare maggiormente sui ricchi » . Tre parti
dell'adunanza convennero nell'opportunità di
adottarlo. Albertino, col consenso degli altri,
lesse al Senato gli atti del Consiglio, e Tini-
posta fu sancita a pieni voti. E dovea la con-
tribuzione di questo dazio, in mezzo ai gridi
della plebagha, essere causa della sua rovina?
No: poiché né i Tribuni, né i Patrizii, né 1
consriunti, né q:ìì amici, né Dio, né i Santi lo
permisero. Ma più che tutto fu la sua casa
ben difesa che eccitò il desiderio della pleba-
glia. Difatti in quanti palazzi, in quanti tem-
pli non si cacciò il furor popolare? Quante faci
incendiarie non istava per iscagliare contro le
case? Tentò perfino di irrompere nel monastero
di S. Giustina, per saccheggiarlo e per ucci-
derne l'abate. Qui l'oratore s'intrattiene alquan-
to sui meriti di suo fratello Gualpertino verso
la Repubbhca, alla quale aveva consegnato vo-
]36 ALBERTINO MUSSA.TO
lontariamente quel fondo ricchissimo per l"uso
di fabbricare il sale, che le era stato negato
dagli abati predecessori ^). Ritornando quin-
di a sé stesso, cosi chiude il Mussato Tinvet-
tiva : « Ritorno a me stesso , o Fratelli , o
Tribuni della plebe , o Magnati , o Cittadi-
ni, qui riuniti per vedermi , per consolarnai ,
per abbracciarmi. Non parlo a quella turba
ignava ed infesta che ricusò di accogliere co-
lui, che seppe placare e render munifico papa
Bonifacio Vili, uomo dei più temuti al mondo,
che condusse a' suoi consigli il magnanimo En-
rico A^II principe della terra, che sostenne il
1) «.Calcinarìa chiamasi la Penisola confinante alla
veneta laguna ceduta dall'abbate di Santa Giustina al
Comune di Padova, per costruirvi le saline. Il Senato
veneto vide ciò di mal occhio per il danno che ne pati-
vano il pubblico patrimonio e le saline di Chioggia. Quin-
di essendo stati inutili gli amichevoli trattati per indur-
re i Padovani alla demolizione e all'abbandono delle sa-
line, venne lor contro colla forza aperta nel 1304 in-
sieme colle truppe alleate del Patriarca d'Aqaileia e del
Marchese di Ferrara, e devastate le saline e diroccato
il castello, costruitosi per difesa, costrinse i Padovani a
chieder la pace con patto che fossero a perpetuità di-
strutte le saline, nò mai più si potesse in quel luogo
edificare castello o rocca di sorte alcuna ».
Nota di F. Colle alla Notizia della vita e degli
scritti di Albertino Mussato. Memorie dell'Accademia
di Padova, 1809.
CAPITOLO QUARTO 137
manto purpureo ad una somma Imperatrice,
dalla quale fu accolto tra' suoi più cari nel-
l'intime sue stanze, che rese Vicenza soggetta
a Padova, e che difese, nei momenti supremi,
la libertà della patria. A ragione certamente
il gregge sozzo abborrisce il vello d'aureo mon-
tone. Stia lontana da voi, o Tribuni, la fero-
cia delle vili belve sitibonde di sangue inno-
cente. Io, salvato, consacro la mia salute , le
mie fortune, tutto quello che ancora possono
il mio ingegno e le mie facoltà ai Padri, ai
Magnati, al popolo più sano ^). »
Questa invettiva è senza dubbio, uno dei
tratti più eloquenti della seconda storia del
Mussato ; ma, per semplicità e per brevità, ri-
mane al di sotto delle orazioni , che abbiamo
ammirate nella Historia Augusta. Un po' di
manierismo e un po' di rettoricurne fanno qua
e là capolino, a mostrare come l'oratore aves-
se studiato i classici e ne avesse subito l'in-
fluenza.
Dopo i fatti che abbiamo narrato, il Pode-
stà Dino de' Rossi fu licenziato come fautore
degli Alticlini e dei Ronchi, e fu chiamato, in
sua vece, Ponzino dei Ponzoni cremonese. Co-
1) Be Gestis Ital. ecc. Lib. IV. Rub. II.
138 ALBERTINO MUSSATO
stili aveva a' suoi stipendi un uomo fortissimo
Beltrando Guglielmi, il quale, dopo aver com-
battuto a lungo in favore di Padova contro
Cane, col pretesto di mercedi che non gli erano
state soddisfatte, passò al nemico, e da Vicenza
faceva continue scorrerie sul territorio pado-
vano, portando la strage dappertutto. Ponzino,
raccolto buon numero di soldati, mosse un
giorno ad incontrarlo. Lo colse presso le rive
della Brenta e lo mise in fuga con tutti i suoi.
Beltrando tentò sottrarsi all'ire de' suoi inse-
cutori , ma fu raggiunto da Paolo Dente, che
lo feri a morte (giugno 1314) ^). Incoraggiato
da questa vittoria. Ponzino munì dapprima il
castello di Abano, poi di nottetempo si con-
dusse dinanzi alle porte di Vicenza ; ma poiché
erano ben difese fece ritorno in Padova, non
senza prima aver depredato il bestiame, che
trovò sparso nel paese nemico (luglio 1314) -).
Ponzino, come ben si comprende, aveva in
mente di ricuperare Vicenza, e questo suo pen-
siero non lo lasciava tranquillo. Ma prima di
venire ad un nuovo tentativo, i Padovani si
volsero ad un'opera utilissima, anzi necessaria
1) De Gestis Hai. ecc. Lib. IV. Paib. II.
2) De Gestis Ital. ecc. Lib. IV. Rub. IV.
CAPITOLO QUARTO 139
in que' giorni alla loro città; opera mirabile
pel breve tempo in cui fu compiuta. Il fatto
che le acque del Bacchiglione venissero da Cane
deviate a Longare, perchè non scorressero verso
Padova, si rinnovava troppo di frequente, e il
danno che la città ne soffriva era grandissimo.
Per ovviare a tanto inconveniente, i Padovani
scavarono un canale tra Limena e Brusegana,
per unire le acque della Brenta con quelle del
Bacchiglione, cosicché quando queste fossero ve-
nute a mancare sopperissero quelle al bisogno
della città. L'opera fu fatta ai primi di luglio,
e perchè i nemici non potessero impedire il la-
voro, l'esercito padovano andò ad accamparsi
di là dal nuovo canale, che fu detto la Bren-
tella ^). Fatte questo. Ponzino si recò coU'eser-
cito a Bassano, donde uscì a devastare il paese
nemico. '). Secondo il Ferreto, l'esercito pado-
vano si sarebbe, in questa occasione , avvici-
nato a Vicenza per assalirla ; ma sarebbe stato
fugato da Cane e da Bailardino Nogarola ^).
Irritato lo Scaligero , cavalcò fino a Montec-
1) Vedi: Gennari — Dell'antico corso del fiumi in
Padova, pag. 82. Cort. Lib. I. eap. XXII.
2) De Geslis hai. ecc. Lib. IV. Rub. V.
^) Bistoria Rerum gestarum in Italia ecc. nei Re-
rum Italicarum Scriplorcs, Tomo IX, II40.
140 ALBERTINO MUSSATO
«hio, coir intenzione di dare una battaglia ai
Padovani, ma ne fu dissuaso, per essere in-
feriore di forze. Intanto gli giunsero soccorsi
da Verona, da Mantova e da Castelbarco, ed
«gli allora si spinse sino alle porte di Padova.
Il vescovo Pagano della Torre e Gualpertino,
abate di S. Giustina, accorsero, col clero e coi
cittadini, in difesa della città; ma la plebe
stolta volle uscire contro Cane, stimando di po-
terlo vincere. Invano il Vescovo e l'abate cer-
carono di trattenerla ; essa aperse le porte. Cane
le fu sopra ; molti furono gli uccisi , molti i
prigionieri ^). All'annunzio che l'esercito pado-
vano, stanziato in Bassano, s'era mosso contro
di lui. Cane, raccolte le sue genti, carico di bot-
tino, fece ritorno in Vicenza ^).
Poco tempo dopo parve a Ponzino giunto
il momento di mandare ad effetto la vagheg-
giata impresa.
Poiché Cane aveva spedito soccorsi a Maffeo
Visconti contro i Pavesi, ed alcune differenze
tra Padova e Venezia erano state accomodate,
egli, senza metter tempo in mezzo e senza far
ij De Gestis Hai. ecc. Lib. IV. Rub. VI. Cort. Lib. I.
Cap. XXII.
2) Ferreto Tomo IX. col. Mur.
CAPITOLO QUARTO 141
noto ad alcuno il suo progetto, raccolse ni breve
quanti più soldati potè, e fece allestire mille
e cinquecento carri. I cittadini osservavano, pieni
di stupore, i grandi apparecchi e non sapevano
indovinarne il vero motivo. Quand'ecco verso
l'alba del 16 settembre i carri cominciarono a
sfilare per la via che conduce a Monselice.
Molti credevano che avrebbero passato l'Adige;
ma, sul far della sera, senza suono di trombe
e senza rumore alcuno, l'esercito mutò improv-
visamente direzione. Quando furono certi i Pa-
dovani, dalla strada che tenevano, che la loro
meta sarebbe stata Mcenza, un'allegrezza fe-
roce s'impadronì degli animi loro, e, pieni di
una stolta fiducia, deposero le armi sui carri,
ed inermi proseguirono il cammino. Ebbe Pon-
zino la cautela di far custodire gli angoli delle
vie, affinchè nessuno potesse portare, innanzi
tempo, la nuova a Vicenza. Giunto l'esercito,
sul far dell'aurora, al ponte di Quartesolo, s'ar-
restò, affinchè il nitrito dei cavalli non guastas-
se il disegno, e furono mandati innanzi alcuni
esploratori al sobborgo di S. Pietro. Tacita-
mente essi valicarono il fosso, e, vedute le sen-
tinelle addormentate, ne avvertirono tosto Pon-
zino, che, con uno scelto drappello, rapidissimo
accorse ed ammazzate le guardie sonnacchiose
142 ALBERTINO MUSSATO
e fatto calare il ponte, entrò, fra le grida de'
suoi, nel sobborgo. Il tumulto, che ne nacque,
fu grandissimo; le guardie, che tentavano op-
porre resistenza, furono uccise; i cittadini si
svegliarono di soprassalto; le trombe e le grida
dell'esercito irrompente risuonavano altissime
per l'aria. I borghigiani stettero dapprima in-
certi^ se i Padovani intendessero liberarli da
Cane o dar loro il saccheggio; ma poiché Pon-
zino li rassicurò, proibendo a' suoi di uccidere e
di far bottino, essi gridarono ad una voce: Viva
i Padovani.
Reggeva in que" giorni Vicenza, Antonio
Nogarola, fratello di Bailardino allora per caso
assente; Cane si trovava in Verona. Accorse
C'ue^li, con alcune schiere di Catalani e di Te-
deschi, a difesa della porta della città e mandò
immediatamente ad avvisare Cane del pericolo
in cui si trovava Vicenza; fece quindi gettare
il fuoco sopra le case del sobborgo, per costrin-
gere il nemico ad uscirne. Ponzino, in tanto fran-
gente, chiese il parere dei principali dell'eser-
cito. Mussato consigHò di tenere il preso sob-
borgo, di munirlo, di asserragliare le vie, per
impedire l'uscita ai Vicentini; né frattanto si
deponessero le armi, ma si tenessero di conti-
nuo rivolte ai nemici; facilmente poi si avrebbe
CAPITOLO QUARTO 143
potuto circondar la città, dar fuoco agli altri
sobborghi e costringer Cane a ritirarsi. I più
degli astanti convennero in questo parere ; ma
Vanni de" Scornazzani di Pisa, condottiero del-
l'esercito, propose di abbandonare il sobborgo
€ di accamparsi a due miglia dalla città. Muse
il consiglio di costui, nomo assai reputato in
cose di guerra, e tutto Tesercito, quantunque
a malincuore, uscì dal sobborgo per accamparsi
all'aperto. Non un segno d'allegrezza nei sol-
dati; ma generale silenzio. Quand'ecco Vanni,
uscendo dal sobborgo, si fece innanzi a Ponzino,
a Giacomo da Carrara e a molti dei principali,
e disse loro: «Che modo è il vostro di far la
guerra, o Padovani? Perchè perdonare ai vinti
nemici? Voi non sapete usare della vittoria e
la vostra dannosa dolcezza sarà giudicata da
tutti pusillanimità. Allorché i vostri furono vinti
dai nemici sono stati forse risparmiati? Hanno
usato i nemici verso di voi questa indulgenza,
0, a meglio dire, questa viltà? In una guerra
contro capitali nemici non devesi rifuggire "né
dal ferro, né dal fuoco, né dal saccheggio. Con-
cedete ai vostri il bottino del sobborgo, prima
che gii abitanti mettano in salvo i loro averi » .
Ponzino e gli altri risposero risolutamente di
no ; ma i soldati, spinti dal desiderio della pre-
144 ALBERTINO MUSSATO
da, avevano già incominciato l'orribile saccheg-
gio. I borghigiani, contro la fede lor data, si
videro improvvisamente fatti segno al più bru-
tale furore. I mercenari, che custodivano la
porta della città, l'abbandonarono e si sparsero
per le case ; a questi s'aggiunsero gli avidi Pa-
dovani, sopraggiunti dal campo. Non s'ebbe ri-
spetto né a chiese, né a monasteri; a quelle
furono rubate le reliquie e i sacri arredi, a
questi rapite, a viva forza, le vergini, per es-
sere contaminate ne' modi più nefandi. Sfogata»
in tal modo, l'avarizia e la libidine, i Padovani,
stanchi, si diedero alla crapula e al vino, fin-
ché, gravi di cibo e di bevanda, si sdraiarono
qua e là sull'erba e si abbandonarono al sonno.
La parte migliore, ahimè troppo piccola! de-
plorando grandemente in cuor suo la cecità de-
gli altri, stette in armi contro ogni possibile
evento ^).
Cangrande sedeva al banchetto di nozze di
suo nipote Franceschino, che avea sposato una
figlia di Lucchino Visconti, allorché ricevette
la nuova che il sobborgo di S. Pietro era stato
occupato dai Padovani. Senza por tempo in
i) De Gestis Hai. ecc. Lib. VI. Rub. I. Ferreto. Tomo
IX. col. Mur. Cort. Lib. I. Cap. XXIII.
CAPITOLO QUARTO 145
mezzo, egli abbandona la comitiva, raccomanda
Verona al nipote, e gettatosi in ispalla l'arco,
ch'era solito portare all'usanza dei Parti, in-
forca un veloce destriero e, seguito da un solo
de' suoi ^), corre a Vicenza. A Montebello muta
in fretta il cavallo già stanco col fresco giu-
mento di un contadino, ed arriva sul tramonto
alla città. Veduto lo scompiglio ed il terrore
degli abitanti, si fa addurre dalle stalle del
cognato Bailardino un generoso cavallo e, be-
vuto un bicchiere di vino offertogli da una fem-
minetta, cogli occhi rivolti al cielo, fece pre-
ghiera alla Vergine, in onore della quale di-
giunava due giorni per settimana, di farlo riu-
scir vincitore, o di fargli trovare la morte sul
campo ^). Seguito da un centinaio appena di
cavalieri, usci quindi dalla porta Lisiera.
Era corsa tra i Padovani la notizia della
venuta di Cane ; ma Vanni, senza darsene per
inteso, abbandonata la custodia del sobborgo.
t) Secondo il Ferreto sarebbero stati tre.
2) 0, inquit, e Coelis, Dei Maria Geneirix, cuius no-
men biduano ieiunio singxdis confemplor liebdomadis,
adesto proìvia tnihi Diva parens, si digna peto: sin
autem, dum aninm tnisereare, sii ineis ocidis lux ista
novissima.
De Gestis Ital. ecc. Lib. VI. Rub. II.
10
146 ALBERTINO MUSSATO
lasciava che i suoi andassero vagando qua e
là per l'accampamento.
Cane, nell' uscire, scorto Ponzino circondato
da picciol numero, a sciolte briglie gli si av-
ventò contro; ma Ponzino fu presto a ridursi
in salvo. Pochi soltanto, e tra questi Albertino
Mussato, si opposero all'impeto dello Scaligero;
ma, inferiori di numero, dovettero cedere, e,
voltati i cavalli, si diedero a fuga precipitosa.
Il Mussato volò sul ponte che attraversava la
fossa; voleva rattenere i fuggenti e far fronte
ancora una volta al nemico; ma il cavallo, es-
sendosi rotta un'asse del ponte, incespicò e cadde.
Albertino, coperto di undici ferite, si gettò nella
fossa per salvarsi; ma circondato dai nemici,
malgrado eroici sforzi per sfuggire alle loro
mani, fu fatto prigioniero e condotto in città.
Cane, imbaldanzito pel lieto evento, fece
alzare la bandiera della Scala e, attraversato
il ponte, precipitò nell'accampamento dei Pado-
vani, gettando lo scompiglio nelle schiere av-
vinazzate e sonnacchiose. Giacomo da Carrara
tentò di resistergli, ma invano; Barnaba Mac-
caruffo fece altrettanto, ma, sopraftatto dai ne-
mici, mori sul campo. Molti furono gli uccisi e,
tra questi, non pochi delle famiglie più illustri;
moltissimi i prigionieri, e, tra gli altri, Giacomo
CAPITOLO QUARTO 147
da Carrara, Marsilio suo nipote, Vanni de'
Scornazzani e Rolando da Piazzola. Sicuro or-
mai della vittoria, lo Scaligero inseguì i Pado-
vani, che s'erano dati a vergognosa fuga, fino
al ponte di Quartesolo. Quivi s'arrestò, che i
nemici s'erano tutti dispersi per le campagne,
pei boschi e pei monti. Per tre giorni continui
fu loro data la caccia, e il numero dei pri-
gionieri fu considerevole ^). Condotti a Verona
sotto una pioggia dirotta, scontarono fra i tor-
menti la loro viltà. Inestimabile fu la preda
fatta dai vincitori. Circa settecento carri, ca-
richi di preziose suppellettili, furono condotti nel-
lo spazio di due giorni entro le mura di Vi-
cenza ~).
Non è a dire se Cane, di ritorno dalla vinta
battaglia, sia stato accolto con festa dai Vicen-
tini. Ma egli, nonché esser pago della vittoria
conseguita, lusingato dalla fortuna, pensava di
non lasciarsi sfuggire l'occasione favorevole di
farla finita coi Padovani, impadronendosi della
città loro. A tale scopo si rivolse a' suoi amici
ed alleati, i quali tutti accorsero pronti in suo
1) Secondo il Ferreto sarebbero stati 700, secondo il
Mussato 663, secondo i Cortusii e il Vergerio 1500.
2) De Gesiis Hai. ecc. Lib. VI. Rub. II.
148 ALBERTINO MUSSATO
aiuto, e riunì sotto le sue insegne quanti ve-
ronesi e vicentini erano atti a portare le armi.
Alla nuova della disfatta il più profondo
sgomento aveva occupato gli animi dei Padova-
ni. Nessuna schiera, delle molte che erano par-
tite contro Vicenza, avea fatto ritorno in città;
solo comparivano tratto tratto, a due, a tre i
soldati feriti ed inermi, e nessuno sapea dire
che fosse avvenuto di Ponzino. La notte fu pas-
sata fra il terrore e le lagrime. Il Vescovo e
l'Abate di S. Giustina, insieme coi chierici e
con molti cittadini, vegliarono alla custodia
della città. Lettere dai paesi vicini annunzia-
rono, frattanto, come in essi fossero ricoverati
molti dei fuggitivi. Più tardi lo stesso Podestà,
che, mediante una grossa somma, s'era riscat-
tato da due soldati nemici che lo aveano fatto
prigioniero, ritornò a rialzare, colla sua pre-
senza, gli animi abbattuti dei cittadini.
Radunato immediatamente il Consiglio, Pon-
zino decretò che fossero spediti messi a Treviso,
a Bologna, a Ferrara, a Firenze per chiedere
aiuti. Oli aiuti vennero e numerosi. Intanto i
Padovani fortificarono le mura della città, prov-
videro alla difesa della riviera di Monsclice,
perchè Cane non potesse passare il fiume, e
munirono le principali fortezze sparse nel ter-
CAPITOLO QUARTO 149
ritorio. A Monselice, in luogo di Giacomo da
Carrara, a cui n'era stata affidata la custodia,
fu mandato il Conte Vinciguerra. In que' giorni
cadde una pioggia dirotta, che fece straripare
i fiumi e mutare in una laguna tutto il terri-
torio di Padova, sicché lo Scaligero non potè
muoversi col suo esercito da Vicenza. In questa
città. Cane onorava nel suo stesso palazzo Gia-
como da Carrara, Vanni de' Scornazzani ed al-
tri illustri prigionieri, e s'intratteneva con esso
loro in giuochi e in discorsi, il più delle volte
faceti e mordaci. Albertino Mussato, fatto pri-
gioniero da Gregorio da Poiana, era custodito
nella casa di costui ^). Cane, accompagnato dai
principali della sua corte, si recava di frequente
a visitarlo, parlava a lungo insieme con lui
delle cose dell'Imperatore e prendeva diletto a
stuzzicarlo con motti pungenti, come avea fatto
alla corte di Enrico. Albertino, non ostante la
prigionia e le ferite, non si perdeva d'animo,
e rispondeva con franchezza all'acre Signore
di Verona ^). Un giorno gli disse com' egli
1) Secondo il Ferreto, il Mussato non sarebbe stato
accolto nel palazzo di Cane, perchè non aveva ancora
riportata la corona poetica : Nondmn ille lauro hedera-
que virenti sub poetoe titulo decoratus coronani attu-
lerat.
2) Il Dall'Acqua Giusti nei Cenni sulla Yila di Al-
150 ALBERTINO MUSSATO
avrebbe sparso il sangue per la libertà della
patria, per la quale avrebbe dato, se fosse stato
necessario, la vita. Lo Scaligero ascoltava, con
molta tolleranza, le generose parole ').
In que' giorni, calmate alquanto le ire, si
cominciò a parlare di pace. Due fidi consiglieri
di Cane, spinti da Giacomo da Carrara e da
Vanni, proposero al loro Signore di far la pace
coi Padovani. Cane dapprima si oppose ; ma, in-
dotto dalle buone ragioni, acconsentì. Furono
spediti messi a Padova per far note al Senato
le intenzioni dello Scaligero. Radunato il Con-
siglio, Maccaruffo, dolente per la morte del
fratello Barnaba, consigliò la guerra, mentre
Ubertino da Carrara parlò in favore della pace.
Ne nacque uno scompiglio, e l'adunanza si sciol-
se senza aver nulla conchiuso. Giacomo, che
seppe ogni cosa, ottenne dallo Scaligero il per-
messo di recarsi in persona a Padova con Van-
ni ; egli fidava grandemente nell'autorità sua.
I Padovani lo accolsero con grande festa. Mac-
bertino Mussato, che precedono la sua traduzione ù.e\-
V Eccelinicle (Venezia, Antonelli 1878) osserva giustamen-
te che «al Signore di Verona dovettero essere abituali
le celie provocatrici: ben si sa come per esse dovette
udire qualche risposta assai acerba dal grand'esule fio-
rentino».
1) Be Gestis Ital. Lib. VI. Rub. IV.
CAPITOLO QUARTO I5l
carufFo sostenne di nuovo in Senato la sua pro-
posta di proseguire la guerra; ma Giacomo
difese, con si eloquenti parole, la pace, che
tutti votarono in favore di essa. Vanni ebbe
Tincarico di riferire allo Scaligero le delibera-
zioni del Senato, tra le quali la condizione che
i banditi padovani non potessero ritornare in
città. All' udire tale condizione, Cane fu sul
punto di rompere ogni trattativa; ma le pru-
denti parole de' suoi consiglieri riuscirono a
calmarlo. La pace fu sancita il 7 ottobre 1314,
e Venezia se ne costituì mallevadrice ^). I patti
furono: che ognuna delle due parti ritenesse
quei luoghi che possedeva; che ai Padovani
fossero restituite le possessioni che avevano nel
vicentino, e ai Vicentini quelle che avevano nel
padovano; ch'entro tre mesi fossero sciolte so-
vr'esse le lit^ se per avventura ne insorges-
sero; che i prigionieri fossero lasciati dall'una
parte e dall'altra in libertà; che le strade fos-
sero aperte a vantaggio scambievole; che i Ve-
neziani fossero arbitri in caso di contese ; ai
trasgressori pena ventimila marche d'argento ^).
Padova accolse, con vero giubilo, la notizia
1) Cori. Lib. I. Gap. XXIII.
-) De Gestis Ital. Lib. VI. Rub. X. Cort. Lib. I. Gap.
XXIII.
152 ALBERTINO MUSSATO
della pace. Stanca della lunga guerra con lo
Scaligero ed abbattuta quasi dalla terribile
sconfitta che le era toccata, sentiva prepotente
il bisogno di un po' di tranquillità, per ristorare
le forze.
Volle, anzitutto, ricompensare, almeno in
parte, i danni di que' luoghi che più avevano
sofferto durante la guerra; distribuì danari,
compartì onori, concesse esenzioni e privilegi,
rimise debiti, dando^ per tal modo, un nobilis-
simo esempio, che fu imitato di raro. Né, ces-
sate le angustie della guerra, dimenticò di ono-
rare colui che più l'aveva soccorsa col consi-
glio e col valore del braccio: Albertino Mus-
sato.
In quei primi giorni, dopo conchiusa la pace,
egli s'era acquistato un titolo di più alla rico-
noscenza della patria sua; le avea fatto dono
di due opere, alle quali, in modo particolare,
è affidato il suo nome ; Vllistoria Augusta e
la tragedia Eccerinis. Padova volle, in ricam-
bio, cingergli la fronte dell* alloro poetico. Il
vescovo Pagano della Torre ed Alberto di Sas-
sonia, rettore dell'Università avevano dato ope-
ra, perchè un tanto onore fosse decretato ad
Albertino. La ceremonia fu solenne. Quel giorno
tutta la città fu in festa; furono chiusi i pub-
CAPITOLO QUARTO 153
blici uffici, i fondachi e le officine ^). Il Poeta,
che, per modestia, si schermiva, fu incoronato
d'alloro nel pubblico Studio, e si volle che il
fatto fosse registrato negli atti pubblici. Poscia
al suono delle trombe fu accompagnato solen-
nemente alle sue case -). Il Rettore, portando
due cerei ^), apriva il corteo, e dietro a lui la
gioventù studiosa batteva, con lieto piede, la
terra ; le mani del Poeta erano coperte di guan-
ti di capretto, simbolo della tragica poesia *).
Fu fatta una legge che, ogni anno nel giorno
di Natale^ si rinnovassero al Poeta gli onori
e si leggesse pubblicamente la sua tragedia ^).
Questo particolare, notato, con tanta precisione,
dal Mussato nella sua Epistola I, mi fa credere,
con tutta ragione, che l' incoronazione abbia
avuto luogo nel giorno di Natale dell'anno
1314, a dififerenza del Dall'Acqua Giusti, il
1) Albertini Mussati Epistola IV.
2) Ibid.
3) II Burckardt nel suo libro: La Civiltà del secolo
del Rinascimento in Italia^ Voi. I, citando in nota, a
proposito dell'incoronazione del nostro poeta, lo Scar-
deone De urb. Fatav. antiq. dice essere incerto se si
debba leggere cereis muneribus, o per avventura certis
ìnuneribus. La Epistola I del Mussato parla chiaro :
Prsepoaitus binae portans hastiiia ceree.
4) Epistola I.
5) Ibid. Epistola IV.
154 ALBERTINO MUSSATO
quale vorrebbe che fosse avvenuta nell' anno
seguente ^).
Taccio del Tiraboschi che, con evidente er-
rore, la pone innanzi la prigionia del Poeta ^).
Contro cotesta asserzione, oltre la testimonianza
del Ferreto, abbiamo quella di Giovanni da
Naone, il quale nel suo Liber de generatione
etc. parlando con malignità dell'incoronazione
del Mussato, quasi l'avesse usurpata, dice : es-
sere avvenuta dopo conchiusa la pace tra Cane
della Scala e i Padovani ^). Il Mussato non ne
fa cenno nella sua storia; ma è da notare che,
dopo la pace con Cane, in quella storia c'è una
interruzione. Per quanti anni sia stata rinno-
vata la festa, non si saprebbe dire. Pare fino
all'anno 1318 ^). Le agitazioni della città, la
guerra con Cane, le novelle legazioni del Mus-
sato devono averne impedita, negli anni suc-
cessivi la celebrazione. Lo Scardeone vorrebbe
^) Alcuni Scritti letterari e scientifici, Venezia 1878.
pag. 52.
2) Il Tommasino, con so con qual fondamento, dice che
il Mussato fu coronato nel 1302, e TOngarello nel 1316.
3) Vedi: Appendice, Doc. II.
4) Così fanno credere, per tacere di altri, Giovanni
da Naone, TOngarello e il Cagna nel suo Sommario del-
l'origine et nobiltà d'alcune famiglie della città di Pa-
dova.
CAPITOLO QUARTO 155
che la festa fosse stata sospesa per riguardo
ai poco amici Carraresi. Forse egli deduce ciò
dall'esser stato eletto, in quell'anno, Giacomo
da Carrara a Capitano e Signore di Padova;
ma, come osserva il Colle, « le gare e i di-
sgusti del Mussato con tal famiglia si debbono
certamente tardare di alcuni anni ».
Albertino Mussato è forse il primo, a cui,
dopo il risorgimento delle lettere, sia stata de-
cretata la corona poetica, il che torna ad onore
grandissimo di lui e della sua città ^).
1) Il Savonarola scrive che il Nostro non mori coro-
nato (Vedi: Script. Rer. Ital. Tom. XXIV). Egli mostra
di non conoscere le Epistole, nelle quali il Mussato parla
chiaramente deironore ottenuto. Forse fu tratto in errore
dal diploma della coronazione del Petrarca, dove ò detto:
«la memoria di quest'uso è talmente abolita, che da 1300
anni non se ne trova vestigio ». Lo Scardeone vorrebbe
che il Mussato avesse, per la prima volta, mutato, in
questa occasione, il nome di Musso con quello di Musato,
quasi a dire atto alle Muse {musis aptus); ma questa
è una pura fantasia del canonico padovano, perciocché
il nostro poeta si chiami Mussato - e non Musato - più
frequentemente che Musso, anche nei documenti che
precedono la sua incoronazione (Vedi: Gloria Bocu-
ìiienti). Nello stesso errore cadde il Facciolati [Fasti
Gymnasii patavini, 1757) e il Tommasini {Gymn. Pat.y
che scrisse: Albertinus poeta creatus est, atque cogno-
men auctum, ut deinceps ex Musso Poeta Mussatus
diceretur, quasi Musis charus, et subinde ejus posteri
ex eo cognomento aliquandiu Poetce, seti Mussati dicti
sunt.
Capitolo Quinto.
Nuovo tentativo di ricuperare Vicenza — Sconfìtta dei Pado-
vani — Cane occupa Monselice — Ambasceria del Mussato
a Bologna, a Firenze, a Siena — Cane s'impadronisce di
Este e di Montagnana — Si rivolge verso Padova — Nuo-
va pace tra Padova e Cane — 1 fuorusciti ritornano in
città — Albertino Mussato fugge da Padova — Giacomo
da Carrara eletto principe — Abboccamento di Iacopo
con Cane — Mussato viene richiamato in città — Cane
rinnova le ostilità contro Padova — Ambasceria del Mus-
sato in Toscana — Tentativi inutili di pace — Iacopo cede
la città al Conte di Gorizia rappresentante Federico d'Au-
stria — Tregua con Cane — Cane tenta sorprendere di
nottetempo Padova — Viene respinto — Vittoria dei Pa-
dovani — Fuga di Cane — Pace — Mussato ambasciatore
in Allemagna —Il Duca di Carinzia vicario di Padova —
Nuove ostilità di Cane — Nuova pace — Frate Paolino — Il
Duca di Carinzia scende in Italia — Tregua con Cane —
Morte di Iacopo — Mussato ambasciatore a Lodovico il
Bavaro — Tregua fra Cane e Padova — Il Mussato di nuo-
vo ambasciatore al Duca di Carinzia e a Lodovico il Ba-
varo — Congiura di Paolo Dente — Vendetta di Ubertino
da Carrara.
La sconfitta toccata ai Padovani fu cagione
di grande allegrezza non solo ai Ghibellini di
Lombardia, ma di tutta l'Italia. Si stimò re-
ciso il capo ai Guelfi, poiché Padova favoriva
158 ALBERTINO MUSSATO
tutta la fazione guelfa, posta ali* oriente. Ne
esultò particolarmente Maffeo Visconti vicario
di Milano. Giberto da Correggio, Signore di
Parma, guelfo fino a quel punto, intimorito
dalle ultime vicende, strinse amicizia con Pas-
serino vicario di Mantova e con Cane *). Non
è a dire se questi, per la vittoria ottenuta, sia
salito in maggiore rinomanza presso i suoi e
divenuto più formidabile agli avversarli. Il fatto
si è che i Padovani, non ostante la pace che
avean fatto con lui , non vivevano per nulla
tranquilli, e, insieme con essi, si sentivano poco
sicuri i Trevisani loro fedeli alleati. Cane non
cessava dal favorire la fazione ghibellina e dal
recarle soccorso ovunque ne avesse bisogno;
ogni suo atto dava a divedere chiaramente l'in-
tenzione sua di farsi sempre più grande e po-
tente.
Per munirsi contro ogni possibile evento,
Padovani e Trevisani pensarono di rinnovare
l'antica alleanza. A tale uopo fu spedita dai
Padovani a Treviso un'ambasciata, dopo la
quale i Podestà d' entrambe le città s' abboc-
carono insieme. Nel documento dell'ambasciata
e nella lettera scritta dalla Repubblica di Pa-
1) De Gestis Hai. Lib. VII. Rub. I.
CAPITOLO QUINTO 159
dova ai Trevisani il Mussato è detto: Difen-
sore del i^opolo 2^culovano '). II rinnovamento
di questa alleanza porse occasione ad un' altra
maggiore, per la quale i Padovani s'unirono
con Bologna e con Ferrara. Essi munirono, nel
tempo istesso, i loro castelli, e fu saggio con-
siglio, perciocché lo Scaligero aveva fatto lega
coi Bonacossi e con Uguccione dalla Fagiuola.
Quest'ultimo, poco appresso, cacciato dalla Si-
gnoria a furore di popolo per opera di Castruc-
cio Castracani, trovò rifugio presso Cangrande,
che lo fece suo capitano generale.
II Signor di Verona non cessava frattanto
di attizzare, col mezzo de' suoi partigiani, le
discordie civili in Padova e nella Lombardia,
desideroso di muovere contro quelli, che primi
gli avessero offerto occasione *). I Padovani,
d'altra parte, aspettavano anch'essi il momento
opportuno di prendere la rivincita su Cane e
di ricuperare Vicenza, alla perdita della quale
non sapevano in niun modo rassegnarsi. Av-
venne che Io Scaligero campeggiasse col suo
esercito il Bresciano. Senza perder tempo, i Pa-
1) Vedi il documento 767 pubblicato dal Verci nel
Tomo VII della sua Storia della Marca Trivigiana e Ye-
ronese.
2) De Gesiis Ital. Lib. VII. Rub. XXI.
160 ALBERTINO MUSSATO
dovani, d'accordo con molti dei principali cit-
tadini di Vicenza, stabilirono di sorpendere que-
sta città e di impadronirsene. A capo dell'im-
presa fu chiamato il Conte Vinciguerra di Sam-
bonifazio, al quale s'unirono molti banditi ve-
ronesi, vicentini e d'altre città. Con un grosso
esercito, spargendo voce di recarsi a Ferrara,
egli si diresse verso Vicenza ; pareva che l'im-
presa dovesse riuscire a meraviglia: ma fu al-
trimenti. Cane era stato avvertito d'ogni cosa ^)
e di nascosto s'era introdotto in città. Al se-
gnale convenuto, i Padovani cominciarono a
scalare le mura; quand'ecco Cane si rivelò ad
essi improvvisamente. Grande fu lo scompiglio
che ne nacque ; quelli che erano già dentro le
mura, non potendo uscire, perchè erano chiuse
le porte, furono parte uccisi, parte fatti pri-
gioni. Sopravvenne intanto in aiuto di Cane
Uguccione con l'esercito. Cane allora aperse la
porta della città, e si scagliò contro l'esercito
padovano, che stava aspettando di fuoiù. Breve
fu il combattimento; i Padovani, colti all'im-
i) Il Ferreto vorrebbe che fossero stati i Carraresi a
spedire segreti messaggeri a Cane, per far onta a Mac-
caruffo, elle avea promossa e diretta la faccenda (Hist.
Lib. VI); ma i Cortusii dicono la trama esser stata ri-
velata a Cane da alcuni Vicentini (Lib. I. Gap. XXY.).
CAPITOLO QUINTO 161
pensata, si diedero a fuga precipitosa. Lo Sca-
ligero li insegui fino a Montegalda, uccidendone
e facendone prigioni moltissimi. 11 Conte di
Sambonifazio, ferito mortalmente, cadde nelle
mani di Cane, il quale gli usò ogni riguardo ;
pochi giorni dopo egli moriva. Tal fatto accadde
il 22 maggio 1317, giorno di Pentecoste.
Secondo le condizioni della pace conchiusa
tre anni innanzi, lo Scaligero si rivolse ai Ve-
neziani, che n'erano mallevadori, perchè gli ve-
nissero consegnate le ventimila marche d'ar-
gento, che i Padovani, per aver primi violati
gli accordi, erano obbligati a pagare. L'astuto
Scaligero s'era trattenuto dall' inseguirli oltre
i confini del vicentino, affinchè non potessero
addurre pretesto alcuno per esimersi dalla pena^,
nella quale erano volontariamente incorsi. I Pa-
dovani, com'è facile supporre, ricusarono di pa-
gare la multa, e Cane ne fu lieto, che, in tal
modo, vedevasi offerta buona ragione per muo-
ver loro apertamente la guerra. Chiese pertanto
"soccorsi alle città ghibelline della Lombardia,
sotto colore di muover contro Brescia, per non
destar sospetto nei Padovani, ed invocò l'aiuto
del Conte Enrico di Gorizia. Apparecchiata ogni
cosa, mosse da Verona il 20 dicembre, ed uni-
tosi con Uguccione, con Bailardino, col conte
u
162 ALBERTINO MUSSATO
eli Gorizia e con altri capitani ch'erano partiti
da Vicenza, attraversò di nottetempo i colli
Euganei ed arrivò verso il mattino del 21 a
Monselice, prima ancora che i Padovani potes-
sero sospettar nulla della sua trama. Un tra-
ditore, col quale avea patteggiato innanzi, gli
aperse una porta, e l'esercito, senza incontrar
resistenza alcuna, s'impadronì del luogo. Giunta,
coll'alba, la notizia a Padova, i cittadini ne
furono grandemente costernati; i più timorosi,
prevedendo che Cane si sarebbe rivolto alla
città loro, fuggirono più presto che di fretta,
portando seco quanto aveano di più prezioso,
e si ricoverarono in Venezia '). Ma non si per-
dettero d' animo i Padri, i quali mandarono
dapprima messaggeri a Montagnana, a Castel-
baldo, a Rovigo, per incuorare quei Podestà ed
eccitarli alla vigilanza e alla difesa, poscia in-
viarono ambasciatori a Treviso per chiedere
soccorsi, e, nello stesso tempo, spedirono Al-
bertino Mussato e Tisone de' Torcoli ad implo-
rare aiuti da Bologna, da Firenze, da Siena.
Ecco pertanto il Mussato adoperarsi un' altra
volta pel bene della sua patria. Quale sia stato
l'esito dell'ambasciata non sappiamo, poiché nò
1) Cort. Lib. II. Gap. I.
CAPITOLO QUINTO 163
egli né altri ce ne hanno tramandato notizia.
Il solo particolare di essa, che il Mussato re-
gistri nella sua storia si è : aver egli dovuto
recarsi a Chioggia per poi, con faticoso viag-
gio, lungo le coste dell'Adriatico ed attraverso
la Romagna, arrivare a Bologna, essendoché
la via diretta era intercettata dairesercito di
Cane ^). Non pare che Bologna né Firenze ab-
biano mandato soccorsi di sorta alla Repubblica
padovana ; Treviso, alia quale la presa di Mon-
selice destò grande terrore, quasi avesse Cane
alle porte, spedi agli alleati duecento cavalli
ed ottocento fanti ^j. Noi non sappiamo nem-
meno se il Mussato sia giunto fino a Firenze;
ma forse la sua ambasciata non fu del tutto
infruttuosa ; poiché come si spiega altrimenti
il fatto che Cane, occupata Monselice, invece
di rivolgersi a Padova si volse ad Este ? « Può
facilmente supporsi, scrive, non senza qualche
fondamento, il Wychgram, che Bologna abbia
ciò operato in qualche maniera ^) » . Il giorno
appresso alla occupazione di Monselice, Cane
si diresse coll'esercito ad Este. Eroica resistenza
1) De Gestis Ital. Lib, Vili. Questo libro è un fram-
mento, né è diviso in Rubriche.
2) De Gestis Ital. Lib. Vili.
3) Drittes Kapitel, pag. 48.
164 ALBERTINO MUSSATO
oppose questa fortezza allo Scaligero, il quale
fu ferito in un piede; ma il giorno seguente
essa cadde in potere del nemico, e fu data,
per vendetta, alle fiamme. Da Este il vincitore
passò a Montagnana, abbondonata vilmente dal
suo Podestà, che s'era rifugiato a Badia. In
pochi giorni trentaquattro tra castelli e fortezze
del territorio padovano caddero in potere di
Cane ^). Imbaldanzito da tanta fortuna, lo Sca-
ligero si rivolse verso Padova e s'accampò a
Terradura, a sei miglia dalla città. Padova
intimorita gli domandò, per mezzo di quattro
ambasciatori veneti, una tregua, per poi trat-
tare di pace. La tregua fu accordata, ma non
combinata la pace. Ben due volte furono man-
dati da Padova ambasciatori a Cane; ma le
trattative riuscirono infruttuose. Ai 25 gennaio
1318 lo Scaligero entrò nel Pievato di Sacco,
mettendo in fuga i nemici. Dopo essersi impa-
dronito di tutti i villaggi, dando alle fiamme
quelli che opponevano resistenza, fermò l'eser-
cito presso il Ponte di S. Nicolò, donde faceva
') Secondo il Mussato la presa di Este sarebbe av-
venuta dopo quella di Montagnana {De Gestis Ital. Lib.
Vili); ma i Cortusii, il Ferreto e Pier Paolo Vergerlo
(Vilce Princiinwu Carrariensium) affermano il con-
trario.
CAPITOLO QUINTO 165
continue scorrerie fino alle porte della vicina
città ^). Invano i Trevisani ed i Veneziani ten-
tarono ogni mezzo per indurre la Repubblica
padovana a chieder la pace allo Scaligero ; essa
era ostinata nel volergli resistere. Frattanto
sempre nuovi soccorsi arrivavano da tutte le
parti al campo di Cane, sicché in breve il suo
esercito divenne formidabile. Il Duca d'Austria
e quello di Carinzia gli offersero anch'essi il
loro aiuto. I Padovani, vedendosi a mal par-
tito, ottenuta col mezzo di ambasciatori vene-
ziani una tregua di otto giorni, si decisero fi-
nalmente alla pace.
Radunato il Maggior Consiglio, Giacomo da
Carrara parlò in favore della pace. A lui s'op-
pose ferocemente Maccaruffo dei Maccaruffi, as-
serendo che i da Carrara volevano la pace,
perchè erano d'accordo coi Ghibellini '). Ciò
nonostante il consiglio di Giacomo fu accettato
alla quasi unanimità, ed egli, Rolando da Piaz-
zola, Enrico Scrovegno e Giacomo da Vigenza
1) Cort. Lib. II, Gap. I.
2) Osserva il Ferreto che le case e le possessioni dei
Carraresi, sparse pel territorio devastato da Cane in que-
sta guerra, rimasero illese da ogni danno, il che aumentò
il sospetto della segreta intelligenza, che si vuole passasse
fra essi e lo Scaligero.
166 ALBERTINO MUSSATO
furono deputati a trattare gli accordi. Dopo
lungo parlamento con Cane, ritornati in città,
presentarono al Consiglio i capitoli per l'appro-
vazione. Maccaruffo allora sollevò il popolo al-
l'armi, che corse furibondo alle case di coloro
che aveano consigliata la pace, e le derubò e
le distrusse ; fu salva quella di Iacopo, perchè
protetta dai molti suoi amici.
Lo Scaligero , informato dei trambusti, s'era
presentato con tutto l'esercito dinanzi alle mura
della città, disposto a darle l' assalto. A quella
vista anche i più accaniti tra gli oppositori si
tranquillarono immediatamente, ed i capitoli del-
la pace furono approvati a grande maggioran-
za ^). Iacopo, banche di notte, si recò co' suoi
compagni al campo nemico ed ottenne che la
pace fosse confermata da Cane. Essa consisteva
in ciò : che lo Scaligero ritenesse e custodisse
a vita Monselice, Torre Estense , Castelbaldo ,
Montagnana, riservatane la giurisdizione ai Pa-
dovani, che Bassano dovesse rimanere ai Pa-
dovani e che i fuorusciti fossero ricevuti in
patria, rimessi nei loro beni ed ammessi a tutti
1) Di mille seicento e più che diedero i loro voti, soli
cento e sessanta sette i'urono contrarli.
Verci, Storia della Marca Trivigiana e Veronese^
Doc. 858.
CAPITOLO QUINTO 167
gli onori. Quest'ultima condizione palesa chia-
ramente r intenzione dello Scaligero ; egli, non
che dare la pace alla città nemica, voleva in-
trodurre in essa i germi di nuove e terribili
discordie, che gliene avrebbero agevolata la
conquista. La pace fu sottoscritta in febbraio,
ed ai fuorusciti venne assegnato il termine di
due mesi pel ritorno in città/Essi v'entrarono
solennemente il giorno di Pasqua. Il Maccaruf-
fo, che s' era opposto, con tanto ardore, alla
pace, prevedendo ciò che gli sarebbe toccato
al ritorno dei fuorusciti, abbandonò prudente-
mente la città e si rifugiò in Ferrara presso
il Marchese Rinaldo d'Este ; e fece bene, per-
ciocché, appena entrati, i fuorusciti volsero l'a-
nimo a vendicarsi delle ingiurie ricevute, spo-
gliando le case dei loro nemici ed uccidendo
quelli che tentavano di oppor resistenza ^). Mol-
ti, per timore o per togliere la causa di mag-
giori discordie, fuggirono dalla città, e tra gli
altri Albertino Mussato e suo fratello Gual-
pertino -). Obizzo degli Obizzi pisano, ch'era ca-
pitano del popolo, poiché vide le dissensioni
1) II. Maccaruflfo poi, quando seppe che la Repubblica
avea dato la Signoria a Jacopo da Carrara, suo odiato
competitore, si uni con Cane : e qui fece male !
2) Cort. Lib. IL Cap. II.
168 ALBERTINO MUSSATO
farsi di giorno in giorno maggiori, né esservi
modo di farle cessare, rinunziò al proprio ufficio.
I tumulti nella città continuarono fino agli ultimi
giorni di luglio, nei quali venne eletto principe
Giacomo da Carrara '). «È da notarsi in que-
sto fatto - scrive lo Zanella -che l'incontami-
nato vessillo della libertà padovana era posto
in mano al Carrarese da quel Rolando da
Piazzola , che abbiamo veduto propugnatore
delle patrie franchigie contro i più cauti con-
sigli del Mussato. Se suprema necessità della
patria, già sbattuta e rotta da tante burrasche,
non condusse Rolando a quel passo, noi diremo
che la costanza non sempre si accoppia coll'au-
dacia delle opinioni; e che alla salute d'un po-
polo meglio provvede la temperanza del senno,
che l'avventata temerità del coraggio » ^).
Del resto, poiché le condizioni infelici della
città esigevano, affinchè essa non avesse a pe-
rire, che l'autorità e la potenza venissero poste
nelle mani di un solo, su quale altro, meglio
che sul Carrarese, avrebbe potuto cadere la
scelta? Egli, con arte sottilissima, aveva saputo
1) Cori. Lib. II. Gap. III.
2) Guerre fra Padovani e Yicentini al tempo di
Dante.
CAPITOLO QUINTO 169
rendersi accetto ad entrambe le fazioni, e, con
la sua generosità, cattivarsi l'animo del popolo
che lo salutò, con entusiasmo. Signore di Pa-
dova.
Piacque la nomina anche a Cangrande, non
tanto perchè avesse speciale stima di Jacopo,
quanto perchè sperava di trovarlo docile ai
suoi comandi. Le prove di amicizia che il Car-
rarese gli avea date lo facevano persuaso che
gli sarebbe rimasto fedele, sicché vedeva in lui
un mezzo potente a meglio raggiungere i suoi
fini. Jacopo, alla sua volta, era ben lieto di
vivere in pace con lo Scaligero e coi Vene-
ziani, vicini formidabili tutti e due, fin tanto
almeno che avesse potuto rendere solide le basi
del suo principato.
Cane mostrò desiderio di abboccarsi con Ja-
copo, e questi lo appagò di buon grado. Il
giorno 7 settembre 1318 si trovarono insieme
a Montegalda. Cane voleva persuadere il Car-
rarese a bandire come traditori i fuorusciti pa-
dovani, tra i quali il Mussato; ma Jacopo, con
sorpresa dello Scaligero, ricusò. Finse costui
di adattarsi al rifiuto e rivolse il discorso ad
altri argomenti ; ma in cuor suo giurò di ven-
dicarsi. Jacopo credette di averlo rabbonito col
proporre la propria figlia Taddea in moglie a
170 ALBERTINO MUSSATO
Mastino nipote di lui ^), Dopo di ciò si sepa-
rarono con molte proteste di amicizia.
Albertino Mussato fu presto richiamato in
Padova insieme con gli altri fuorusciti. Jacopo
conosceva troppo il valore di lui, per non cer-
care di averlo a sé vicino: nelle circostanze
poco favorevoli in cui si trovava, il consiglio
e l'opera del Mussato gli potevano tornare di
utilità grandissima.
Cane, frattanto, dopo aver tentato invano di
assoggettare Treviso, che s'era data ad En-
rico conte di Gorizia^ vicario di Federico d'Au-
stria, unitosi coi Marchesi d'Este e coi fuoru-
sciti padovani, nemici del Carrarese, pensò di
trovar modo di romper la pace con Padova,
non avendo un' onesta cagione per muoverle
direttamente la guerra. Egli andava insinuando
essere sua intenzione di cacciare dal dominio
i Carraresi, affine di ridare alla città l'antico
reggimento ^).
Pertanto mandò lettere a Iacopo , perchè,
senza indugio, richiamasse in città i fuorusciti
suoi partigiani e li restituisse nei loro beni.
Con meraviglia di Cane, l'astuto Carrarese gli
1) Cori. Lib. II. Gap. III.
2j Cort. Lib. II. Gap. V.
CAPITOLO QUINTO 171
significò, per mezzo di ambasciatori, ch'era di-
sposto a richiamarli. Ciò non ostante lo Scali-
gero, volendo mettere ad effetto il suo disegno,
si diresse dapprima contro Bassano. D'accordo
con un traditore si sarebbe impadronito della
terra, senza colpo ferire, se la trama, scoperta
a tempo, non fosse stata sventata ^). Cane di-
vise l'esercito in due ; egli stesso con una parte
s'avviò a Monselice, donde mosse verso Pado-
va, presso la quale, con grande terrore dei
cittadini, il giorno 5 agosto 1319, stabili il suo
campo. Bailardino Nogarola, a capo dell'altra,
pose l'assedio a Cittadella.
Presso la torre di Bassanello, Cane fece co-
struire un fortissimo castello di legno, che de-
nominò Isola della Scala; vi pose a capo un
suo soldato, e fece deviare il fiume , affinchè
non scorresse verso la città ; le campagne al-
l'intorno furono tutte devastate. A ciò s'aggiun-
ga che i Marchesi d'Este, secondo che erano
rimasti d'intelligenza con Cane, avevano occu-
pato Badia, Lendinara e Rovigo.
In tanto frangente, il Carrarese non si per-
dette d'animo, e, poich'ebbe cercato invano di
mitigare l' animo dello Scahgero e d' indurlo
3) Verci op. cit. Uh. Vi. Doc. 4S9-490-491.
172 ALBERTINO MUSSATO
alla pace, convocò una pubblica assemblea di
tutti i cittadini. Dopo aver detto ' brevemente
ed efficacemente com'egli avesse tentati tutti
i mezzi per conservare la pace alla città, il cui
dominio aveva accettato solo per provvedere ad
essa, siccome un padre, conchiuse: Poiché Cane
ingiustamente ci assale, combattiamo per la li-
bertà, teniamoci apparecchiati nell'armi, e quan-
do venga il momento opportuno, cavalchiamo
virilmente contro i nemici. — Comanda, gli ri-
sposero ad una voce gli astanti, noi siamo pronti
ad obbedire ^).
In pochi giorni la città fu munita di spaldi
e di fosse. Timore di fame non c'era, poiché,
ai primi rumori di guerra, i cittadini aveano
trasportato, dai dintorni in città, quante più
vettovaglie avevano potuto; i molini, in man-
canza di acqua, venivano fatti girare col mezzo
di macchine. La custodia notturna della città
era affidata ad alquanti dei nobili, ed una terza
parte dei cittadini vegliava di continuo. Si man-
dò ambasciatori, per aver soccorso, in Toscana,
a Bologna e al Conte di Gorizia in Treviso.
Quelli mandati in Toscana furono Ubertino da
Carrara, Giovanni da Vigonza ed Albertino
1) Cort. Lib. II. Gap. VI.
CAriTOLO QUINTO 173
Mussato. Nulla sappiamo dell'esito di questa
ambasceria ; la storia del Mussato, dopo l'oc-
cupazione di Monselice da parte di Cane, ha
una lacuna di circa tre anni, ed i Cortusii, i
soli tra i cronisti che ne facciano menzione,
s'accontentano a un semplice cenno ^). Ma se
nulla sappiamo dell'esito dell'ambasceria, non
ignoriamo ciò che è toccato ad Albertino in
questo suo viaggio a Firenze. Ce lo narra egli
stesso in una sua elegia intitolata : il Sogno ').
Colto da fortissima febbre in un albergo vicino
a Firenze, fu trasportato in questa città, dove
giacque qualche tempo ammalato e fece il sogno,
dal quale s'intitola l'elegia. Altro non sappiamo.
I Bolognesi, per giovare all'amica città, spe-
dirono ambasciatori a Ferrara, affine di acco-
modare ogni vertenza fra i Marchesi d'Este e
il Comune di Padova ^). Ma il Conte di Gori-
zia, al quale i Padovani offrivano Bassano e
Cittadella oltre a una somma di danaro, perchè
venisse in loro aiuto, s'era frattanto amicato
con Cane, dal quale aveva avuto Asolo, Mon-
tebelluna e i castelli del distretto di Treviso,
fatta eccezione di Noale. Il Conte stesso scrisse
I) Lib. II. Gap. Vili.
~) Somniuin in mgritudine apud Florentiam ecc.
3) Verci op. cit. Lib, VI.
174 ALBERTINO MUSSATO
ai Padovani di questa amicizia, manifestando
le sue intenzioni ostili verso Padova; per la
qual cosa il Carrarese fece dare alle fiamme
Vigonza, Peraga e molte altre ville, temendo
che contro di esse si volgesse il Conte dap-
prima. Gli ambasciatori veneti cercavano frat-
tanto di metter la pace fra Cane e i Padovani;
ma le esigenze di quello erano esorbitanti, sic-
ché nulla fu potuto conchiudere.
In quel torno (1 nov. 1319) Cittadella cadde
in potere dello Scaligero ^), e la vicina Bas-
sano, per timore, si diede al Conte di Gori-
zia ^). Iacopo, in tanta rovina, non vide altro
scampo che quello di rivolgersi di nuovo al
Conte, tentando ogni via per farselo amico ; ma
prima di venire a ciò, volle vedere se gli riu-
sciva, col mezzo degli ambasciatori veneziani,
di combinare la pace con Cane. Questi si man-
tenne fermo nelle sue pretensioni e voleva di
più che i Padovani gli dessero Passano in cam-
bio di Cittadella. Iacopo inteso questo, diede,
per secreto accordo, Padova in potere del Conte
di Gorizia, come a rappresentante di Federico
duca d'Austria. Il Conte, alla sua volta, pro-
1) Cort. Lib. II. Gap. YIII.
2) Vedi la Cronichella Trivigiana di Liberal di Le-
vada.
CAPITOLO QUINTO 175
mise di mettere in fuga Cane e di ricuperare
ai Padovani Monselice, Montagnana, Rovigo e
tutti quei luoghi che il Comune di Padova
aveva posseduto per lo innanzi ^),
Prima che la notizia di questo accordo si
divulgasse, il Conte di Gorizia, fingendosi amico
a Cane, mandò al castello di Bassanello cento
soldati tedeschi, avendo comandato segretamen-
te al loro duce, che, vedendo levarsi una ban-
diera rossa sulle mura di Padova, ritenesse i
Padovani amici, e consegnasse Cane nelle lo-
ro mani, il che gli verrebbe fatto assai facil-
mente, poiché questi era solito di preceder
l'esercito nel correre contro gli inimici. Cane,
avvistosi a tempo del tradimento, spogliò i te-
deschi dell'armi e dei cavalli, e fece prigionieri
quanti non riuscirono a sottrarsi colla fuga.
Dopo di ciò pose ii suo campo vicino al ponte
di Vigodarzere e mandò a Peraga Traverso
dei "Dalesmanini, affinchè nessuno potesse caval-
care liberamente da Treviso a Padova.
In quest' ultima le vettovaglie incominciavano
a mancare, e il pericolo della fame era imminen-
te. Continui messi venivano spediti al Conte di
Gorizia, perchè affrettasse il suo soccorso. Egli
i) Cort. Lib. II
176 ALBERTINO MUSSATO
stava per muoversi, allorché capitò in Treviso
Ulrico di Waldsee, capitano della Stiria^ insieme
cogli ambasciatori del Duca di Carinzia, per
combinare, a nome di Federico d'Austria, la pa-
ce tra lui e Cangrande. Quest'ultimo fu persuaso
dalle parole di Ulrico, ed aderì ad una tregua
coi Padovani, che avrebbe durato fino alla metà
di quaresima ; dopo il qual termine si sarebbe
tenuto un parlamento a Bolzano, per meglio
disporre ogni cosa. Piacquero le condizioni, e
il giorno 5 gennaio 1320, il Signor di Waldsee
ricevette il dominio di Padova in nome del
Duca d'Austria. Cane, muniti i castelli dei Pa-
dovani ch'erano rimasti in suo potere, si ritirò
a Vicenza, e il Conte di Gorizia diede licenza
a" suoi di ritornare alle loro case ^).
I Duchi d'Austria e di Carinzia non poterono
intervenire, nel giorno stabilito, al parlamento
in Bolzano ; il primo scrisse ai Padovani ed a
Cane di voler prolungata la tregua fino all'ot-
tava di Pasqua. Quelli desiderosi di obbedire
ai comandi di lui mandarono ambasciatori a
Verona per significare allo Scaligero com'essi
fossero disposti ad osservare la tregua; ma
Cane, con poco riguardo al Duca, impose loro,
1; Cort. Lib.>L Gap. XI.
CAPITOLO QUINTO 177
per questa dilazione, condizioni tali ch'essi non
poterono accettare. La tregua per tanto fu
rotta. Cane, unito a Guecello da Camino, ri-
tolse dapprima Asolo e MontebelUina al Conte
di Gorizia, e corse quindi a porre l'assedio a
Padova, che, turbata da intestine discordie e
da omicidi, mostrava che non avrebbe potuto
resistere lungamente. Fu tenuto allora un par-
lamento a' Bolzano ^), al quale intervenne il
Duca d'Austria. Lo Scaligero, che s'era risolto
d'andarvi, giunto a Trento si pentì e fece ri-
torno. Svanita ogni speranza di accomodamento
con lui, Federico rimandò in Italia il Conte di
Gorizia, con promesse di aiuti ai Padovani ^).
Ulrico radunava frattanto in Germania quante
più genti poteva, per scendere con esse al soc-
corso di Padova. Lo seppe Cangrande, e volle
tentare se gli venisse fatto di sorprendere di
nottetempo la città, prima che giungessero gli
aspettati soccorsi.
Era la notte del 3 giugno, e, fatto gettare
un ponte di tavole sopra il canale, che scor-
reva vicino agli orti del monastero di S. Giu-
1) Così la Cronichetta del Levada. I Cortusii vorreb-
bero che il parlamento fosse stato tenuto in Trento nel
maggio 1320 (Lib. IL Gap. XIII.).
2) De Gestis Ital. Lib. IX.
12
178 ALBERTINO MUSSATO
stina, egli intromise furtivamente in città, che
da quel lato non avea mura, buon numero de'
suoi, i quali, uccise le sentinelle, s'avanzavano
minacciosi. Un soldato li scorse, e, non potendo
loro opporsi, si diede alla fuga. Fuggendo, s'ab-
battè in Nicolò da Carrara, che, con un eletto
drappello, girava, com'era suo costume, intorno
alle mura per custodia della città. Alla funesta
notizia, egli precipitò furibondo co' suoi addosso
agli inimici, che, atterriti dall'improvvisa com-
parsa e sopraffatti dal numero, si diedero a
fuga disordinata. Il ponte si ruppe; molti an-
negarono miseramente, altri furono fatti a pez-
zi ^). Per questa vittoria i Padovani fecero il
giorno di poi una gran festa nella Chiesa di
Santa Giustina.
Cane, irritato per la mala riuscita dell'im-
presa, fece scavare una fossa dal ponte di Bas-
sanello fino a quello dei Graici, presso al quale
fece erigere un nuovo castello: intendeva di
chiudere la città da tutte le parti, sicché nes-
suno potesse uscirne. Ma ben presto entrò in
Padova, mandato dal Signore di Waldsee, il
Conte di Fàlemberg con buon numero di soldati
tedeschi. I Padovani, incoraggiati da questo
1) De Gestis Ital. Lib. IX. Cori. Lib. II. Cap. XIY.
CAPITOLO QUINTO 179
soccorso ed approfittando dell'assenza di Cane,
che era andato a Vicenza, uscirono dalla città
per la porta di Pontecorvo, ed arrestatisi vi-
cino alla chiesa di Sant'Jacopo, mandarono in-
nanzi i pedoni a riempiere la fossa fatta dai
nemici. Se n'avvide Simon Filippo podestà del
Bassanello, ed accorse con cinquecento soldati
a cavallo per impedire quell'operazione. Sennon-
ché Altenerio degli Azzoni, podestà di Padova,
venuto a tempo in aiuto de' suoi, riportò una
gloriosa vittoria , colla quale tolse ai nemici
quattordici bandiere e fece molti prigionieri, tra
i quali Simon Filippo. Ciò avvenne il 12 luglio,
nella festa dei Santi Ermagora e Fortunato ^).
Volò Cane da Vicenza, munì la fossa e vi fece
scorrere l'acqua che deviò dal canale di Mon-
selice; credette cosi d'impedire ogni sforzo de'
Padovani e fece ritorno a Vicenza. Padova si
vide ben presto alle strette per mancanza di
viveri ; cionondimeno tenne fermo, né volle por-
gere ascolto a chi le consigliava la pace. Ai
25 d'agosto, finalmente, con grande allegrezza
degli assediati, entrarono in città il Conte di
Gorizia ed Ulrico di Waldsee, accompagnati da
un grosso esercito. Fu stabilito che il giorno
1) Cort. Lib. II. Gap. XVI.
180 ALBERTINO MUSSATO
seguente avrebbero tentato di aprirsi un passo,
per introdurre in città quante più vettovaglie
fosse stato possibile. Lo seppe Cane, e la notte
stessa fece ritorno in fretta al Bassanello. Visti
i nemici, che aveano incominciato a passare la
fossa, usci loro incontro con mille cavalli. S'ac-
cese un tìero combattimento fra" le due parti,
e Cane stava per riportare vittoria, allorché
il Conte di Gorizia, varcata la fossa, mosse
contro di lui e mise lo scompiglio ne' suoi, che
si diedero alla fuga. Cane potè salvarsi a stento
dalle mani dei tedeschi. Ferito in una coscia,
fuggi verso Monselice, e fu bene avventurato
che un mugnaio gli offrisse, per via, la propria
giumenta ancor fresca in cambio del suo ca-
vallo ormai stanco. Il castello di Bassanello fu
preso, spogliato di ogni cosa e distrutto; l'ac-
qua tornò a scorrere secondo l'usato ^). Tra i
fuorusciti padovani, condotti prigionieri in città,
fu Maccaruffo dei Maccaruffi, l'oppositore dei
Carraresi, il quale venne ferito da Marsilio da
Carrara ed ucciso miseramente da Tartaro da
Lendinara ^).
•1) Cori. Lib. II. Gap. XVII. De Gesiis Ital. Lib. IX.
2) «Tuie, scrive il Gennari, è stato il miserabile fine
di quest'uomo magnanimo e valoroso, ma trojipo più elio
non conveniva fazioso, ardente, e della grandezza dei
CAPITOLO QUINTO 181
Per otto giorni festeggiarono questa vittoria
i Padovani. Frattanto il loro esercito pose l'as-
sedio a Monselice, donde Cane, per timore,
s'era allontanato. Sospettando mali peggiori,
egli mostrò desiderio di pace, alla quale sospi-
ravano gli stessi Padovani estenuati dalla lunga
lotta. Mandò pertanto suoi ambasciatori al
Conte di Gorizia e al Signore di Waldsee in
Este. 11 Conte, dopo l'abboccamento cogli am-
basciatori, abbandonato l'esercito, fece ritorno
in Padova. Tal fatto insospettì i Padovani, i
quali, ritenendosi traditi per non esser stati
chiamati a parte dei maneggi, levato l'assedio
a Monselice, si rifugiarono nella città loro. Gli
Estensi, pieni di sospetto anch'essi, fuggirono
dalla loro terra, la quale, rimasta senza difesa,
fu invasa dai fuorusciti padovani che, dopo
averla spogliata, la diedero alle fiamme. Ciò
accadde nel settembre del 1320 ^).
Le trattative di pace, naturalmente inter-
Carraresi odiatore. Di cotesta sua sventurata morte non
fa motto il Mussato; forse perché essendo amico di lui
e del medesimo popolare partito, non poteva parlarne
senza dargli biasimo e mala voce di aver congiurato
contro la patria; ma i Cortusii ce ne lasciarono lame-
moria (Lib. II. Gap. XVIII.)». Lettera sopra la famiglia
de' Maccaruffi, Padova, Bianchi 1857.
1) Cort. Lib. IL Gap. XIX.
182 ALBERTINO MUSSATO
rotte, furono ripigliate dopo non molto, mercè
l'opera efficace di Ulrico di Waldsee. Verso
la line d'ottobre la pace fu stipulata ed annun-
ziata ai popoli, che l'accolsero con esultanza.
Per essa i beni dei Padovani, posti nei distretti
di Vicenza e di Verona, doveano essere ritor-
nati ai loro proprietarii, e i prigionieri d'ambe
le parti rilasciati in libertà. Cane avrebbe con-
tinuato a possedere Monselice, la Torre del
passo di Este, Montagnana e Castelbaldo, col-
i'obbligo di lasciare aperti i fiumi e le strade,
finché il Duca d'Austria avesse dichiarato a
chi dovessero spettare quelle fortezze ; lo stesso
Duca avrebbe dato inoltre sentenza intorno ai
fuorusciti padovani e ai loro beni; pena, mille
marchi d'argento a quella delle due parti che
avesse violato i patti. A questi s'aggiunsero
delle condizioni scerete, che, cioè, il Conte di
Gorizia cedesse Bassano allo Scaligero in cam-
bio di Asolo e Montebelluna, e che Cittadella
fosse restituita al Comune di Padova, il che
avvenne il primo febbraio del 1321 ^).
Dopo questa pace, Federico restituì alla città
di Padova tutti i privilegi che Enrico VII le
avea tolti con la terribile sentenza del 1313,
1) Cort. Lib. II. Gap. XX.
CAPITOLO QUINTO 183
e confermò all'Università gli onori, che le avea
conceduto con altro suo decreto.
Ma le cose non erano ancora perfettamente
tranquille. Entrambe le parti avevano delle pre-
tensioni scambievoli, alle quali non intendevano
rinunziare. Si volsero pertanto a Federico, come
ad arbitro. Il Signore di Waldsee, accompa-
gnato da tre ambasciatori padovani, andò a
costui verso la fine di febbraio del 1321 ; nello
stesso tempo vi andarono gli ambasciatori di
Cane ; ma né quelli né questi ottennero nulla.
Ulrico, a cui premeva di mettersi d'accordo con
lo Scaligero, si recò, nel mese di maggio, con
alcuni nobili della città a Vicenza ; ma, come
pare, senza frutto. I Cortusii dicono che non
si potè ben sapere che cosa il Signore di Wald-
see abbia trattato con Cane ^). Il fatto si è
che, nel mese di luglio, Ulrico ritornò in Ger-
mania, e con lui vi andarono Nicolò da Car-
rara, Giovanni da Camposampiero, Giovanni da
Vigenza, Aleardo de' Basilii ed Albertino Mus-
sato. Essi domandavano che i ribelli di Padova
fossero condannati come ribelli dell' Impero, e
che Cane restituisse tutti i casteUi del distretto
padovano, che teneva occupati. Gli ambascia-
1) Cort. Lib. III. Gap. I.
184 ALBERTINO MUSSATO
tori di Cane, presenti anch'essi, obbiettavano
essere i fuorusciti padovani fedeli all' Impero,
e Cane, a giusto titolo, possedere quei castel-
li. Essi offrivano inoltre al Duca d'Austria la
loro devozione e grande quantità di danaro,
purch' egli volesse nominare Cangrande suo vi-
cario in Padova. Inteso questo, Ulrico ricusò
di tornare a Padova, e Federico stette incerto
su ciò che dovesse fare, perciocché pensava che
l'aiuto di Cane gli poteva tornare efficacissimo
nella guerra ch'egli aveva col Bavaro. Prestò
tuttavia ascolto alla voce della coscienza e alle
istanze degli ambasciatori padovani, e nominò
suo vicario in Padova il Duca di Carinzia suo
fratello. Questi, il giorno 5 settembre 1321,
accettò l'incarico, e giurò di hberare il di-
stretto di Padova dal dominio di Cane ^). Non
v' ha dubbio che a tale decisione di Federico,
tanto favorevole ai Padovani, deve aver con-
tribuito r eloquenza del Mussato.
Nel novembre di quell'anno Corrado di Oven-
stein, vicario del Duca di Carinzia, entrò in
Padova con duecento cavaheri ^). Cane fu as-
sai malcontento della sentenza di Federico, e,
i) Cort. Lib. III. Gap. I.
2) Ibid.
CAPITOLO QUINTO 185
non potendo in altro modo vendicarsi, eccitò
i fuorusciti a rinnovare le scorrerie nel terri-
torio padovano. Approfittando dell' assenza di
Corrado di Ovenstein, il quale, con alcuni am-
basciatori padovani, era andato in Carinzia per
trattare intorno alla maniera di reprimere la
prepotenza dello Scaligero, i fuorusciti, con a
capo Corrado da Vigonza, nel febbraio del 1322,
s'accamparono ad Este, e, dopo fatta gran pre-
da nei dintorni, andarono a fortificarsi in Vi-
ghizzolo. Arquà, Pernuraia, Tribano, Conselve
e tutti i villaggi all' intorno fino a Bovolenta
caddero in loro potere. I Padovani scrissero
al Duca di Carinzia, che mandò in loro soc-
corso quattrocento soldati, i quali furono spe-
diti immediatamente ad Este. Tutto quell'anno
durarono le lotte tra i Padovani e i fuorusciti.
L'anno appresso (1323) questi, resi più forti
dall'aiuto di Cane, riuscirono a scacciare da
Este e da Santa Maria delle Carceri l'esercito
padovano. Dio sa quanto a lungo sarebbero
durate le discordie, se un frate Paolino dell'or-
dine dei minori non avesse cercato d'indurre
alla pace le parti contendenti. La pace fu con-
fermata dal Duca di Carinzia colle condizioni,
che i fuorusciti fossero, senza indugio, richia-
mati in patria, che i più potenti dovessero stare
186 ALBERTINO MUSSATO
ai confini per sei mesi, termine che fu poi ab-
breviato, e che coloro che avevano inimicizie
capitali, come i Maccaruffi, i Dalesmanini, Ga-
boardo degli Scrovegni ed altri molti, dovessero
stare ai mandati per un anno e più, finché si
fossero messi d'accordo cogli intrinseci ; condi-
zioni che non furono interamente rispettate. La
pace fu approvata in Padova dal Maggior Con-
siglio il 19 maggio del 1323 ^). Frate Pao-
lino, mentre si recava in Carinzia cogli altri
ambasciatori, fu colto, per via, dalla morte. La
1) Cort. Lib. III. Gap. II.
Vedi : Gloria, La pace del 1323 tra i Padovani in-
trinseci ed estrinseci.
Lo stesso Gloria pubblicò più tardi un documento (2
giugno 1323) in cui Corrado di Ovenstein, alla presenza
di frate Guido abate del monastero della Vangadizza,
di Giovanni Camposampiero, di Albertino Mussalo poeta
e storiografo padovano, decreta « che essendo seguita
nella festa di San Pietro 2ylartire di quell'anno la pace
tra i Padovani e i loro concittadini ribelli e fuorusciti,
si debba tenere quella festa per solenne ogni anno in
Padova, e il capitano o vice-capitano, il podestà, gli
anziani, i gastaldi delle fraglie (capi dei collegi delle
arti), i componenti quesf ultime e gli officiali del Co-
mune di Padova debbano ogni anno nella detta festa
udire la messa all' altare dedicato a quel Santo nella
chiesa di S. Agostino di Padova, e far ad esso altare
quella offerta che vogliano i gastaldi e gli anziani sud-
detti».
nocumenti inediti intorno a Francesco Petrarca
e Albertino Mussalo. Doc. X. Vedi: Appendice Doc. VI.
CAPITOLO QUINTO 187
sua fine immatura fu pianta amaramente dai
Padovani. In questo frattempo moriva pure il
Conte di Gorizia. S'avvicinava frattanto il ter-
mine in cui i fuorusciti dovevano essere riam-
messi in patria ; ma i Padovani, fra i quali
principalmente Nicolò e Marsilio da Carrara
coi loro aderenti, Albertino Mussato, Giovanni
da Camposampiero e l'Abate di S. Maria della
Badia, non intendevano assolutamente di aprir
loro le porte. Fecero pertanto un Consiglio,
nel quale stabilirono di mandare segretamente
l'Ovenstein al Duca di Carinzia per indurlo a
venire in Italia. L'Ovenstein vi andò, e seppe
esporre cosi bene la cosa, facendo conoscere
al suo Signore le ingiurie, che Cane recava
di continuo ai Padovani, che il Duca lo man-
dò innanzi con quattrocento cavalli, coi quali
entrò in Padova l'ultimo di maggio del 1324.
Il Duca, accompagnato da Ottone d'Austria
e da Ulrico di AValdsee, gli tenne dietro.
Dappertutto dove passava, il suo esercito
metteva lo spavento negli abitanti e devastava
ogni cosa. Il Friuli, Treviso, Castelfranco, Cur-
tarolo furono particolarmente saccheggiati da
quelle barbare genti. Cane, temendo il furore
dei tedeschi, invocò l'aiuto de' suoi alleati e ten-
tò col mezzo di danari, di piegare il Duca dalla
188 ALBERTINO MUSSATO
sua ; ma i Padovani lo prevennero col dare ai
tedeschi trenta mila fiorini d"oro. 11 Duca entrò
in Padova il 21 giugno per porta Ognissan-
ti e, nello stesso tempo. Ottone d'Austria per
quella di Pontemolino ; poco appresso uscirono
entrambi, ed andarono ad accamparsi a Mon-
selice. Non desistette l' esercito dalle rapine,
dagli omicidi e dagli incendi, talché i Pado-
vani ebbero a dire, che le guerre di Cane avreb-
bero loro nociuto assai meno.
Poco dopo, pei maneggi dello Scaligero, o
perchè la fortezza di Monselice gli paresse ine-
spugnabile, il Duca fece ritirare l'esercito verso
Padova e si accampò sulle rive della Brenta.
Temettero i Padovani che volesse saccheggiare
la città, e perciò s'armarono e fecero ingiuria
ad alcuni tedeschi che si trovavano dentro le
mura. Per questo eccesso, taluni cittadini in-
nocenti furono condannati alla forca.
Ai 26 di luglio, fatta tregua con Cane fino
al Natale ^), il Duca fece ritorno in Allema-
gna, lasciando la città in custodia al Conte di
Falemberg -). Per tal modo, osservano i Cor-
tusii, il Duce di tante genti, senza aver fatto-
1) E non fino a Pasqua, come scrive nelle sue Cro-
niche Giovanni Villani.
2) Cori. Lib. III. Gap. IV.
CAPITOLO QUINTO 189
ingiuria ai nemici, con danno gravissimo dei
Padovani, fece turpemente ritorno ^).
Ai 22 novemÌ3re (1324) moriva Giacomo da
Carrara, in età di sessant'anni, lasciando erede
Marsilio suo nipote. Egli moriva compianto da
tutti per le sue eminenti virtù. Poco appresso
spirava la tregua che il Duca di Carinzia aveva
conceduta a Cane. Tutti gli abitanti dei villaggi
del territorio padovano, fatta eccezione di quelli
dei villaggi di Pedevenda fino ad Abano, che
s'erano dati a Cane, si rifugiarono, per timore,
in città, portando seco le vettovaglie. I Pado-
vani, per scongiurare la procella che loro so-
vrastava, scrissero al Duca di Carinzia, il quale
fece loro grandi promesse e nulla più. Cane
mandò Ribaldo suo capitano nel territorio di
Treviso e il marchese Malaspina in quello di
Padova. Prese il primo ed abbruciò Brusaporco
il 13 gennaio 1325; assediò il secondo Vighiz-
zolo, e se ne impadronì il 20 dello stesso mese.
Dopo di ciò lo Scaligero pose il suo campo a
Conselve e scrisse ai Padovani che mandassero
a lui alcuni popolani per trattare di pace ; egli
frattanto si sarebbe astenuto dagli incendii ').
i) Lib. III. Gap. IV.
2) Cosi i Cortusii Lib. III. Gap. V. L'Anoaimo Foscari-
niano dice che i fuorusciti, che erano nel campo di Ga-
190 ALBERTINO MUSSATO
Gli risposero i Padovani : essere ben contenti
di fare la pace, purché Cane avesse pazienza
fino a che intendessero il parere dei loro ami-
ci, i Trevisani. Parve allo Scaligero che respin-
gessero, in tal maniera, la sua proposta, e co-
mandò che fossero dati alle fiamme tutti i vil-
laggi del Pievato e devastate le campagne fino
alle porte della città. Spaventati i Padovani
per tanta audacia di Cane, e non sentendosi
in grado, senza gli aiuti del Duca, che avea-
no attesi invano fino allora, di opporgli resi-
stenza, si rivolsero, come sempre nei momenti
più difiicih, al senno del loro grande concittadi-
no Albertino Mussato, e lo spedirono, insieme
con Pietro Campagnola, ambasciatore a Lodo-
vico il Bavaro.
Dopo la vittoria di Miihldorf sopra Federi-
co d' Austria, Lodovico era ritenuto solo e le-
gittimo sovrano, e tanto maggiormente dopo-
ché Federico, per essere liberato dalla prigione,
aveva rinunziato, in favore dell'avversario, ad
ogni pretensione. Lodovico prestò benigno orec-
chio agli ambasciatori padovani, e mandò al-
cuni suoi fidati a Cane, per indurlo ad un ac-
ne, s' erano offerti al Consiglio di Padova a trattar di
pace e di accordo.
CAPITOLO QUINTO 191
comoclamento con Padova. A Rovereto fu sta-
bilita una tregua fra le due parti, fino al San
Martino di quell' anno. Cane avrebbe ritenuto
frattanto tutte le ville del Padovano che ave-
va fino allora occupate. La tregua fu annun-
ziata ai Padovani il 6 giugno da Albertino
Mussato e da Pietro Campagnola.
Poco dopo, invitati dal Duca di Carinzia, che
trovavasi in Inspruck per essere incoronato re
di Boemia, i Padovani mandarono cplà i due
ambasciatori, affinchè facessero valere i diritti
della città loro dinanzi a Lodovico il Bavaro
e a Federico d'Austria, rimettendosi alla co-
storo decisione. Altrettanto fece Cangrande. I
due principi stabilirono, che Padova riavrebbe
le ville di Pedevenda e tutte le altre che pos-
sedeva al tempo di Ulrico di Waldsee, finché
essi d'accordo componessero ogni lite fra le
parti, la qualcosa promisero di fare entro il
termine di un anno ; le parti, frattanto, dove-
vano desistere da ogni ostilità.
Il solo Pietro Campagnola potè riferire ai
Padovani l' esito dell' ambasciata. Albertino
Mussato fu costretto ad arrestarsi in Vicenza,
poiché nella sua città erano accaduti tali fatti,
che avrebbero reso assai pericoloso il suo ri-
torno.
192 ALBERTINO MUSSATO
Cagione della guerra civile, che in quei gior-
ni funestava Padova, era stata 1' uccisione di
Guglielmo Dente. Questi ed Ubertino da Car-
rara, uniti per doppia parentela ed amicissimi
dapprima, erano divenuti nemici, causa una bal-
dracca, che entrambi avvicinavano. La discor-
dia era andata tant' oltre che, il 17 giugno
1325, Ubertino, insieme con Tartaro da Len-
dinara, uccise Guglielmo. Il fatto non poteva
rimanere impunito, nonostante che Ubertino e
Tartaro pretendessero di rimanere, armata ma-
no, in cittcà. Il Podestà PoUione dei Beccadelli
di Bologna, coli' assenso dello stesso Marsilio
da Carrara, li bandi entrambi e ne fece spo-
gliare le case. Indignati i banditi e desiderosi
di vendetta si rivolsero a Cane, promettendo-
gli di farlo Signore di Padova, e dandogli, per
ciò, in ostaggio i tìgli ed i nipoti ; ma le pre-
ghiere di Marsilio e degli altri Carraresi li
fecero desistere dal feroce proposito. Paolo Den-
te, fratello naturale di Guglielmo, non conten-
to della punizione inflitta agli uccisori, suscitò
una terribile congiura contro tutti i Carraresi.
Il 22 settembre i congiurati si sollevarono
al grido di: muoiano i traditori da Carrara.
L'Abate di Santa Giustina si unì con Paolo
Dente, e il Podestà anch' esso favori la con>
CAPITOLO QUINTO 193
giura, eccitando il popolo all' armi col suono
della campana del Comune. I Carraresi, dinan-
zi a tanto pericolo^, non si perdettero d' animo ;
ma, armati, a cavallo, si fecero coraggiosamente
incontro agli inimici. Allora s'appiccò fra le
due parti una fierissima zuffa, che durò un' ora
e più, finché i Tedeschi, eh' eran di guarni-
gione, non accorsero a farla cessare. Questi
favorivano Paolo; per ciò fingendo voler com-
porre a pace le parti, mentre comandavano ai
Carraresi di ritirarsi, non impedivano ai solle-
vati d' incalzarli. I Carraresi, non vedendo al-
tra via di salvezza, e confortati dal popolo, che
s' era stretto intorno ad essi per l' amore che
portava a quella famiglia, riappiccarono, con
ardore incredibile, la lotta, finché costrinsero
Paolo a ritirarsi, il quale si rifugiò a Treville.
Se Paolo, osservano i Cortusii, non fosse sta-
to abbandonato dai congiurati avrebbe fatto
lagrimoso quel giorno ai Carraresi ^}. Ma la
vittoria costò a questi assai cara, perciocché
perdettero molti dei loro più cari amici, ed
essi stessi riportarono gravissime ferite. Mar-
silio ebbe ucciso due cavalli e, per le molte
ferite, fu presso a morte. 11 giorno di poi gli
1) Lib. III. Gap. VI.
13
194 ALBERTINO MUSSATO
uccisori di Guglielmo Dente rientrarono in Pa-
dova, e, poiché aveano saputo che il Podestà
aveva prestato favore a Paolo contro i Carra-
resi, eccitato il popolo, corsero ad assalire la
sua casa.
Pollione, spaventato, s' era vilmente nasco-
sto. Tutti di sua famiglia furono trucidati senza
misericordia ; alcuni, in preda alla disperazio-
ne, per sfuggire alle mani degli uccisori, si
precipitarono dall' alto del palazzo. Lo stesso
Podestà, tratto dal suo nascondiglio ed inse-
guito dai nemici, si gettò dal tetto, ed anco-
ra semivivo fu crudelmente scannato. Il palazzo
del Comune venne, in quel giorno, saccheg-
giato dal furore popolare, e le pubbliche scrit-
ture furono date tutte alle fiamme. I Carraresi
vincitori chiamarono a Podestà Corrado de' Boc-
chi bresciano, col patto che non avrebbe fatto
ragione dei malefizii perpetrati innanzi la sua
elezione.
Neil' ottobre seguente al Conte di Fàlem-
berg fu sostituito, quale vicario di Padova,
Corrado di Ovenstein. Per la venuta di costui
Paolo Dente fu lietissimo, essendoché Corrado
gli si professava amico ; ma ebbe a rimanere
disingannato. I Carraresi furono tosto dattor-
no ali' Ovenstein, lo colmarono di blandizie e
CAPITOLO QUINTO 195
lo indussero a pronunziare sentenza di bando
contro Dente e i suoi seguaci.
La sentenza fu pubblicata il 14 dicembre,
ed in essa furono compresi l' Abate di Santa
Giustina con due suoi figli illegittimi, Corrado
da Vigonza, Aicardino Malizia coi figli, Vita-
liano figlio di Albertino Mussato ed altri molti.
Albertino, che s'era trattenuto in Vicenza, fu,
per colpa del fratello e del figlio, confinato a
Chioggia ^)
i] Cori. Lib. III. Gap. VI. Vergerlo YUa libertini.
Capitolo Sesto.
Mussato esule a Chioggia — È visitato da Marsilio da Car-
rara — Corrado di Ovenstein vicario di Padova — I Car-
raresi lo colmano di doni e di blandizie — Engelmario
di Villandres — Il Podestà Iacopino de' Bocchi — Soprusi
di Ubertino da Carrara — Corrado da Vigonza dà l'as-
salto alla Torre di Curano — Viea fatto prigioniero e
decapitato — Scelleratezza di Ubertino da Carrara, di
Tartaro da Lendinara e di Engelmario — Lodovico il
Bavaro discende in Italia — Cane gli domanda il vica-
riato di Padova — Non l'ottiene — Prolunga di due anni
la tregua col Duca di Carinzia — Congiura di Nicolò da
Carrara — Marsilio ricorre per aiuti al Duca di Carinzia
— Condizione miseranda di Padova — Nuove scelleratezze
di Ubertino e di Tartaro — Congresso a Verona — Di-
scordia fra Marsiiieto ed Ubertino — Marsilio affida sé
e la città nelle mani di Cane — Che pensi il Mussato di
questa determinazione — Marsilio Signore di Padova —
Solenne ingresso di Cane in Padova — Nozze di Mastino
e Taddea — Mussato fa ritorno segretamente in Padova
— Marsilio non acconsente alla sua venuta — Albertino
fa ritorno in Chioggia — Riceve nuove ingiurie da Mar-
silio — Muore.
Da questo punto il Mussato non ha più
parte nelle faccende della sua città; una sola
volta, come vedremo, mette piede in essa,
colla speranza di potervisi fermare; ma ben
198 ALBERTINO MUSSATO
tosto, deluso, ricalca la via dell'esilio, e, poco
appresso, muore, ancor giovane, in Chioggia.
Da questa città egli segui, con occhio at-
tento, tutti gli avvenimenti che si succedevano
in Padova, e ne tramandò la notizia ai po-
steri. V ha chi dice, ch'egU non sia veritiero
nella sua narrazione, specialmente in ciò che
riguarda i Carraresi, avendo concepito un grave
odio contro di essi, ch'erano stati causa della
sua sventura; sicché dove prima li aveva Iot
dati, ne disse poi tanto male. Cosi afferma, fra
gii altri, il Verci ^), e c'è chi soggiunge, che
il libro XII De Gesfis lialicorwn post Hen-
ricum VII Ccesarem — quello appunto in cui
è detto questo male — si fa conoscere scritto
con una penna intinta nel veleno ^).
1) Storia della Marca Trivigiana e Veronese. —
Libro Vili, Venezia 1788.
2) Vedi: Difesa di Marsilio da Carrara secondo
Signor di Padova contro le maldicenze di Albertino
Mussato, compilata dall' ab. Giuseppe Bianchi parroco
di Albignasego. — Padova, coi tipi del Seminario 1835.
Anche Giovanni Cittadella, nel Capitolo XII della sua
Stoì'ia della Dominazione Carrarese in Padova, dopo
aver detto che Albertino si sdegnò, e? giustamente, del-
l'esilio, soggiunge: «né avendo altre arme a riscuotersi
dei da Carrara, i quali del crudele decreto furono au-
tori principalissimi, usò la sola che era da lui, oltrag-
giandone cioè cogli scritti il nome e la ricordanza. De-
gno di biasimo per la viltà sempre compagna al ricatto,
CAPITOLO SESTO 199
Che il Mussato, mosso da giusto sdegno
contro i Carraresi, abbia esagerato nel dirne
male, è assai probabile; ma non possiamo am-
mettere assolutamente che nella sua narrazione
c'entri la mala fede.
L'animo di lui, nobilissimo in ogni circo-
stanza della sua vita, non poteva discendere
a così bassa vendetta. Che se talvolta, per av-
ventura, non ha detto il vero, deve esser stato
tratto in inganno da coloro che gli riferivano
gli avvenimenti.
Nel seguire pertanto la narrazione del Mus-
sato in quest'ultima parte della sua storia, noi
andremo assai cauti, affine di scoprire, se ci sarà
possibile, la pura verità. Intorno a ciò, del
resto, ch'egli ebbe a soffrire da Marsilio, alla
relazione che mantenne per qualche tempo con
e per avere in ta! guisa di una sola, ma negra macchia,
contaminato le sue benemerenze a prò della patria.
Troppi erano i suoi diritti alla comune riconoscenza,
troppo oltraggioso il ricambio ch'ei n'ebbe per dubitare
di non trarne la più bella delle vendette, l'ammirazione
di tutti alle sue virtù, di tutti la riprovazione contro
la sancita condanna». In una nota poi riproduce una
specie di prefazione di autore anonimo contro il Mus-
sato e in difesa dei principi Carraresi premessa al li-
bro XII De Gestis, trascritto in un Codice membrana-
ceo della Raccolta Piazza, prefazione stimata dal Bian-
chi un'apologia dettata da Pier Paolo Vergerlo in onore
della famiglia Carrarese.
2C0 ALBERTINO MUSSATO
lui, alle promesse che n' ebbe, non mai poscia
adempiute, non mettiamo punto di dubbio che
la sua narrazione sia vera : sono cose che lo
toccarono direttamente, ed egli n'è il testi-
monio più sicuro.
Gravissimo è il lagno che egli muove per
la condotta di Marsilio verso di lui ; ma chi
potrebbe dargli torto ? Se e' era uomo al
quale Marsilio dovesse mostrare gratitudine,
questi era il Mussato, il quale, nella lotta
contro Cane, gli aveva prestato valido aiuto
e segnalati servigi. Marsilio invece, per tutta
ricompensa, lo fece bandire, e ciò con aper-
ta ingiustizia ; perciocché qual colpa aveva
Albertino, se suo fratello e suo tìglio avevano
favorito i ribelli? Il Wychgram è d'avviso
doversi cercare una spiegazione di questo con-
tegno di Marsilio verso Albertino non tanto
nel fatto che l'Abate di Santa Giustina si sia
schierato a favore di Paolo Dente contro i da
Carrara, quanto nell'improvviso mutamento della
politica dei Carraresi verso Cane. MarsiHo in-
fatti nell'ultima ribellione avea veduto come
la sua Signoria si fondasse su troppo deboli
basi, e come V opposizione sua al potente vi-
cino avrebbe affrettata la sua rovina. Egli
pertanto stabilì in cuor suo di dare, quando
CAPITOLO SESTO 201
fosse il momento opportuno, la città in po-
tere dello Scaligero, perchè questi ne inve-
stisse lui della Signoria. A mandare ad effetto
questo divisamente era necessario allontanare
tutti coloro che avrebbero potuto opporvisi, tra
i quali primo il Mussato. Ora quale pretesto
migliore per liberarsi di quest'uomo, che quello
della partecipazione di suo fratello e di suo
figlio alla congiura contro i Carraresi?').
E l'astuto Marsilio non si lasciò sfuggire
un tale pretesto. Vide tuttavia egli stesso che
l'esigiio di Albertino era un'aperta ingiustizia,
e, temendo lo storico, che l'avrebbe fatta co-
noscere alla posterità, volle, alla prima occa-
sione, giustificarsi con lo stesso Mussato, il
quale, uomo di buona fede, credette, in sulle
prime, alla sincerità delle parole di Marsilio.
Non appena risanato dalle ferite ricevute
nella lotta contro Paolo Dente, il Carrarese,
essendosi recato a Venezia per faccende sue par-
ticolari, nel ritorno si condusse in Chioggia,
dove, fatta ricerca del Mussato, si presentò a
lui, e, dopo averlo salutato amichevolmente ed
abbracciato, gli si mostrò dolente della sua
lontananza da Padova. Gli disse « eh' egli desi-
Wychgram. Drittes Kapitel.
202 ALBERTINO MUSSATO
derava ardentemente di rivederlo in città, dalla
quale, senza colpa veruna, era stato allonta-
nato. Tuttavia non osava richiamarlo per la
perversità di Tartaro e de' suoi malvagi con-
giunti, i quali, ammesso pure che assentissero
al ritorno di lui, non desisterebbero dall'idea
di ucciderlo, ed allora, non ostante il dolore
ch'egli, Marsilio, ne proverebbe, il Mussato non
ritornerebbe a vita. Ben sapeva questi come
Tartaro ed Ubertino, fìngendo amicizia per Gu-
glielmo Dente, lo uccidessero, eccitando il pò-,
polo alla ribellione e tradendo, per tal modo,
lo stesso Marsilio. Avesse pertanto sofferenza
di rimanere in Chioggia fino a che le cose, in
Padova, tornassero tranquille, che verisimil-
mente in quello stato non potevano a lungo
durare. Gli prometteva e gli si obbligava con
tutta la fede, non appena vedesse il tempo
opportuno, di procurare, con ogni sforzo, il ri-
torno di lui, senza la cui presenza non gli dava
il cuore di vivere in patria ».
Il Mussato, poiché le parole ed il volto di
Marsilio dimostravano somma benevolenza, che
egli d'altra parte sapeva di meritare, lo rin-
graziò con lagrime copiose: « Sapeva bene
Marsilio, com'egli avesse impedito che la città
si levasse a rumore per V uccisione di Gugliel-
CAPITOLO SESTO 203
mo, mentre il popolo, la plebe e i cittadini di
ogni classe ardevano di fare tumulto, e come
avesse, da solo, placato la moltitudine, temen-
do che il furore della plebe non trascorresse
a danno degli innocenti e specialmente di Mar-
silio, che reputava innocente e teneva in conto
d'amico e di fratello. Era stato lui, Albertino,
che, fatte chiudere le porte della casa, aveva
trattenuto Paolo Dente che, furibondo per la
morte del fratello, era apparecchiato a correre
in piazza, seguito da molti de' suoi. Già in
armi era salito a cavallo, ed egli l'avea in-
dotto a ritirarsi disarmato a Treville. Dopo di
ciò aveva sedato ogni tumulto nel popolo, e ne
aveva avuto, in ricambio, delle maledizioni.
Poco dopo, costretto da tutto il popolo e
per necessità della patria, avea dovuto recarsi
malauguratamente in AUemagna, e quella sua
lontananza era stata la rovina della città, poi-
ché s'egli fosse restato non sarebbe accaduto
nulla di ciò ch'era accaduto. A Marsilio, che
il persuadeva ad affrettare il suo viaggio pel
bene della città, egli avea detto : Marsilio, io :
vado e, a Dio piacendo, condurrò a buon ter-
mine le commissioni del Comune contro di
Cane. Tu veglia, frattanto, con ogni cura la
città; bada che Paolo Dente non presuma di.
204 ALBERTINO MUSSATO
troppo, né faccia novità. Io so che quell' uo-
mo è ferito nelle viscere per la morte del fra-
tello ; egli è audace, forte e capace di osare
ogni cosa, siccome disperato che non bada più
a nulla. Tu — continua il Mussato — sorri-
dendo sprezzasti le mie parole, lo devi ricor-
dare troppo bene. Andai, vinsi Cane e i suoi
ambasciatori. Vittorioso ritornava, dopo di aver
procurato un saiutare rimedio alla città, al-
lorché tu, per vergognosa inerzia ed ignoran-
za, m' ingannasti ; tu perdesti il tuo sangue,
ed io perdetti la vista della mia città, le mie
case e gli onori che mi diede la patria. Ma a
che lamentare i passati danni, ai quali non ci
è dato di porre rimedio? Tu inoltre ti trovi
in maggiori pericoli ch'io non ho nell'esiglio.
Abbi pietà di me e, se puoi, mi giova ».
Marsilio commosso, siccome parve, disse :
« Se io non avrò di te e delle cose tue quella
stessa cura e diligenza che ho di me e delle cose
mie, che Dio mi nieghi la sua protezione » .
Dopo di ciò, Marsilio parti. Nel primo anno
si ricordò dell'amico ; gli spedi messi con frutta
ed altri cibi, lo esonerò da molti aggravi cosi
pubblici come privati, accolse benevolmente i
messi di lui ; ma poi, a poco a poco, cominciò
a intiepidire nei benefizi, mostrando quasi di
CAPITOLO SESTO 205
infastidirsi, allorché il Mussato gli faceva ri-
chiesta del puro necessario ^).
Corrado di Ovenstein, mandato in sostitu-
zione di Enrico di Fàìemberg, quale vicario
di Padova, per scoprire la verità intorno al-
l' uccisione di Guglielmo Dente e per punire i
colpevoli, fu, come dicemmo, circondato, con
ogni cura, dai Carraresi, i quali gli esposero
le cose come meglio lor piacque, e si offersero
di stargli al lianco e di assisterlo. Egli avreb-
be comandato in nome del Re, ed essi l'avreb-
bero obbedito, come suoi satelliti, sia contro
Cane, che contro qualunque altro nemico cosi
interno che esterno.
Oltre a ciò, conoscendo essi la natura ed
i costumi deirOvenstein, a cui il danaro stava
più a cuore che ogni altra cosa al mondo,
più che Tonore stesso del Re ed il suo, gli
sottomisero la città, la quale, benché smunta da
tante imposte, era ancora abbastanza ricca. Cor-
rado, vinto dalle lusinghe, si mostrò loro af-
fabile, rialzò le loro speranze, ed abbracciava
talvolta pubblicamente Ubertino e Tartaro, il
che moveva a sdegno i cittadini.
Mussato, che aveva conosciuto l'Ovenstein
1) De Gestis Ital. Uh. XII.
206 ALBERTINO MUSSATO
alla corte di Federico, ed avea perorato in suo
favore, perchè fosse nominato vicario di Pa-
dova, gli scrisse da Chioggia : « Si ricordasse
a che e per quali cagioni fosse stato mandato
a Padova^ condannasse i colpevoli, assolvesse
gli innocenti, richiamasse in città coloro che non
avevano avuto parte nei delitti e, fra gli al-
tri, lui che gli scriveva, relegato ingiustamente
in Chioggia ». Corrado, quantunque corrotto
dal danaro dei Carraresi, provò rimorso e gli
rispose : « saper bene esser le cose come di-
ceva il Mussato, al quale era grandemente ob-
bligato, per aver ottenuto, col suo mezzo, il
vicariato di Padova, servigio del quale non si
sarebbe mai dimenticato. Aspettasse il momen-
to opportuno per rimpatriare, né gli rincresces-
se frattanto dimorare, ancora per poco tempo,
in Chioggia ». Queste cose fece sapere l'Oven-
stein al Mussato per mezzo di un ambascia-
tore, che d'affidarle allo scritto non ebbe co-
raggio, temendo che, per qualche errore, i Car-
raresi ne venissero a conoscenza.
Questi frequentavano, di giorno e di notte, la
casa di lui, gli offrivano cibi, bevande e soprat-
tutto gli promettevan danaro, sicché, in breve,
fecer tutto loro quell' uomo avarissimo, cui le
virtù, i vizii e la fortuna contribuirono a render
CAPITOLO SESTO 2(>7
singolare. « Valoroso nell'armi, eloquente nelle
curie, solerte nell'opera, formidabile a' nemici,
era, oltre a ciò, così avido di danaro, che non
badava a giustizia pur di accumulare. In quei
giorni avea fatto vendere all'asta i frumenti,
i vini, le suppellettili dell'Abbazia di Santa Giu-
stina, e ne avea tenuto per sé il danaro, il
che non avrebbe potuto fare nemmeno per ma-
nifesti delitti dell'Abate. Ed oh irrisione ! —
esclama il Mussato — quest' uomo ascoltava
religiosamente, ogni mattina, tre messe, e, con
sospiri profondi e torcendo le labbra e picchian-
dosi il petto e alzando gli occhi al cielo, si pre-
parava, nelle udienze, a parlare ; né prima di
pranzo discendeva giammai ad umani colloquii,
come rapito in divine speculazioni. E vid' io, con
i miei occhi, com'egh, con queste ed altre ra-
pine, abbia fatto costruire chiese e basiliche e
monasteri sontuosi in più luoghi della Carinzia ».
Poco appresso Corrado mandò Engelmario de
Villandres, suo gentiluomo di camera, con let-
tere del Comune e con fidi legati, all' Impera-
tore, perchè questi confermasse sentenza capitale
contro Paolo Dente e i suoi complici ; vi andò
quindi egli stesso, per meglio ottenere l' intento.
Engelmario fu mandato di ritorno in Pa-
dova a far le veci di Corrado, coli' istruzione
208 ALBERTINO MUSSATO
di aderire privatamente ai consigli ed ai cenni
dei Carraresi. Appena in città, egli e i legati
fecero nota ogni cosa ai Carraresi, e convoca-
rono il giorno seguente l'adunanza.
Il popolo e la plebe, poich'ebbero inteso di
che si trattava, lamentarono dapprima la Re-
pubblica soggetta ai Carraresi ; quindi, per ti-
more, cercarono d' ingraziarsi, coi doni, i ti-
ranni, compassionando i profughi. Alcuni, pre-
sagendo le scelleraggini e gli eccidii, che avreb-
bero funestato la città, si ricoverarono alla
campagna ; altri si nascosero nelle proprie case
ed evitarono i luoghi pubblici.
I Carraresi tennero un consiglio di fami-
glia, per discutere su ciò che dovessero fare.
I giovani, approfittando della fortuna, volevano
vendicarsi dei loro nemici ed impadronirsi del
governo dello Stato. Marsilio, più cauto, con-
sigliò doversi mantenere l'ordine antico ed e-
leggere un Podestà forastiero, pur ritenendo
il potere nella famiglia dei Carraresi. Prevalse
questa opinione, e fu nominato Podestà Iaco-
pino de' Bocchi bresciano, colle condizioni che
abbiamo accennate sulla fine del capitolo antece-
dente, quali ci sono fatte conoscere dai Cortusii').
1) Lib. Ili, Gap. VI.
CAPITOLO SESTO 209
Iacopino cadde ben presto in disgrazia di
Ubertino da Carrara, poiché avea condannato
un suo satellite, per manifesto delitto, alla
pena capitale, ed avea negato di lasciargli li-
bero un altro condannato all' ergastolo per
grave colpa. Più tardi Ubertino, per istigazione
e coir aiuto di Tartaro, rapì di notte, fra il
pianto e le grida dei genitori, una fanciulla,
figlia di un sarte della Riviera di San Leo-
nardo. Il Podestà, per tanto delitto, chiamò a
sé Ubertino, il quale, insieme con Tartaro e
con buon numero de' suoi, si presentò in Pre-
torio, minacciando di morte Iacopino, se non a-
vesse desistito dal processo. « Si rammentasse
ciò ch'era toccato a Paglione dei Beccadelli ;
il medesimo toccherebbe a lui, se intendesse
persistere nelle ricerche ». Il Podestà non si
perdette d'animo, chiamò i famigli, e, fatta toc-
care tre volte la campana del Comune, disse
che avrebbe rinunziato al suo offizio, se gli fosse
stato impedito di fare giustizia. In quella en-
trò nella sala Marsilio, accompagnato da co-
spicui cittadini e, tratto in disparte il Podestà,
gli disse: «non convenire ad uomo saggio e
nobile, com'era lui, mettere a subbuglio la città,
per la sconsideratezza del giovine Ubertino.
Piacere alla plebe, al popolo, ai Carraresi che
li
210 ALBERTINO MUSSATO
fosse fatta la luce sul ratto, e che si multasse
Ubertino colla sanzione delle leggi » . Conciliato
come potè il Podestà, condusse fuori Ubertino
e Tartaro, e li riunì, con Nicolò e con gli al-
tri di quella stirpe, in casa dei Papafava presso
San Martino. Colà, con parole ora severe or
dolci, placò l'ostinato Ubertino, e con molte
promesse lo condusse di nuovo al Podestà e
lo persuase a dire : esser egli pentito di quanto
avea fatto e detto. Procedesse il Podestà nel
suo diritto di giudice ; egli obbedirebbe alla
sentenza, qualunque si fosse. Il Podestà lo con-
dannò a cinquecento lire, che non furono mai
pagate.
In que' giorni Corrado da Vigenza, il quale,
dopo essere stato confinato a Venezia come
complice della congiura di Paolo Dente, avea
rotti i confini e s'era ricoverato in Ferrara,
raccolti alcuni ferraresi e molti fuorusciti pa-
dovani, scendendo pel Po, s'era condotto a
Chioggia e, nel penultimo giorno di febbraio
del 1326, avea dato l'assalto alla Torre di
Curano, forte castello dei Padovani ai confini
di Venezia, e l' avea presa. Giunta in Padova
la notizia, i Carraresi accorsero pronti, e, col-
l'aiuto dei Tedeschi, ricuperarono la Torre.
Corrado fu fatto 'prigioniero e decapitato in
CAPITOLO SESTO 211
abito militare nel Palazzo della pubblica resi-
denza, il giorno 3 di marzo del 1326 ^). Gli
fu data onorevole sepoltura. Egli era amato
dal popolo, scrive il Mussato, né aveva avuto
parte alla congiura di Paolo Dente, come cre-
devano i Carraresi, che lo avevano bandito.
Lo scellerato Tartaro era sempre al fianco
di Ubertino, e lo eccitava alle maggiori nequi-
zie. Sprecavano in libidini, in lusso, e si rifa-
cevano rubando. Circondati da lenoni, da fa-
cinorosi, da assassini, s'aggiravano armati per
le vie della città. I cittadini, spaventati, spia-
vano attraverso le fessure degli usci, e li ve-
devano passare con vesti ricamate d' oro e d' ar-
gento e seguiti da que' ribaldi. Non c'era scel-
lerata impresa, ch'essi non compissero, o a com-
piere la quale non prestassero il loro braccio.
Engelmario ardeva di libidine per una gen-
tildonna di nome Pietra degli Scrovegni, mo-
glie di Marino dei Maccaruffi, assente e ban-
dito ^). Non potendo l' infame vincerla coli' oro,
cercò di ricorrere alla forza.
1) Cori. Lib. ITI, Gap. VI.
2) Secondo alcuni questa gentildonna sarebbe stata
conosciuta ed amata da Dante nella sua dimora in Pa-
dova. Vedi: Anton Maria Amadì, Ayinotazioni sopra
una canzone morale, e lo scritto di Enrico Salvagnini:
212 ALBERTINO MUSSATO
Unitosi a Tartaro ed Ubertino, circondò di
notte la casa di lei, e, con suoni di trombe e
con cembali, fìngendo una serenata, fece at-
terrare le porte, e s' introdusse nei più segreti
appartamenti. Alcuni vogliono la donna polluta,
altri abbandonata semiviva, per essersi difesa.
Un'altra notte quei sacrileghi irruppero in un
chiostro di monache dedicato a Sant'Agata,
fuori delle mura cittadine, e, non contenti delle
ricche spoglie, fecero forza alle vergini, ferendo
le renitenti. La città, al mattino, udì con rac-
capriccio il fatto. Nicolò e Marsilio domanda-
rono giustizia al Podestà, e questi fece so-
spendere alle forche uno dei più abbietti, dan-
nando nel capo molti altri, che, dopo pochi
giorni, furono lasciati in libertà.
Tutti gli impudichi, gli adulteri, gli spergiu-
ri, che avevano consumato il loro, che avevano
commesso orrendi delitti, che erano stati accu-
sati della morte di Guglielmo Dente, sicuri si
rifugiavano presso Tartaro ed Ubertino. Di
giorno si facevano vedere per le vie cittadine ;
ma di notte uscivano dalle mura per rubare
Cunizza da Romano, Pierina Scrovegni e le donne
padovane al tempo di Dante, pubblicato nel libro Dante
e Padova.
CAPITOLO SESTO 213
nelle campagne. Spesso uccidevano i viandanti
per ispogliarli, e portavano ogni cosa ai loro
Signori, clie spendevano immoderatamente nelle
laute mense. Il solo Marsilio, al dire dello
stesso Mussato, si tratteneva in casa, ascoltava
i lamenti degli oppressi, intercedeva per loro e
li sussidiava, cercando, per tal modo, di co-
prire le scelleratezze de' suoi congiunti.
In que' giorni era sceso in Italia, con grande
seguito, Lodovico il Bavaro, chiamatovi dai
Ghibellini, ed aveva tenuto parlamento in Trento
con molti Signori d' Italia. Cangrande, che fu
tra i presenti, dichiarò apertamente a Lodovico
che si sarebbe accordato col Pontefice, se non
gli veniva concesso, senza indugio, il vicariato
di Padova, pel quale egli offriva al Bavaro
il proprio aiuto e duecentomila fiorini. Lodo-
vico ricusò, non volendo toglier quel vicariato
a suo zio, il Duca di Carinzia. Cane se ne
partì indignato ; ma poco appresso, per le pre-
ghiere dei Ghibellini, fece ritorno a Trento,
dove fu persuaso da Lodovico a prolungare an-
cora per due anni la tregua col Duca di Ca-
rinzia ^).
Poco tempo innanzi, cioè verso la fine di
1) Cort. Lib. Ili, Gap. X.
214 ALBERTINO MUSSATO
dicembre del 1326, erano stati confinati a Ve-
nezia alcuni illustri cittadini padovani, per-
chè accusati falsamente di aver trattato con
Nicolò da Carrara di dare la città a Cane e
di uccidere Marsilio. Nicolò, che vedeva di mal
occhio la crescente grandezza di Marsilio, si recò
ad ingiuria questo fatto di lui, e, nel 2 luglio
1327, abbandonò la città ed andò a Venezia,
dove fece alleanza con Cane e coi fuorusciti
contro Padova.
Appena fu nota questa alleanza, i figli, ch'e-
gli avea lasciati in Padova come ostaggi, fu-
rono mandati prigionieri in Allemagna, e le
sue case furono spogliate e distrutte. Non con-
tento di ciò, Marsilio, temendo l'audacia dei
fuorusciti, ai quali lo Scaligero prestava, di
nascosto, soccorsi, propose si mandassero am-
basciatori al Duca di Carinzia. Egli stesso fu
eletto dell'ambasceria, ed ebbe promessa dal
Duca che un grosso esercito sarebbe stato, tra
breve, mandato in aiuto dei Padovani. Nicolò
frattanto, a capo dei fuorusciti, aveva invaso
il Pievato di Sacco, e ai 13 di ottobre s'era
accostato coli' esercito alla città dinanzi alla
Porta di Santa Croce, nella speranza che i cit-
tadini si levassero a tumulto.
Ma i cittadini non si mossero per timore di
CAPITOLO SESTO 215
Cane, che, con V esercito, -stava appiattato in
Monselice, donde, benché asserisse di non voler
rompere le tregue, favoriva nascostamente i
fuorusciti. Questi, poiché videro di non poter
impadronirsi della città, sfogarono tutta la loro
rabbia sul Pievato, mettendo ogni cosa a ruba
ed a fuoco e commettendo d' ogni maniera scel-
leratezze. Dopo aver sottomesso e ^distrutto
tutto il paese all'intorno, ai 15 novembre si
ridussero in Este, e ne fortificarono il castello
con argini e con fosse ^).
I Padovani, rinchiusi entro le mura della
città, cominciarono ben presto a soffrir penuria
di vettovaglie. I soli Carraresi, al dir di Mus-
sato, coi loro seguaci, trasportavano dai luo-
ghi vicini alla città, col mezzo dei soldati te-
deschi, grani e biade ai loro granai. Tartaro
ed Ubertino ne trasportavano dai loro e dagli
altrui campi, né rifuggivano da altro genere di
rapine. Invitavano a pranzo i più ricchi, e poi
domandavan loro danari in proporzione di ciò
che possedevano; se ricusavano, h chiudevano
in prigione, finché, per fame, erano costretti a
cedere. Chi di buon mattino si fosse trovato
fuori di casa, veniva ravvolto improvvisamente
1) Cori. Lib. Ili Gap. XII.
216 ALBERTINO MUSSATO
in un sacco, che gli toglieva la vista e gli
impediva di gridare, e, trascinato in luoghi
nascosti, veniva costretto a redimersi con da-
nari, se non voleva esser condannato a morire
di fame.
Tale violenza fu fatta — racconta Alber-
tino — ad un pio sacerdote della Cattedrale,
che si recava alla chiesa con due nipoti. Corse
voce esserne stati autori alcuni giovani di casa
Capodivacca, i quali fecero tali minacce al
prete, che, dopo pochi giorni, morì di paura.
Uno dei più orrendi delitti, commessi in quei
giorni, fu l'uccisione di Ugolino, Priore di Santa
Maria di Vanzo. Costui era stato invitato a
pranzo da Tartaro ed Ubertino. Finito il pran-
zo,- fu rimandato al Cenobio in compagnia di
quattro sicarii, i quali, non appena egli mise
piede sul vestibolo del monastero, lo trucida-
rono e lo seppellirono ancora semivivo. Scas-
sinati i suoi scrigni, ne rapirono tutto il da-
naro e lo portarono ai loro padroni. Da una
Bolla di Giovanni XXII contro i Carraresi ^),
risulterebbe aver avuto parte in questo delitto
ly Questa Bolla, riprodotta in parte dall' Ab. Giu-
seppe Bianchi nella citata Difesa di Marsilio contro
le maldicenze del Mussato, è stampata negli Annali
Camaldolesi, T. V. Ap. col. 477.
CAPITOLO SESTO 217
anche Marsilio ; ma, poiché il Mussato non
ne fa parola, possiamo esser sicuri che fu in-
nocente ^).
L'abate Giuseppe Bianchi, troppo tenero del-
l' onor di Marsilio, nella difesa che ne scrisse
contro le maldicenze di Albertino Mussato, dopo
aver detto che non si sa chi sieno stati i denun-
ciatori dei Carraresi al Papa, soggiunge : «Forse
i molti ribelli che furono banditi e confiscati,
e i loro parenti ed amici si accordavano a se-
gnare r accusa (preparata forse dalla energica
penna del Mussato) contro gli odiati Carraresi,
per renderla più imponente e di fede più de-
gna » . Cotesta è una insinuazione maligna, la
quale, oltre di essere un' offesa gravissima alla
memoria di Albertino Mussato, la figura più
grande ed intemerata che la Storia padovana
di quei tempi ci faccia conoscere, toglie efiì-
cacia agli argomenti di cui si vale il buon par-
1) « Una gran prova, scrive il Bianchi, è questa per
dichiarare immune il nostro Marsilio dal sacrilego de-
litto, se il Mussato non lo chiama né autore né com-
plice neppur per conghiettura ». Per mostrarlo poi « im-
mune dall' invasione dei beni del priorato » cita due do-
cumenti pubblicati dal Ceoldo nelle sue Memorie della
Chiesa ed Abbazia di S. Stefano di Carrara, pag. 159
i quali, al dire del Ceoldo, « ci obbligano a formare al-
tra idea di Ubertino certamente diversa da un invasore
e da un sacrilego parricida ».
218 ALBERTINO MUSSATO
roco, per iscolpare Marsilio dalle altre accuse
del Mussato, che, secondo il Bianchi, si fa cono-
scere « un mendace ovunque impiega a disonor
di Marsilio Y avvelenata sua penna ». Più giu-
dizioso e più giusto del Bianchi, il Ceoldo,
dopo aver difeso Marsilio dall' accusa di aver
ucciso il Priore di S. Maria di Vanzo e di
avere usurpati i beni di quel Priorato, e dopo
aver osservato che Albertino non fa parola di
lui nella narrazione di quel fatto, soggiunge:
« É dunque credibile che quello storico avesse
risparmiato il suo fiele, se qualche disturbo fosse
nato anche al da Carrara, e con estro poetico
non avesse cavati dagli avelli gli antenati Car-
raresi institutori e benefattori del monastero^, e
nottetempo tutti spinti non li avesse in camera
di Marsilio a rimproverarlo aspramente delle
sue ladrerie ? » ^). Questa osservazione del
Ceoldo basta, parmi, a distruggere la maligna
supposizione del Bianchi.
Ma le scelleratezze dei Carraresi in que' gior-
ni, quali le registra il Mussato, non si limitano
alle narrate fin qui. Due donne, madre e figHa,
abitavano nelle vicinanze di S. Maria di Vanzo.
Ubertino, invaghitosi della giovinetta, la fece
1) Memoria cit.
CAPITOLO SESTO 219
rapire a viva forza. La madre corse dietro alla
figliuola gridando e, poiché anche questa grida-
va, furono uccise tutte e due.
Un onesto popolano avea preso moglie, e, ad
una data sera, dovea condurla, per la prima
volta, a casa sua. Prima del crepuscolo, a
nome di Ubertino, gli fu susurrato all'orecchio,
che lasciasse intatta la donna, se avea cara la
vita, poiché Ubertino desiderava colei per sua
amante. Il poveretto, non sapendo a qual par-
tito appigliarsi, si presentò prima di sera, ac-
compagnato da pochi onesti parenti, ad Uber-
tino. Questi lo rimproverò acremente, e gli disse
che dovea pagare col suo sangue l' ardire di
aver sposato una donna eh' egli amava, e, sguai-
nata la spada, voleva ucciderlo ; ma poi si trat-
tenne e s'accontentò di fargli pagare cinque-
cento lire.
Il giudice Alberto Rossi, uomo sapiente ed
eloquente, aveva una cognata nubile. Lo scel-
lerato Obizzo da Carrara, allettato dalla ricca
dote, l'avea chiesta in isposa. I genitori, per
consiglio di Alberto, la maritarono tosto ad
un onesto popolano. Saputa la notizia, il Ba-
stardino — così era chiamato l' Obizzo per es-
sere illegittimo — ricorse ad Ubertino, perché lo
vendicasse. Il giudice Alberto, mentre un giorno
220 ALBERTINO MUSSATO
se ne andava tranquillo per via accompagnato
da un suo servo, fu assalito improvvisamente
dai satelliti di Ubertino, e lasciato cadavere
sulla pubblica strada, ove stette fino alla sera,
senza che nessuno avesse il coraggio di acco-
starglisi. Due frati degli Eremitani, chiesta li-
cenza ad Ubertino, lo portarono, di notte, a
seppellire nel loro cimitero.
Giunse a que' giorni dalla Germania Corrado
di Ovenstein con buon numero di soldati a
cavallo in difesa dei Padovani ^). Ai 25 no-
vemhre 1327, egli mosse ad assalire i fuorusciti,
che s'erano fortificati in Este. Nicolò, che di-
sarmato se n' andava a diporto fuori delle trin-
cee, fu sul punto di essere sorpreso da Corrado;
ma fortunatamente potè sottrarsi all'inimico e
ridursi in salvo. Una fiera zuffa- s'appiccò tra
i Padovani da un lato e i fuorusciti dall' altro,
che durò fino a sera. Stanchi i Padovani si
ritiravano dall'assalto, allorché fu sparsa tra
le lor file la voce, che Paolo Dente, con un
grosso esercito, stava nascosto presso il mo-
nastero di S. Maria delle Carceri, pronto a
piombare sovr' essi. A questa notizia, colti da
1) I Cortusii dicono con quattrocento elmi. Lib. Ili Gap.
XIII.
CAPITOLO SESTO 221
improvviso spavento, si diedero a fuga disor-
dinata e precipitosa verso la città.
Marsilio, che stava alla difesa delle mura,
visto l'esercito ritornare a quel modo, né sa-
pendo indovinarne la cagione, comandò che le
porte non venissero aperte, finché tutti i sol-
dati non si fossero radunati sotto le loro ban-
diere. Dopo questo fatto, Corrado, pieno di ver-
gogna e sfiduciato di poter riuscire nell'impresa,
pensò di far ritorno in Germania, adducendo
il pretesto di un solenne parlamento tra il Duca
di Carinzia e quelli d'Austria, al quale egli
pure dovea trovarsi presente. Lo accompagna-
rono alcuni dei più illustri Padovani, per
chiedere aiuti al Duca di Carinzia contro i
ribelli. N' ebbero molte promesse, ma nessun
aiuto. Scrisse tuttavia il Duca a Lodovico impe-
ratore, che si trovava in Roma, perchè frenasse
l'ardire dei fuorusciti Padovani, ed inducesse
lo Scaligero a non prestar loro soccorso. Lodo-
vico mandò a tale uopo un suo legato a Verona;
dove intervennero anche gii ambasciatori Pado-
vani, fra i quali uno dei Cortusii. Le discussioni
furono molte e lunghe; ma non si venne a
conclusione veruna ").
Le condizioni di Padova, frattanto, si faceva-
1) Cort. Lib. Ili Gap. XIII.
222 ALBERTINO MUSSATO
no di giorno in giorno più miserabili; i fuoru-
sciti devastavano o raccoglievano per sé le
biade nei dintorni, sicché la scarsezza dei vi-
veri si faceva sempre maggiore in città. A
ciò si aggiunga le discordie fra i cittadini, i
furti, gli omicidii, il cui numero aumentava
ogni giorno, e la prepotenza dei soldati tedeschi,
avidi di danaro, per accumulare il quale non
rifuggivano dai mezzi più nefandi.
In tanta tristezza di cose, Marsilio non sapeva
a qual partito appigliarsi. La sua potenza era ri-
dotta agli estremi, i fuorusciti imbaldanzivano
ogni giorno più, e Cane, desideroso d'impadro-
nirsi della città, li soccorreva di nascosto. Invano
egli era ricorso per aiuti al Duca di Carinzia ;
invano s'era rivolto al Pontefice in Avignone,
al suo legato in Bologna e al figlio del Re
Roberto in Firenze; invano aveva trattato se-
cretamente col Signore di Mantova e coi Mar-
chesi d'Este; i Trevisani anch'essi gii avevano
negato il loro soccorso ^). Avea saputo inol-
tre che Nicolò, per unirsi più strettamente con
Cane, voleva dare in moglie la propria figlia
a Mastino nipote di lui, promettendogli la Si-
gnoria di Padova.
In questa città, fra le altre discordie, gravis-
1) Cort. Lib. IV Gap. I.
CAPITOLO SESTO 223
sima era quella insorta fra Marsilieto ed Uber-
tino, avente per causa remota l' uccisione di
Guglielmo Dente, col quale Marsilieto era unito
in parentela. Il popolo, secondo il Mussato, go-
deva di tal dissensione dei Carraresi ; ma si
mostrava più propenso a Marsilieto. Marsilio
si studiava di metter la pace fra i contendenti ;
ma di nascosto favoriva Ubertino, poiché ve-
deva che, se i due fossero venuti alle mani,
il popolo si sarebbe messo dalla parte di Mar-
silieto, nel qual caso la potenza di lui avrebbe
corso pericolo, essendo egli inviso a quasi tutti
i cittadini e sospetto di volersi insignorire di
Padova. Ma il fatto sta, osserva il Mussato,
che se il popolo si fosse sollevato, Ubertino,
Tartaro e Marsilio sarebbero periti; ma nemme-
no Marsilieto avrebbe avuto il dominio, perchè
incapace, e la città sarebbe tornata libera, e
conchiude : « Marsilio, consapevole di tutto ,
circospetto, scorgendo che al più lieve tumulto
il suo stato repentinamente cadrebbe, non pensò
che a sé solo e alle cose sue, niente curandosi
del bene comune e dei privati, ancorché con-
sanguinei, ancorché fedeli ed antichi amici, e
fece fermo proposito (tale era il fine de' suoi
pensieri) di dare la città a Cangrande, né di
differirne più oltre la consegna ».
224 ALBERTINO MUSSATO
I difensori di Marsilio non possono perdo-
nare al Mussato di avere interpretato cosi si-
nistramente l'atto del Carrarese, pel quale, se-
condo essi, nonché pensare esclusivamente a sé
stesso senza badare all'altrui danno, avrebbe
mostrato quanto, più che il proprio vantaggio,
gli stesse a cuore il bene de' suoi concittadini.
«E da ammirarsi, scrive il Bianchi, l'amor
patrio di Marsilio, che potendo sì facilmente
ottenere la Signoria di Padova, e a sé con-
servarla, anche prima di venire a trattati
collo Scaligero, siasi contentato di restar sud-
dito, onde per comun bene avesse fine la guer-
ra, ch'era durata diciassette anni, quattro mesi
e venticinque giorni ; e nel tempo stesso aves-
sero a cessare i disordini gravissimi che di con-
tinuo succedevano » ^). Io non dirò, questa volta,
che i difensori di Marsilio abbiano torto, poiché
sa Dio quanto di peggio avrebbe potuto toccare
a Padova, se l' accorto Marsilio non fosse ve-
nuto a quella determinazione, e se Cane aves-
se, com' era molto probabile, conquistata la città
colle armi. I Cortusii stessi si mostrano per
quest' atto favorevoli a Marsilio, e ritengono
ch'egli abbia compiuto un atto generoso, poiché
1) Op. cit.
CAPITOLO SESTO 225
gli fanno dire: <x Potrei vivere ricco in Venezia;
ma, a costo della morte, voglio giovare alla
mia Patria» \ì. Non so tuttavia indurmi a cre-
dere, che il modo col quale il Mussato inter-
preta r azione di Marsilio, ed il severo rim-
provero che, per conseguenza, gli muove, gli
siano suggeriti da mal animo o da desiderio
di vendetta verso colui, ch'era stato causa della
sventura. Il dolore di veder cadere la libertà
della sua patria, quella libertà, per la quale egli
aveva tanto perorato e combattuto e sofferto,
gli ha, senza dubbio, fatto pensar male di Marsi-
lio, più che questi, per avventura, non meritas-
se. Dice il Villani, che Marsilio trattò collo
Scaligero «quasi per necessità, non potendo bene
tenere la terra» ~}. Questa circostanza, se mitiga
la colpa del Carrarese, non la cancella; poiché,
come bene osserva il Cipolla, privato cittadino
non poteva da sé solo trattare col vincitore ^).
Il Carrarese, dopo essersi conlidato con al-
cuni dei principali della città, mandò un suo
fidato a Cane, per fargli sapere ch'egli inten-
1) Possem in Yenetiis in diviUis viceré abioulcmter\
sed etiamsi me 'inori conveniate volo mece Palrice sub-
venire. Lib. IV. Gap. I.
2) Libro X Capitolo CIV.
3) storia delle Signorie Italiane dal 1313 al 1530,
Milano, Vallardi 1881, pag. 40.
15
226 ALBERTINO MUSSATO
deva affidare liberamente, e senza alcun patto,
la propria persona e Padova nelle mani di Cane,
ma che voleva per ciò che il matrimonio, pro-
messo un tempo a Giacomo suo zio, tra sua
figlia e Martino della Scala si compisse. Piaces-
se inoltre a Cane porre in dimenticanza tutte
le ingiurie che dai Padovani, e in particolare
e in comune, avesse ricevuto, e conservasse
tutti i cittadini nei loro diritti, affinchè, sotto la
protezione di lui, potessero condurre vita si-
cura. Ai Tedeschi, ch'erano di presidio alla
città, fosse permesso un libero ritorno, dopo es-
sere stati soddisfatti completamente del loro sti-
pendio, affinchè il Duca di Carinzia non avesse
motivo di lagnarsi di Cane; i soli colpevoli fos-
sero assoggettati alle pene, essendo contrario
non solo alle leggi, ma all'equità il molestare
alcuno pegli altrui delitti. Per queste cose Mar-
silio non voleva da Cane né giuramento, né
scrittura, ma soltanto la sua fede ^).
Ben diversi, secondo il Mussato, sono i patti
coi quali Marsilio propose allo Scaligero la ces-
sione di Padova: «Che seguir dovesse il ma-
trimonio fra Taddea e Martino della Scala, col-
la dote di diecimila lire, secondo eh' era stato
1) Cort. Lib. IV. Gap. II.
CAPITOLO SESTO 227
altra volta stabilito con Iacopo suo zio ; che
Marsilio, consegnata la città, venisse nominato
vicario per Cane; che i beni dei Guelfi fuorusciti,
cioè dei Maccaruffi, dei Terradura, dei Malizia
e di tutti gli altri senza distinzione, che, dopo
l'insulto di Paolo, erano fuggiti per paura dalla
città, e medesimamente i beni dei figli e degli
eredi dell' ucciso Guglielmo Dente fossero di
Marsiho, rimanendo privi quei fanciulli del pa-
dre e dei beni paterni; che i beni del monastero
dei Santi Prosdocimo e Giustina, mobili ed
immobili dovunque si trovassero, fossero di Mar-
silio e ne venisse escluso completamente l'Aba-
te; che fossero esclusi i fuorusciti Padovani,
sì banditi che relegati, come pure quelli che,
senza alcun delitto, per solo timore dei Carra-
resi, s'erano allontanati, rimanendo in città
quei soli che Marsilio volesse».
Non c'è dubbio che questi patti, come li re-
gistra nella sua storia il Mussato, sarebbero assai
più gravi di quelli notati dai Cortusii, e, facendo
conoscere la poca onestà di Marsilio, giustifiche-
rebbero pienamente le severe parole, con le qua-
le il Mussato giudica, come vedemmo, la ces-
sione della città allo Scaligero. Ma Albertino
era lontano da Padova, né di tutto poteva es-
sere informato con esattezza. Egli stesso confes-
228 ALBERTINO MUSSATO
sa ingenuamente, come queste condizioni di pace
siano state conosciute dappoi, perchè vennero
manifestate dalia esecuzione delle cose. Tale
confessione, che altri ritiene mancanza di logi-
ca, ^) è una prova evidente della sincerità dello
scrittore. Difatti è vero, lo dicono i Cortusii ^),
che Marsiho ebbe da Cane tutti i beni confi-
scati ai ribelli, ed è vero altresì eh' ebbe tutte
quante le possessioni di Santa Giustina ^). Di
quelli Cane avrà fatto dono a Marsilio ; di que-
sti il Carrarese sarà stato, come vogliono ta?
Inni, un sempHce amministratore; ma che im-
porta? Mussato non poteva sapere tutte queste
cose; egli ritenne fermamente che così fosse
stato pattuito tra Cane e Marsilio. A che dun-
que gridargli tanto la croce addosso e chiamarlo
impostore, come fanno i troppo zelanti difen-
sori di Marsilio?
Mussato vorrebbe, inoltre, far credere che
Marsilio abbia costretto i monaci di Santa Giu-
stina ad eleggere per abate un figlio spurio di
Giacomo da Carrara, notizia ripetuta dal Cava-
ciò ^), dal Verci ^) e da altri. Il Bianchi, in di-
^) Vedi: Bianchi Op. cit. pag. 15.
2) Lib. IV Gap. V.
3) Cort. Lib. V. Gap. VII.
4) Hist. Caenob. S. Just. pag. 157.
5) Storia della Marca ecc. Tomo X pag. 108.
CAPITOLO SESTO 229
fesa di Marsilio, cita il testamento di Marsilio
stesso, rogato agli 8 di marzo del 1338, in cui
lascia a Perenzano— tale è il nome dello spurio
— delle possessioni, purché consegua l'Abbazia
di Santa Giustina od altra, che gli dia un egual
reddito. «Se Perenzano, osserva il Bianchi, nel
1338 non era abate, dunque è falso che lo
fosse circa due lustri innanzi ; dunque è falso
che Marsilio avesse costretti i monaci ad eleg-
gerlo». Su questo non si può asserire nulla
di sicuro; ma egli è certo, che Marsilio, se non
altro, desiderava ardentemente di veder eletto
Perenzano a quella sede. Dalla Bolla di Giovan-
ni XXII, in cui Marsiho è accusato di aver
avuto parte nell' uccisione del Priore di S. Ma-
ria di Vanzo, e di essersi appropriati i beni di
quel priorato, risulterebbe altresì, aver egli u-
surpato i beni del monastero di Santa Giustina,
col discacciarne l'abate, e di aver fatto la
stessa cosa contro il monastero di S. Stefano
di Carrara e contro quello della Vangadizza,
quanto ai fondi, che possedevano nel territorio
padovano ^). Di quest'ultime usurpazioni, cioè
di quelle dei beni di S. Stefano di Carrara e
del monastero della Vangadizza, il Mussato non
fa parola.
') Vedi : Bianchi, pag. 27.
230 ALBERTINO MUSSATO
A questo punto s'arresta la difesa, che di
Marsilio fanno i suoi ammiratori contro le ac-
cuse del Mussato. Ma altre più gravi accuse
lancia Albertino contro il Carrarese, nelle ul-
time pagine della sua storia, accuse, che met-
tono in piena evidenza l'ingratitudine di Mar-
lio verso il grande suo concittadino. Da queste
principalmente avrebbero dovuto scolparlo i suoi
difensori: invece hanno creduto bene di passarle
sotto silenzio. Né è a dire che il Mussato, per
queste, possa esser stato tratto in inganno da
relatori poco esatti o maligni; ciò che narra
è toccato a lui stesso, ed egli era incapace di
esagerare, e, tanto meno, di mentire.
Cane, coni' ebbe inteso dal messo i patti, coi
quali Marsilio voleva cedergli Padova, se ne
mostrò soddisfatto, e^, poiché vedeva adempirsi
il suo desiderio, promise di osservarli integral-
mente, e di tenere come fratello MarsiHo. Que-
sti andò di nascosto a Cane, per mettersi d'ac-
cordo con lui sul modo col quale gli avrebbe
consegnatola città: in quell'abboccamento fu
stabilito che Marsilio si sarebbe fatto procla-
mare Signore di Padova. Di ritorno in città,
il Carrarese mise in opera ogni mezzo per far
conoscere questo suo desiderio al popolo, e,
quando vide la cosa bene avviata, introdusse
CAPITOLO SESTO 231
in città buon numero di contadini armati, sotto
pretesto di assalire, con essi e coi tedeschi, i
nemici che depredavano i raccolti. Allorché
si tenne sicuro del fatto suo, radunò il Consi-
glio, in cui, per unanime assenso, gli fu data
la Signoria della città. Ciò avvenne il 3 set-
temÌ3re 1328.
In quello stesso giorno il Podestà Griffo,
fratello di Engelmario, presentò a Marsilio
le chiavi della città, e, ricevuto lo stipen-
dio, ebbe licenza di partire co' suoi tedeschi.
In sua vece fu eletto a Podestà Marsilio de'
Rossi da Parma, nipote di Marsilio, il quale
entrò in Padova con duecento elmi. Giunse
frattanto la notizia delle nozze fra Taddea
e Mastino, celebrate in Venezia alla presen-
za del Doge. Marsilio allora, sotto colore di
ambasceria, mandò a Vicenza alcuni dei prin-
cipali della città, che sapeva a sé contra-
rli, per istabilire con Cane la pace, quale po-
co dopo fu solennemente pubbHcata. Il giorno
7 Mastino entrò in Padova con cento elmi ^).
Marsilio lo accolse con grande onore ed ap-
presso, d'accordo co' suoi, convocò il Consiglio,
al quale espose, come, per salvare la città op-
1) Cort. Lib. IV. Cap. III. Secondo altri gli elmi erano
duecento. Vedi: Gattari, Istoria Padovana,
232 ALBERTINO MUSSATO
pressa da tante sventure, intendesse darne il
dominio a Cane; pregava parenti e amici a voler
sottoporsi al mite giogo. I più degli astanti si
guardarono stupefatti l'un l'altro in viso, senza
saper che rispondere. Solo il timore, scrive il
Mussato, fece tacere il dolore di alcuni e tenne
loro ferme le mani. Comune era il lamento di do-
ver cedere a Cane, senza contrasto, quella città,
che aveano difesa per tanto tempo col ferro, e
per la libertà della quale aveano sparso tanto
sangue ed avevano sofferto la fame. Ma poiché
vedevano ch'era impossibile opporsi, tentavano
consolarsi pensando - cosi il Mussato - che pas-
savano dal giogo di molti a quello di un
solo.
Combinata ogni cosa secondo il suo desiderio,
Marsilio, con molti dei principali padovani, andò
il giorno 8 di settembre a Vicenza, per porre
nelle mani di Cane il dominio di Padova, e
n'ebbe ogni dimostrazione d'onore. Due giorni
appresso, lo Scaligero fece il suo solenne in-
gresso in Padova per Porta di Pontemolino. 11
popolo e il Clero mossero ad incontrarlo. Mar-
silio ed Ubertino gli cavalcavano ai lati, e
dietro tutti gli altri della famiglia Carrarese ^).
1) Cort. Lib. IV Gap. III.
CAPITOLO SESTO 233
Smontato al Pretorio ^), gli fa presentato dai
Giudici e dagli Anziani il vessillo della Comu-
nità, ch'egli consegnò nelle mani di Marsilio,
nominandolo suo vicario della città ; passò quin-
di ad alloggiare nel Palazzo vescovile.
Continue furono le feste nei giorni eh' egli si
trattenne in Padova. Il 14 settembre furono
compiute solennemente le ceremonie dello sposa-
lizio fra Mastino e Taddea, e m.olti e grandi,
in quell'occasione, furono i doni di Marsilio
a Cane, e di Cane a Marsilio e a molti nobili
Padovani. Poich'ebbe ordinate tutte le cose.
Cane intimò una Curia solenne in Verona pel
novembre di quell'anno, e ai vent'otto di set-
tembre fece ritorno a Vicenza ^).
Dei fuorusciti padovani, Nicolò da Carrara,
per volontà di Cane, partì da Este e si ritirò in
Venezia, senza essere tuttavia spogliato de' suoi
possedimenti, Enrico degli Scrovegni, tornato a
Padova senza averne avuto il permesso, fu ri-
mandato di nascosto a Venezia. I Maccaruffi, i
Dente, i Terradura, gli Altechini, i Malizia ed
altri furono spogliati dei loro beni, dei quali
^) Secondo i Cort. sarebbe andato al Pretorio il giorno
appresso alla sua entrata in Padova. Lib. IV. Gap IV.
2) Cort. Lib. IV Gap. IV.
234 ALBERTINO MUSSATO
Cane fece dono a Marsilio, che, per tal modo,
divenne il più ricco di Padova.
Il Mussato, ch'era esule a Chioggia, non
appena intese che Cane era divenuto Signore
di Padova, ed aveva proclamata la pace, ve-
dendo inutile opporsi agli avvenimenti, piegò
rassegnato il capo, e sperò di poter passare gli
ultimi giorni di sua vita, se non lieti, tranquilli
nella sua città diletta. Fidando nella propria in-
nocenza e nelle promesse di Marsilio, si recò egli
segretamente a Padova ^). Appena arrivato in
1) I Cortusii registrano erroneamente il tentativo di
Albertino di rimpatriare nell' anno 1329, ed aggiungono
eh' egli mori in Chioggia, 1' ultimo giorno di Maggio del-
l' anno seguente. SuU' autorità dei Cortusii, la più parte
degli scrittori moderni ripete l'errore; ma «da chiunqne
conosca un poco la storia di quel tempo è facile, osserva il
Gloria. [Documenti inediti intorno a Francesco Petrarca
e Albertino Mussato — Nuovi Documenti intorno ad,
Albertino iì/?«5sa^o), lo scorgere errato quell'anno 1329
invece che 1328, essendo avvenuti in questo e non nel-
l'anno 1329 i fatti narrati in quella storia poco prima
o poco dopo il ricordo di quel tentativo». «Aftermando
i Cortusii avere alloggiato Cangrande della Scala quando
divenne Signore di Padova, dal 10 al 28 settembre 1328,
nel palazzo vescovile di essa città, ed affermando es-
sersi portato il nostro Albertino da Chioggia a Padova
senza la permissione di lui, mostrano conseguentemente
che lo stesso Albertino debba aver fatto quella gita per
impetrare giustizia dallo Scaligero, mentre questi in Pado-
va dimorava, È facile perciò comprendere che quella gita
narrata al capo V libro IV della storia dei Cortusii debba
CAPITOLO SESTO 235
città, andò in cerca di Marsilio, e non avendolo
trovato in casa, poiché siili' imbrunire era an-
dato da Cane nel Palazzo vescovile, smontò ad
una sua casetta, e mandò tosto un servo a Mar-
silio che gli annunciasse la sua venuta. Il servo
trovò Marsilio che passeggiava con Cane sopra
una loggia, e, fattogli un profondo inchino, gli
disse della venuta del Mussato. Marsilio all' an-
nunzio rimase stupefatto, cangiò di volto e do-
mandò tre volte al servo se fosse veramente
venuto. Avendogli questi risposto di si, trasse
Cane in disparte, col quale scambiò alcune pa-
role ; indi, chiamato un messo, lo spedì imme-
diatamente al Mussato, per chiedergli con quale
audacia e fidando in chi fosse venuto a Padova.
■essere avvenuta verso la metà del settembre 1328, tanto
più che in quest'anno pure, nel 27 del novembre, avvenne
la grande festa fatta poi per ordine di Cangrande in Ve-
rona e narrata al Capo VI della storia stessa». «È
inoltre facile rilevare l'anno 1328 di quella gita del no-
stro Mussato dal racconto 011' egli stesso ne fo nel suo
libro De Gesiis Italicorum post Heny^icum Vlf. Egli
dice che si recò da Chioggia a Padova tosto che Can-
grande, divenuto Signore di Padova, proclamò in Padova
la pace, e quando questi alloggiava ancora nel detto
palazzo vescovile di Padova. E aggiunge che non avendo
ottenuto ciò che ambiva, tornò a Chioggia e che Can-
grande si restituì poi a Verona, ove celebrò il Natale
del Signore in quell'anno stesso 1328».
«Bisogna quindi correggere l'anno 1329 messo in te-
sta dei Capi V, VI e VII del libro IV della Storia dei Cor-
236 ALBERTINO MUSSATO
Rispose il Mussato : Averlo indotto a venire
l'annunzio della pace proclamata, la sua inno-
cenza, la giustizia di Cane, novello Signore, e
la fiducia in Marsilio, eh' egli reputava quale
amico e fratello. Il messo riferi ogni cosa a
Cane ed a Marsilio, i quali, tenuto consiglio,
lo rimandarono al Mussato per dirgli che, non
ostante la sua nota saggezza, s' era mostrato
poco prudente col venire a Padova, e che si
trattenesse per quel giorno, nella casa ov'era
disceso, fino a nuovi ordini.
Il Mussato, pieno di stupore, passò in veglia
quella notte; sul far dell'alba mandò il servo alla,
casa di Marsiho, per pregarlo gli facesse sapere-
ciò ch'era stato stabilito sulla sua venuta. Marsi-
lio, al comparire del servo, volgendo altrove la
faccia ed arrossendo di stizza, rispose: Non vo-
lerne sapere del Mussato che, contro il suo con-
siglio, avea voluto far ritorno in città. Provve-
desse a sé stesso, come meglio gli piaceva, senza
ricorrere a Marsilio. Ed avendo osato il servo
affettuoso di chiedergli, se il fallo di Albertina
fosse così grave, ch'egli dovesse far ritorno colà.
tusii, e porvi invece l'anno 1328, errore derivato proba-
bilmente da amanuensi, e ripetuto nell'edizione fatta
nell'anno 1636 in Venezia e in quella del T. XII della
grande opera Rerum italicarmn Scriplores del Mura-
tori ».
CAPITOLO SESTO 237
dond'era venuto; Marsilio rispose, che «farebbe
assai bene, se cosi facesse». All'udire questa ri-
sposta, il Mussato - lo narra egli stesso - tremò
dalla paura, quasi gli fosso minacciato il carcere
o la morte. Tisone da Camposampiero, giovane
di animo nobilissimo, mosso a compassione di
lui, volle vedere se gli veniva fatto di combi-
nare la cosa. Si rivolse dapprima a sua madre
Cunizza, sorella di Marsilio, indi a Marsilio,
dal quale andò e tornò più volte, insieme con
un buon religioso, che la madre gli avea dato
per compagno. N'ebbe in risposta: «Non temes-
se il Mussato ne di carcere, né di morte; ri-
tornasse a Chioggia, e stesse colà tranquillo
fino a nuovi ordini ; i suoi beni non gli sareb-
bero tolti; Marsilio se ne faceva garante ». Al-
bertino pertanto dovette ricalcare la dura via
dell' esiglio. Il Carrarese gli. fece sapere: esser
quella una sua vendetta, « perchè il Mussato,
in un codice che stava scrivendo sui fatti di quel
tempo, lo aveva chiamato traditore». — Gli
rispose lo storico : « Non pensi o tema Mar-
silio ch'io abbia inserito cosa alcuna nelle mie
carte, se non vera. I fatti, quali avvennero, sa-
ranno tramandati alla posterità, la quale darà
la lode il biasimo, testimonio il Mussato non
giudice ».
238 ALBERTINO MUSSATO
Da due o tre giorni Albertino aveva fatto
ritorno in Chioggia, allorché gli fu riferito es-
sergli stata fatta gravissima ingiuria da Mar-
silio. Gli aveva questi occupato un mulino,
dal quale il Mussato - son sue parole - traeva
il principale suo sostentamento '), sotto pretesto
che apparteneva ai beni del monastero di Santa
Giustina, che Cane gli aveva regalati. Albertino
mandò a Padova un suo fidato, con documenti,
i> Cvjus maxima emolumento vescebalur. Nota il
Gloria {Boc. inecl. inlorno a F. Petrarca e ad A. Mus-
sato) che «il poeta non disse il vero, se teniamo Tad-
diettivo maxima, stampato, od esagerò, ove supponiamo
invece l'avverbio ìnaxitne, risultando nel primo caso olia
il gran reddito di quel mulino fosse l'unico, e nel se-
condo caso il principale suo sostentamento». Che Alber-
tino abbia esagerato sono d'accordo col Gloria; ma non
sono d' accordo con lui che, ove il poeta abbia scritto
onaximo abbia inteso dire V unico; tale non sarebbe
certo il valore della parola maxima! Anche lo Zanella
nel suo scritto Guerre fra Padovani e 'Vicentini al tem-
po di Dante dice a questo proposito, che « Marsilio tol-
se al Mussato, già vecchio ed infermo, l'unico provento
.che avesse a campare la vita » ; ma ciò egli dice non
perchè interpreti viaximo nel significato di imico\ ma
perchè il Mussato stesso, dopo aver narrato l' occupazio-
ne del suo mulino da parte di Marsilio, soggiunge: sicque
Mussato alimonia, quib US in Clugia et alibi ali posset,
surripuit; facendo credere, per tal modo, che quel mu-
lino fosse 1' unico mezzo dal quale egli traesse il suo so-
stentamento. Che ciò non fosse, risulta chiaramente, come
osserva il Gloria, dal fatto «che Albertino ereditò dal
Cavalerio non iscarsa fortuna; che sposò Mabilia Dente
CAPITOLO SESTO 239
per far valere i suoi diritti, ma né il messo
venne ascoltato, né i documenti furono letti.
Abbandonato da tutti e in mezzo alle stret-
tezze, passò il Mussato in Chioggia gli ultimi
giorni della sua vita, forse abbreviata dalle
tante amarezze, alle quali s' aggiunse la mala
condotta del figlio Vitaliano. Ciò ne fa sapere
il Mussato stesso, nella introduzione alla sua
Storia di Lodovico il Bavaro, con queste acerbe
parole rivolte al figlio : « Affidare la semente
a terreno sterile è atto di somma follia ; ci si
rimette insieme la fatica e le spese. Non mi par-
ve dover tramandare ai posteri la memoria
delle tue crapule e delle tue turpi azioni, poi-
ché sarebbe di dolore a me e di vergogna ai
congiunti ed agli amici » .
Unico conforto a tante sventure trovava Al-
coli ricca dote; che possedea non pochi terreni nei vil-
laggi di Cona, Candiana, Agna, Vaccarino e altrove, e
che nei suo testamento lasciò ad pias caiisas beni del
valore di lire 666 - Vedi Appendice, Doc. VII - ond'egli
stesso cantò : ad bona fortume veni labenlibiis annis.
Perciò non emergendo che questi beni gli siano stati con-
fiscati mancati mai fuor che il mulino, ne viene eh' ei
li tenesse ognora tìnchè visse, e traesse anco da questi,
non dal molino soltanto, il proprio vivere». Lo stesso Glo-
ria, da uno dei documenti su Albertino da lui pubblicati,
e che noi riproduciamo in Appendice sotto il n.° Vili,
inferisce che il mulino sia stato restituito subitamente
al Mussato dal Carrarese.
240 ALBERTINO MUSSATO
bertino ne' suoi studi prediletti. Neil' esiglio egli
scrisse il libro XII De Gestis Italicorum j)Ost
Eìiricum VlICcesarem, nel quale se sparge un
po' di fiele contro coloro che furono causa della
sua fine infelice, merita tutto intero il nostro
compatimento. Compose inoltre la Storia di
Lodovico il Bavaro, che lasciò incompiuta, e
buon numero di versi.
Il 31 maggio dell'anno 1329 ^) cessò di vive-
^) Dopo quanto ha dimostrato il Gloria, coli" appoggio
dei documenti, non si può più mettere in dubbio l'esat-
tezza di questa data. Se il Mussato tentò di rimpatriare
nel 1328 e non nel 1329, come notano erroneamente i
Cortusij, e se, come questi asseriscono, mori nell' ultimo
giorno di maggio dell' anno seguente, quest' anno non può
essere che il 1329. Prima del Gloria, il Colle, nella sua
Memoria su Albertino Mussato, dopo aver detto che
questi mori nell' ultimo giorno di maggio dell' anno 1330,
in età d'anni presso a 70, si ricrede, e soggiunge; «Os-
servo peraltro dopo scritta la presente (Memoria), che
il Mussato probabilmente mori nel 1329 in età d'anni
69 (Egli lo fa nato nel 12òl) anche secondo i Cortusii, e
che deve essere corso errore nel millesimo da essi posto
in fronte del capo quinto, libro quarto, dovendosi leggere
1328 invece di 1329. In fatti narrano essi in quel capo,
che Mussato tornato vergognosamente alla relegazione
di Chioggia, vi mori l'anno appresso 1' ultimo di maggio.
Ma se il Mussato venne in Padova appena data la città
allo Scaligero, come dice egli stesso e confermano i Cortu-
sii, ciò segui nel settembre del 1328; e quindi il Mussato,
morto l'anno appresso, mori nel 1329. Tanto più che lo
Scaligero mori egli pure nel luglio del 1329, dopoché
Marsilio Carrarese avea passato servilmente il verno
CAPITOLO SESTO 241
re, nell'età d'anni sessantasei e mesi otto circa.
La sua salma fu trasportata in Padova e se-
a4itecedente in Verona alla corte di lui, come il Mussato
tornato a Chioggia acerbamente gli rinfaccia nell'ultimo
libro della sua Storia» Lo Scardeone, anch' egli, registra
la morte del Mussato nell" ultimo giorno di maggio del
1329: Obiit Clodioe post triennium MCCCXXIX ullimo
die Mail, e cosi pure il Vossio Obiit Clodii exul pr.
kal. lun. anno* 1329. A farci ritenere esatta l'epoca in
cui asseriamo avvenuta la morte di Albertino contri-
buisce inoltre il documento 9 luglio 1329, allegato dal
Gloria e da noi riprodotto in Appendice sotto il n.^ Vili,
in cui si leggono le parole niolendinum quondam domini
Albertini Muxati poete. Il Kònig nel suo opuscolo Ueber
die Herkunft des Albertino Mussato sostiene il parere
contrario a quello del Colle e del Gloria, cioè che il Mus-
sato sia morto nel 31 maggio 1330, e vorrebbe che l' av-
verbio quondam del documento citato, denotasse ch'esso
mulino spettava un tempo ad Albertino, e non che questi
fosse già morto nel 9 luglio 1329. 11 Gloria, confutando
le ipotesi del Konig, osserva fra le altre cose: «esser re-
gola non solo paleografica e diplomatica, ma comune, che
gli avverbi quondam ed olim aggiunti nudamente al no-
me di una persona, indicano sempre nei documenti quella
persona già morta. Lo Zanella poi e, con lui, il Dall' Acqua
Giusti e il Wychgram vorrebbero ancor vivo il Mussa-
to nel 13 agosto 1330, trovandosi il suo nome segnato
in un documento che porta quella data. (Vedi : Appendice
Doc. IX). Quel documento, come dimostra ad evidenza il
Gloria, si riporta senza ambagi al mutuo stipendiato ven-
t'anni innanzi, di cui è parola in un altro documento
28 gennaio 1310, pure pubblicato dal Gloria, e che noi ri-
produciamo in Appendice sotto il u.? X. Il Wj^chgram, che
conosce il doc. 9 luglio 1329, lo riporta in Appendice al
suo scritto, e darebbe al quondam il valore che dà il
Kònig.
16
242 ALBERTINO MUSSATO
polta in Santa Giustina ^). Così ebbe fine la
vita fortunosa di questo Grande, che, simile
per ingegno e per sventure all' Alighieri, con-
sumò, al pari di lui, nell'esiglio gli ultimi anni
di sua vita sulla stessa riva del mare Adriatico.
t) Sulla tomba e' era la seguente iscrizione, riportata
dallo Scardeone:
Condita Trojugenis post diruta Pergama tellus
In mare fert Patavas unde Timavus aquas,
Hunc genuit vatem, tragica qui voce tyranni
Edidit Archilocis impia gesta modis.
Prfebait aitati vitce monumenta futurse
Ut sit ab externis cautior illa maiis.
Il Gloria la reputa d' ignoto autore e non di Alber-
tino stesso, come aveva detto a pag. 91 del suo opuscolo:
Studi intorno al corso dei fiumi ecc. (Vedi : Boc. ined.
intorno a F. Petrarca ed A. Mussato pag. 19, nota 1).
Nella ricostruzione del tempio, le ceneri del poeta an-
darono disperse, e nel luogo della sua sepoltura, fu posta
questa iscrizione, che oggi più non esiste: Manibus Al-
bertini Mussati. Il Cittadella nel volume I pag. 451 della
sua Storia della Dominazione Carrarese in Padova
nota: Gli antichi scrittori clodiensi dicono che Albertino
ebbe tomba nell'antica cattedrale di Chioggia.
Capitolo Settimo.
Le Storie.
I fatti, che siam venuti narrando, li abbia-
mo raccolti, per la maggior parte, dallo stes-
so Albertino Mussato, il quale fu storico de* suoi
tempi conscienzioso e valente ; i pochi e lievi
errori, nei quali è caduto, non gli scemano au-
torità, e possono essere corretti facilmente col-
r aiuto delle altre fonti.
h' Historm Augusta è il principale de' suoi
lavori storici. Secondo l' ipotesi assai probabile
del Wychgram, essa sarebbe stata compiuta pri-
ma dell'aprile 1314. E evidente — nota lo scrit-
tore tedesco — eh' essa fu finita dopo la morte
di Enrico VII (24 agosto 1313) che vi è de-
scritta, e prima di quella di Filippo il Bello,
(29 novembre 1314) che vi è ricordato come
vivente. Ma io credo, egli soggiunge, di poter
ancora restringere questo spazio di tempo e di
stabilire ch'essa sia stata compiuta prima del-
244 ALBERTINO MUSSATO
l'aprile 1314. Infatti al principio di questo
mese, la casa del Mussato venne saccheggiata
dal popolo sollevato per la carrella. Sarebbe
strano eli' egli, scrivendo dopo questo avveni-
mento, non avesse manifestato ai Padovani il
suo dispiacere ; tanto più che negli ulteriori
scritti prende volentieri occasione di dare sfogo
al suo corruccio ^).
La pubblicazione di questa storia e della tra-
gedia Eccerinis gli meritò la laurea poetica,
della quale venne cinto, come vedemmo, il
giorno di Natale dell'anno 131-1.
L' Historia Augusta narra i fatti accaduti
in Italia dalla discesa di Enrico VII di Lus-
semburgo fino alla sua morte, e si divide in
sedici libri. Si credeva generalmente che la
venuta dell' Imperatore avrebbe posto fine alle
discordie tra Guelfi e Ghibellini, ed invece
contribuì a rinfocolarle maggiormente. Tutte le
buone intenzioni di Enrico non approdarono
a nulla, seppure non- servirono ad allontanar-
lo sempre più dal suo fine. Invano egli cercò
di legarsi in amicizia col Pontefice, dal quale
ottenne T assenso di venire in Itaha e di cinge-
re la doppia corona a Milano ed a Roma.
I) Pag. 60.
CAPITOLO SKTTIMO 245
Il partito guelfo vide in ciò un' astuzia del-
l' Imperatore jfer far prevalere più facilmente
in Italia la fazione ghibellina. Le nomine dei
vicarii imperiali nelle città che gli prestavano
omaggio confermarono il sospetto dei guelfi, e
fu questa la ragione per cui molte città si rifiu-
tarono di accoglierlo, ed altre, che pur V ave-
vano accolto, gli si ribellarono. Da ciò guerre
sanguinose e terribili assedii. Principale nemi-
co dell' Imperatore era Roberto re di Napoli,
il quale cercava ogni mezzo per impedire che
quello acquistasse potenza in Italia. L'inimici-
zia di costoro stava per rompere in aperta
guerra, allorché l'Imperatore mori a Buon-
convento.
Tutto ciò narra, con molti particolari, il
Mussato nella sua Historia Augusta, e sicco-
me egli stesso fu testimonio dei fatti princi-
pali che sono oggetto della sua narrazione, cosi
è scrittore degnissimo di fede, e la sua sto-
ria è fonte copiosa e sicura delle cose acca-
dute in Italia alla venuta di Enrico VII. L' am-
mirazione ch'egh, che pur si professa guel-
fo ^), dimostra per l' Imperatore, e' è garanzia
1) Hsec referens Gelfa non me de parte negavi.
In laudem D. Henì'ici hnperatoris et commenda-
iioneni sui operis de gestis eiusdem. Epist. II.
246 ALBERTINO MUSSATO
della sua imparzialità nel giudicare degli uo-
mini e delle cose. Egli stesso si' vanta con ra-
gione di questa sua dote '). L' essere stato poi
ambasciatore più volte ad Enrico gli ha dato
occasione di conoscere molti particolari intorno
alla dinastia di lui, al luogo della sua nascita
e ai suoi costumi ; cose tutte delle quali tratta
nel principio del libro primo della sua Storia.
Ma come si spiega l' ammirazione del Mus-
sato per r Imperatore, mentre, cittadino di una
città guelfa e chiamato a sostenerne i diritti,
avrebbe dovuto considera,rlo, direi quasi, come
nemico?
Albertino Mussato, benché si professi guel-
fo, non è propriamente tale. Egli non è un
partigiano volgare, ma si eleva al di sopra dei
partiti ; i pregiudizii non fanno velo agli occhi
suoi; vede ciò che può tornare di maggiore
utilità alla sua patria, e si sforza di raggiun-
gerlo, malgrado V opposizione de' suoi concitta-
1) Me super his scriptis, ccelestia Xumiaa tester,
Non. timor aut odium, nec superavit amor.
Gesta super vero semper sine crimiue scripsi,
Zelus in hac quisquam non mihi parte fuit.
Scripta milii videas rerum discrimina, lector.
Et tibi nunc Gelfus nunc Gibolengus ero.
Vive liber puri testis fidissime veri.
Ibidem.
CAPITOLO SETTIMO 247
dini. Non è a credere tuttavia, come crede il
Lorenz, eh' egli fosse stato guadagnato all' Im-
peratore, prima ancora della venuta di questo in
Italia ^). Il Mussato, come possiamo rilevare da
quanto scrive egli stesso in una sua epistola,
non sapeva come dovesse riguardare il futuro
avvenimento, e domandava consiglio a Giam-
bono d' Andrea, come ad uomo di molto sen-
no, per sapere che dovesse sperare o temere.
«Odi, Giambono, gli scrive, questi rumori che
vengono dal settentrione? L'Imperatore ger-
manico sta per venire in Italia, a cingere il
diadema col consenso del Papa, e senza che il
grande Gallo (Filippo il Bello) gli si opponga.
Tutti gli Italiani sono commossi dal grande av-
venimento. V ha chi ricorda i danni recati alla
Chiesa da Federico e le innumerevoli stragi
commesse dal feroce Ezzelino ; v' ha, per lo con-
trario, chi, di opposto parere, esaltando Y Im-
pero come salutare e il nome di (tesare pari
a quello degli Dei, ricoiiosce la Chiesa cagio-
ne di tutti i mali. Essa avrebbe potuto goder
pace e tener soggetto l' Impero al suo sacro
giogo ; ma il desiderio ardente di dominare su
tutto il mondo e la sfrenata voglia di un se-
1) Deutschlands Geschichtsquellen in MiltelatLer
248 ALBERTINO MUSSATO
condo potere pervertirono l'animo del Ponte-
fice ; mentre la crudele Tesifone accende, con
potenti stimoli, le ire nefande. E si dovrà in-
veire contro Ezzelino, ed imputare ogni cosa
all' Imperatore ? Ma, ammesso pure che fosse-
ro entrambi iniqui, ne viene di conseguenza che
tutti gli Imperatori debbano esser tali ? Augu-
sto ed altri, è comune opinione, risplendono,
fulgide stelle, nel cielo. Venga adunque il Prin-
cipe col nome di Signore del mondo, e possa
con mano gagliarda, mite a un tempo e se-
vero, perdonare ai soggetti e debellare i su-
perbi. Di tai voci, continua il Mussato, la ple-
be empie in giro la città intimorita, e giovani
e vecchi contendono per diverse opinioni». Si
rivolge quindi all'amico, che ha mente presa-
ga del futuro, perchè coi consigli rialzi l'ani-
mo suo combattuto ^).
Malgrado questi dubbi, il poeta fa capire da
qual parte inclinerebbe l' animo suo. Allorché
poi r Imperatore venne in Italia, ed egli fu
mandato a lui come ambasciatore della sua
città, fu talmente preso dalla amabilità di En-
rico, che ne divenne ammiratore sincero. Ciò
1) Epistola V. Ad Jambonum de Andrea notarium
super advenfu D. Henrici Imperatoris in Italiani.
CAPITOLO SETTIMO 249
non ostante egli non dimenticò mai quale era
la sua posizione dinanzi all'Imperatore, e quale
missione gli aveva affidato la sua Repubblica.
Quando poi, mercè la confidenza che gli accor-
dava Enrico, potè scoprire quali fossero le sue
mire politiche, desiderò pel bene della sua cit-
tà, che questa si unisse a lui. E poiché vide
riuscire inutile ogni tentativo, essendoché vi
si opponevano i desiderii della maggior parte
dei cittadini, cercò almeno eh' essa serbasse
rispetto ad Enrico un contegno neutrale. Co-
testo era quanto di meno potesse far Padova
a quei giorni, per evitare danni gravissimi.
Agire diversamente era un disconoscere il pro-
prio vantaggio, e Padova lo disconobbe pur
troppo! Noi sappiamo dai fatti, che cosa essa
abbia ottenuto con la sua ostinata opposizione
ad Enrico. Il Mussato, per questo, non cessa
dalle sue lodi verso l' Imperatore, e rimprovera
acremente, ogniqualvolta gliene capita il destro,
i suoi concittadini, i quali, piuttosto che voler-
lo amico, avevano provocato lo sdegno di lui.
Egli parla, con favore, di Enrico in più
luoghi delle sue opere. Dicemmo come si oc-
cupi di lui e della sua schiatta nella introdu-
zione della Storia Augusta ; ora aggiungeremo
eh' egli manifesta principalmente i suoi senti-
250 ALBERTINO MUSSATO
menti verso T Imperatore nelle Epistole I, li,
V e XVII. La II, alla quale abbiamo accenna-
to più sopra, è in lode eli Enrico. Il poeta la
scrisse dopocliè, per la sua Storia, ebbe otte-
nuto la laurea poetica, per la quale si profes-
sa grato all' Imperatore ; benché gli cliiegga
perdono di avere osato di scrivere le sue ge-
sto, degne di essere narrate da altra penna ^).
In questa Epistola egli dichiara, nessuno di qua
dall' Alpe esser più caro di lui ad Enrico ^) ;
chiama ingrati e stolti i Padovani, per aver
respinto i patti favorevoli proposti loro dall' Im-
peratore, il quale, capo del mondo, s' era sot-
toposto ad essi ; così in breve tempo fu cen-
tuplicata quella piccola somma che avrebbero
sborsato ; oltre a ciò perdettero Vicenza, e le
guerre con Cane ebbero principio. Se Padova
avesse ascoltato i suoi consigli, avrebbe evitato
tante stragi. Termina col voto, che la futura
gioventù padovana divenga più cauta all'esem-
pio di tanti mali ^).
1) Jure tibi teneor, Rex invictissime ; prò te
Accedit capiti nexa corona meo.
Farce tamen, bone Rex, nimium mlhi fortiter auso
Si fuerant alia gesta notanda manu.
2) Quod tibi cis Alpes non me dilectior alter,
Carior aut nostra sub regione fuit.
3) Ingrati Fatavi, quaa vestra insania? Vobis
Is se subiecit, qui caput orbis erat.
CAPITOLO SETTIMO 251
Il Friedensburg è d' avviso, che non si deb-
ba dare troppa importanza a questa Epistola
per ciò che riguarda i rapporti del Mussato
coir Imperatore; che s'egli si vanta superiore
ai partiti, non v' è storico che non presuma
altrettanto. Nemmeno dal punto di vista sto-
rico vorrebbe che si desse ad essa troppo peso.
Egli non è d' accordo col Wychgram, il quale
vede in Mussato un partigiano dell'Impero e
trova che le sue idee politiche non differisco-
no da quelle dell' Ahghieri. La politica del Mus-
sato, nota il Friedensburg, piuttosto che nel-
r Epistola II, deve cercarsi nelle sue Storie,
dov' egli ce la espone francamente ^). Fra le
altre cose osserva, che il Mussato, di ritorno
dalla seconda legazione all'Imperatore, allor-
Sed male concordes et longa pace superbi
Cessistis paetis per vaga vota bonis.
Summula Principibus parvfe desponsa monetse
Tempore sub parvo centuplicata fuit.
Accessit damnis ammissa Vicentia nostris,
Bellaque cum Grandi capta fuere Cane.
Cum Cane vitasset moraenta per omnia clades
Urbs mea, Consilio si foret usa meo.
Tuque stude solers, Padufe ventura Juventus,
Cautior ut nostris efficiare malis.
1) Zur Krilik der Historia Augusta des Albertino
Mussalo nelle Forschungen zur Deutschen Geschichte
Band. XXIII. Heft I. pag. 9.
252 ALBERTINO MUSSATO
che trova i suoi concittadini quasi risoluti di
respingere le condizioni imposte loro da Enri-
co, arrischia appena alcune timide osservazio-
ni, e li consiglia a salvare almeno la forma,
per non andare incontro ad una guerra, il cui
esito non era prevedibile ^), Più tardi quando
per la defezione di Vicenza, Padova atterrita
si decise di accordarsi con l' Imperatore, si ri-
corse di nuovo al Mussato, non perchè questi
paresse il miglior patrocinatore della politica
favorevole all'Impero; ma perchè egli, insieme
con Antonio da Vigodarzere, che fu suo com-
pagno in questa come nell' antecedente legazio-
ne, per aver già iniziate le trattative con En-
rico, affine di ottenere un' unione fra Padova
e lui, era in certo modo impegnato a prose-
guirle e condurle a buon fine ^). Nemmeno nel-
r orazione, dopo il ritorno da Genova, colla
quale il Mussato cerca distogliere i suoi con-
cittadini dal ribellarsi all'Imperatore, come li
avea consigliati Rolando da Piazzola, il Frie-
densburg trova nessun accenno che dia indi-
zio di un sentimento e di una tendenza favo-
revoli ad Enrico ^). S'era, è. vero, perla sua
1) Ibid.
8) Ibid.
3) Pag. 10.
CAPITOLO SETTIMO 253
personale conoscenza dell'Imperatore, volto, per
breve tempo, con simpatia alla persona di lui;
ma molto più forti di questa simpatia, che il
Friedensburg giudica in Albertino come una
bella visione, erano i legami che lo tenevano
stretto alla sua patria, nella quale, povero ed
ignoto, era salito in onore ed in grandezza ;
in essa erano le radici della sua forza, e in
servigio di essa consacrò tutta la sua vita ^).
Tra il modo del Wychgram e quello del Frie-
densburg di giudicare i rapporti del Alussato
con Enrico ci corre ! Ma se il primo esce dal
vero, parmi che il secondo, pur cogliendo nel
segno, esageri alquanto, e che l' affetto di Al-
bertino verso r Imperatore fosse più forte e più
duraturo di quanto egli vorrebbe far credere.
Morto Enrico, per la cui fine immatura il
Mussato provò dolore, non ostante che Pado-
va vedesse, per tal modo, dileguarsi la nube
minacciosa del bando promulgato contro di
essa ; solo nemico di Padova, sotto pretesto di
sostenere i diritti dell' Impero, restava Cangran-
de. Dinanzi a questo, Albertino non ci appa-
risce più ora guelfo ora ghibellino; egli ci si
mostra completamente ed apertamente guelfo,
1) Pag. 54.
254 ALBERTINO MUSSATO
opponendosi con tutte le sue forze ed eccitan-
do i suoi concittadini ad opporsi alle preten-
sioni dell'audace Scaligero. Ciò che Albertino
abbia operato noi lo sappiamo, e se, malgrado
tutti i suoi sforzi^ la patria sua perdette la li-
bertà, .ciò fu conseguenza del non aver quella
ascoltato i suoi consigli, allorché tentò di ren-
derle propizio r Imperatore.
Ben sei sapevano i suoi concittadini, i qua-
li gli decretarono T onore della corona d' allo-
ro, oltre che per V Eccermis, per quella Sto-
ria stessa, nella quale egli mette in piena evi-
denza i loro errori. Essi lo festeggiano col-
r incoronazione, ed egli in cambio accresce, in
un'epistola, la misura dei rimproveri. «Ren-
diamo giustizia — scrive il Dall'Acqua Giusti,
del quale mi piace citare le parole — per una
parte, alla coraggiosa franchezza dello scrit-
tore, e per Y altra, a una longanimità di giu-
dizi nei cittadini di quella RepubbHca, che non
si trova di frequente nemmeno nelle età più
civili. Premesso ciò, badiamo che Cane era
sempre là minaccioso. Era questo l'argomento
potente che dava ragione al Mussato. Forse
già da lunga pezza molti convenivano negli
stessi pensieri. E frattanto, s'egli ritornava vo-
lentieri, e con un poco di vanità, su quelle
CAPITOLO SETTIMO 255
cause, intendeva di dedurne non già sterili re-
criminazioni, aia la necessità del rimedio. C era
stato un tempo, in cui avrebbe voluto che la
sua città divenisse un po' ghibellina ; ma quel
tempo era passato ; ora egli la voleva più che
mai guelfa neir indomita resistenza allo Scali-
gero e negli estremi sforzi per cacciarlo da Vi-
cenza» ^).
Della veracità della Storia Augusta abbia-
mo toccato nel principio di questo capitolo ; ora
per dare una prova non dubbia di quanto fos-
se conscienzioso il Mussato, aggiungeremo come,
dopo i primi sette libri, nei quali narra avveni-
menti eh' egli stesso vide o dei quali potè ave-
re notizia sicura, dichiari, nel principio dell'ot-
tavo, come sia venuto a sapere indirettamente,
per mezzo altrui, le cose che sta per narrare.
Ciò non ostante dice aver cercato colla mag-
gior cura di attenersi alla verità, poiché vuole
piuttosto essere rimproverato di omissioni che
d'aver falsato il vero ^). Ma poiché, dopo la
1) Alcuni sludi letterari e storici. — Venezia, Aiito-
nelli 1878.
3) Veniam profitenti non abnegel leclura xiosteri-
tas, si res gesta nostri Ccesaris a meis remota notioni-
bus, ab hinc minus seriose descripserim, cum investi-
gationi per internuncios, amicorumque et peregrino-
rum documenta solliciludo non defuerit. Ea propter
256 ALBERTINO MUSSATO
defezione di Padova air Imperatore, il Mussato
non si reca più presso la corte imperiale, e
tutto fa credere eh' egli non abbia abbandonato
la Marca Trivigiana, e poiché l' Imperatore,
dopo quella defezione, si mosse verso il mezzo
giorno d' Italia ; il Friedensburg, pel quale la
narrazione delle gesta d'Enrico ha un inte-
resse speciale, dividerebbe la Storia Augusta
in due parti, la prima delle quali, dal primo
al quinto libro, egli considera come una fonte
di primo ordine. In essa infatti All)ertino nota
fedelmente ciò che vide ed osservò egli stesso ;
né manca di avvertire il lettore ogniqualvolta
narra per udita. Il Dònniges, confrontando le
notizie date dal Mussato con gli Atti, non ha
potuto fare ad esse che poche aggiunte, ed ha
conchiuso doversi prestare al nostro Autore
intera fede ^).
Anche riguardo alla forma, la Storia Au-
gusta tiene il primo posto tra i lavori storici
del Mussato. Malgrado quel latino semibarba-
operos pretium sit saltem veritati sludiosius allenta fi-
delitas. Maini quippe, si quid demeruerim, de omis~
sis argui, quaììi de male dicUs.
1) Kritik der Quellen far die Geschichle Heinrichs
VII des Làtzelburgers.
CAPITOLO SETTIMO 257
ro e quello stile rude, l' espressione n' è il più
delle volte efficacissima; talune oscurità sono
da attribuirsi, più che ad altro, alle scorrezio-
ni del testo. I critici tutti sono d'accordo nel
lodarne la locuzione vigorosa ed eloquente.
Osserva il Tiraboschi : « benché lo stile del
Mussato si risenta non poco della rozzezza dei
tempi nei quali scriveva, egli ha nondimeno
una forza e una eloquenza tutta sua propria,
alla quale se si congiungesse una espressione
più elegante e qualche maggior precisione, ei
dovrebbe aver luogo tra gli storici più rino-
mati» ^). Egli cita inoltre il giudizio di Gu-
glielmo da Pastrengo, di Pier Paolo Vergerlo
e di Michele Savonarola, il quale ultimo non
dubita di chiamare il Mussato un altro Livio
nella eloquenza. Il Vossio lo giudica storico
prudente e grave, e, pe' suoi tempi, elegante
e facondo, ed aggiunge che fu amantissimo
della verità, la quale fu detta a ragione l'a-
nima della Storia ').
Il Muratori per la bellezza e purità dello
scrivere, giudica il Mussato inferiore al Fer-
^) Storia della letteratura italiana, Libro II, Capi-
tolo VI.
~) Be historicis latinis.
17
258 ALBERTINO MUSSATO
reto, eh' egli chiama precursore del Petrarca,
e non pone mente l'illustre erudito come quelli
che a lui fanno tanto piacente lo stile del
Ferreto, dai rotondi periodi, siano tutti vezzi
d' accatto, i quali allontanano lo storico da
quella semplicità e naturalezza, che più sareb-
bero state convenienti al soggetto che tratta.
Il Mussato, per lo contrario, se non conse-
gue r eloquenza, riesce meglio a manifestare
tutto intero il suo pensiero ; poiché l' espres-
sione che adopera corrisponde assai meglio ad
esso, che non le forme dei classici antichi, le
quali non potevano adattarsi al mutato pen-
siero di quei giorni. « Io dirò — scrive lo Za-
nella — che in Ferreto mi pare l' artificio mag-
giore, più copioso lo stile, il periodo più ro-
tondo; ma la lettura del Mussato più mi di-
letta, perchè dipinge le cose del suo tempo con
più colore di verità, come quegli che non si
briga di raffazzonarle e vestirle all' antica : per-
chè corre più spedito e disinvolto : in una pa-
rola, perchè più si accosta all'aureo candore
de' nostri cronisti del trecento. In quel semi-
barbaro latino scopri il germe di molti fiori di
dire itahani, vi senti come l'aria di un nuovo
giorno che si avvicina ; mentre in Ferreto ti
affanna lo stento, come d'uomo che con an-
CAPITOLO SETTIMO 259
tiche mine s'ingegna costruire un edilizio mo-
derno» ^).
Il Donniges, nel suo dotto lavoro, mette fuo-
ri di dubbio, che il Ferreto, per ciò che ri-
guarda i fatti di Enrico VII, abbia, nella sua
storia, copiato il Mussato. Ciò è vero in parte.
Ma come si spiega la dichiarazione che fa lo
storico vicentino di non aver mai veduto la
Storia del Padovano? Ch'egli eviti diligente-
mente che il lettore possa scoprire il suo pla-
gio, come vorrebbe il Donniges^ non si può
ammettere, poiché nella prefazione parla già
della Storia Augusta, e nel principio del quar-
to libro nota come, per avere il Mussato scritto
con molta larghezza di Enrico VII, della sua
origine e della sua elezione, egli ne parlerà
brevemente ~). Soggiunge tuttavia eh' egli non
ebbe dinanzi agli occhi il lavoro del Pado-
1) Di Ferreto de' Ferrei i storico e poeta vicentino.
— Memoria pubblicata nel volume di Scritti varii. —
Firenze, Successori Le Monnier 1877.
~) Secl de Iiis, quoniam a Patavino poeta et histo-
rico Albertino Muxalo diffuse conscriptum est^ com-
pendiose tractabimus ; potuit enim ille, prò patria sua
legatus ad Ccesareni, omnia sui generis priniordia,
quce nos lalenf, ad unguem perscrutari et ea mani-
feste disserere.
260 ALBERTINO MUSSATO
vano ^). E in tal caso come poteva sapere che
questo avea scritto diffusamente di Enrico e
della sua stripe ? Non altrimenti, senza dubbia,
che per fama, come attesta lo stesso vicenti-
no, la quale invero esagerava, perciocché le no-
tizie che dà il Ferreto su Enrico non sono meno
diffuse di quelle del Mussato. Non si può ne-
gare tuttavia che il Ferreto, in alcuna parte
della sua Storia, non copii liberamente il Mus-
sato, come ad esempio nella descrizione dell' as-
sedio di Brescia. E in qual maniera potremo
noi spiegare i suoi plagi, quando ammettiamo
che egli non conoscesse la Storia Augusta?
L' unica spiegazione, come osserva il Friedens-
burg, ci vien data dal supporre che il Ferreto
conoscesse a tratti la Storia Augusta "). Del re-
1) Scripsit itaque, primum ab origine hnjus exor-
dium sui laboris assumerti, non quod oculis nostris
editum, sed fama velut diclat, accepiinus: Lucenibur-
(ji oppiduni est Francorwìi fines ab Germanis diri-
mens ecc.
2) Scrive il Ferreto: Albertinus Mussatus sui
temporis gesta ìuemoratu digna conscripsit
forte et alti in eadem materia versati fuere, quorum
opus nondum palam est editum [tanta eventuum die-
tim accidit multiludo). Nam iìnperfecta vulgo expli-
care non decet, sed hic famte avidus vix incceplum
opus ìnuUis non tamen edidit sed ostendit.
Ammesso — scrive Friedensburij — che più tardi
CAPITOLO SETTIMO 261
sto, oltre il settimo libro, non si trova nel Fer-
reto traccia di plagio ; né pare che abbia co-
nosciuti nemmeno i primi due libri della Sto-
ria Augusta. Con tale spiegazione è giustifica-
to il passo del quarto libro della sua Storia,
sul quale il Dònniges fonda il suo rimprovero.
Tuttavia il Ferreto — nota il Friedensburg —
non dice quello che gli fa dire il Dònniges,
che, cioè, r opera del Mussato gli era ignota ;
egli sostiene soltanto di non essere informato
del principio dell' opera che per fama.
Inferiore, per molti riguardi, alla Storia Au-
gusta, la quale forma la principal gloria di
Albertino come storico^ è l'altra che s'intito-
la : De Gestis Italicorum post Henricum Cce-
sarem. Questa storia, la quale è una conti-
nuazione della prima, si divide in dodici libri.
Lo scrittore si prefigge, in • essa, di narrare
tutti gli avvenimenti d" Italia ; ma, non ostan-
te la sua buona volontà per riuscire nell'in-
tento, arrivato a un certo punto, vien meno
all'impresa, e si hmita a narrare le cose di
Padova.
la Storia Angusta sia stata formalmente pubblicata, le
parole di Ferreto inducono la supposizione, eli' egli pure
appartenesse a que' molti, ai quali l'Autore faceva co-
noscere a tratti la sua opera.
2G2 ALBERTINO MUSSATO
Nei primi sette libri, infatti, che vanno dal-
l' agosto 1313 al principio del 1316, il Mus-
sato, benché dia la parte principale alla sto-
ria della sua città, non dimentica gli avveni-
menti degli altri luoghi d' Italia, come, ad esem-
pio, le rivoluzioni di Roma, di Brescia, di Mi-
lano, di Napoli, di Sicilia, di Toscana, nota il
prevalere or dell' uno or dell' altro partito, né
passa sotto silenzio le discordie dell' Impero per
r elezione dell' Imperatore dopo la morte di Ar-
rigo; ma col libro ottavo si occupa esclusiva-
mente dei fatti di Padova, i quali, per vero,
erano tali da meritare tutta la sua attenzione.
La guerra contro Cane è il soggetto degli ul-
timi cinque libri. Dapprima l' occupazione di
Monselice, di poi l' assedio di Padova^ finalmen-
te le guerre civili e la sommissione della città
allo Scaligero per consiglio del Carrarese. Ma
la narrazione di questi fatti è, pur troppo, qua
e là interrotta da grandi lacune. Dopo il setti-
mo libro ve n' è una di circa due anni ; il libro
ottavo, che narra l' occupazione di Monselice,
non è che un frammento, dopo il quale e' è
un altro vuoto di circa tre anni. I libri nono,
decimo e undecime sono scritti in versi e nar-
rano l'assedio di Padova del 1320; a questi
segue una lacuna di più anni, e la storia non
CAPITOLO SETTIMO 263
viene ripigliata che al 1325 per essere con-
dotta sino alla primavera del 1329.
Per qual ragione il Mussato abbia scritto i
i tre libri nono, decimo e undecime in versi
eroici, lo dice egli stesso in un prologo in pro-
sa^ premesso al nono libro e indirizzato alla So-
cietà Palatina dei notai di Padova. Egli affer-
ma esservi stato indotto, con importuna istan-
za, dalla società stessa, affinchè quei libri po-
tessero essere letti dai notai e dai chiericuzzi,
mentre gli altri avrebbero servito ai più dotti.
E strano che i versi latini paressero più fa-
cili a intendersi della prosa ; eppure è cosi !
Non sembra del resto che il Mussato fosse mol-
to persuaso dell'opportunità di verseggiare la
storia ; ma, a quanto scrive egli stesso nei
primi versi del libro decimo, la Società sullo-
data avrebbe voluto che deponesse la corona
poetica e restituisse i beni che gli erano stati
donati, se ricusava di celebrare in versi gli
eroi padovani. «E che debbo fare?» soggiun-
ge il poeta: Quid per plexus agam?
L'importanza storica di quei tre libri non
è molto grande ; una maggiore, secondo il Lo-
renz, se ne trova nelle Cronache dei Cortusii.
Sennonché il Mussato si diiferenzia dagli altri
numerosi storici in esametri di quel tempo pel
2G4 ALBERTINO MUSSATO
fatto, eh* egli ci dà nei versi la continuazione
della sua storia ; mentre quelli non fanno che
riprodurre semplicemente in versi le cose già
raccontate in prosa da altri.
Nei libri IX e X narra il poeta le opere
e gli atti eroici dei Padovani per difendere la
città da Cangrande, nonché le privazioni e i
patimenti che dovettero soffrire durante l'as-
sedio: nel libro XI Santa Giustina, mossa a
compassione de' suoi protetti, accompagnata dal
coro delle Vergini, si presenta al trono di Cri-
sto, ed implora soccorso in favore dei Pado-
vani:
Pone manum pharetrse, et saltem quacumque sagitta
Fige Canem, victumque mea fac cedere terra.
Sorride il Figliuolo di Dio alla santa fan-
ciulla, le asciuga con la palma gli occhi ba-
gnati di pianto, e le pone una mano sul capo.
Non è, le risponde, ch'io mi sia dimenticato
di venire in soccorso di Padova ; ma in que-
sta città per la lunga pace germogliò la su-
perbia, donde le ire, le invidie, le lussurie, le
usure, le stragi, gli odi intestini e tutta la
generazione dei mali che suol crescere in una
città malvagia. Per questo io V ho punita ; ma
poiché tu intercedi in suo favore. Cane sarà
vinto e la città avrà pace :
CAPITOLO SETTIMO 265
Saucius ecce Canis superatus Marte recedet,
Ut petis, Hsec hodie iam iam te supplice flent.
Pax erit, et ssevum vobis placabimus hostem.
Il Gennari ha tradotto in versi sciolti ita-
liani tutto intero il decimo libro di questa sto-
ria. Egli si è assoggettato alla diffìcile impre-
sa, non ostante qualche oscurità del poeta, «la
quale — son sue parole — ■ in parte è da attri-
buirsi alle manifeste scorrezioni del testo gua-
stato dall' ignoranza dei copiatori, in parte alla
barbaria del secolo nel quale visse l'Autore e
in parte finalmente a qualche segreta allusio-
ne, che difficilmente può intendersi» '). La pro-
va gli è riuscita felicemente, così da far la-
mentare che non abbia tradotto gli altri due
libri, che comprendono il principio e la fine del-
l' assedio, traduzione che il valente uomo ave-
va in animo di fare, e che, non so per quali
ragioni, non fece.
Del libro duodecimo, che fu scritto dal Mus-
sato in esiglio, dicemmo nel capitolo antece-
dente, allorché tentammo difendere lo storico
dall' accusa di maldicenza, che gli fu data da
alcuni per aver giudicato severamente le azio-
ni di Marsilio, Qui ci basta ripetere, che se
1) Raccolta cf opuscoli filologici e scientifici.! omo
36. Venezia, Ocelli 1781.
266 ALBERTINO MUSSATO
pure lo storico ha esagerato a carico dei Car-
raresi e specialmente di Marsilio, va compa-
tito. Che r abbia fatto scientemente, non è nem-
meno da supporre. Lontano da Padova, egli
veniva informato di quanto in essa accadeva
da' suoi congiunti, i quali non erano per nulla
amici dei Carraresi. Egli riposava interamente
sulla loro buona fede, ed è naturale che cre-
desse a quanto di peggio essi gli riferivano
sui Carraresi e su Marsilio, il quale s' era mo-
strato così ingrato ed ingiusto verso di lui, da
dargli motivo di ritenerlo capace di qualunque
azione malvagia. La prova più evidente del-
l' onestà di Albertino sono le parole colle quali
risponde a Marsiho ; allorché questi si lagna
che, nella sua storia, lo chiami traditore ^).
Per rispondere a quel modo bisognava avere
la coscienza netta. Del resto quest' ultimo libro
della storia del Mussato va consultato con mol-
ta cautela ; cosa che noi, dal canto nostro, ab-
biamo tentato di fare.
Ma non è soltanto in esso che lo storico ci
si mostra piuttosto acre ; bensì in tutta la sto-
1) Non putet, aut vereatur Marsilius, se qiddquam,
nisi veruni suis inseruisse chirographis. Ada, ut fuere^
tradita esse posteritati, secundum quce laudes et pro-
tra judicabit, Mussato teste, non judice.
CAPITOLO SETTIMO 267
ria, nella quale gli sfoghi vivaci e le invetti-
tive sono abbastanza frequenti ; valga ad esem-
pio quella lunga e terribile contro la plebe di
Padova. Le amare delusioni che Albertino ebbe
a provare da' suoi stessi concittadini, il vedere
dileguate, colla morte dell' Imperatore^, tutte le
sue belle speranze, contribuirono ad eccitargli
lo sdegno, che prorompe tratto tratto in quasi
tutti i suoi scritti e specialmente nella storia
di cui parliamo, la verità della quale per altro,
fatta eccezione del libro duodecimo, non ne
viene menomamente a soffrire.
La morte di Enrico, inoltre, fu causa che
il Mussato, in questa sua storia, perdesse tosto
di vista i fatti generali d' Italia, per non oc-
cuparsi che dei particolari di Padova. Enrico
infatti è il personaggio intorno a cui nella Sto-
ria Augusta si raccolgono tutti gli avvenimen-
ti ; nel nuovo lavoro questo personaggio manca,
e lo storico si trova come imbarazzato a se-
guire tutti i fatti che accadono fuori della sua
Repubblica ; tanto più eh' essi non hanno al-
cun interesse per lui, ora che è spento quel-
r uomo, sulle sorti del quale potevano grande-
mente influire. Egli è per ciò che la sua sto-
ria, la quale vorrebbe essere generale d' Italia,
si muta, dopo i primi sette libri, in partico-
268 ALBERTINO MUSSATO
lare della Repubblica padovana. Quei sette li-
bri, secondo l'opinione molto probabile del Wy-
chgram, sarebbero stati scritti innanzi il 1319.
Pei primi cinque il critico desume ciò dalla
lettera di dedica al Vescovo Pagano della Tor-
re premessa al libro quinto. E poiché questi —
egli scrive — fu nominato patriarca di Aqui-
leia nel 1319, quei libri devono esser stati
scritti prima di quest' anno. Pel sesto libro, nel
quale si parla dei rapporti fra Cane e Pado-
va fino alla pace dell'ottobre 1314 e pel set-
timo, nel quale sono riassunte in generale le
cose italiche, si può fare la medesima suppo-
sizione, che, cioè, siano stati scritti prima del
1319 ').
Questa storia, malgrado tutti i difetti che
abbiamo notato, oltre che essere importantis-
sima per chi voglia conoscere le cose di Pado-
va in quel tempo, è degna di molta conside-
razione, perchè il Mussato usa in essa di una
maggiore libertà nel giudicare degli uomini e
delle cose, e modifica alquanto qualche giudi-
zio troppo favorevole che aveva dato nella sto-
ria antecedente su Arrigo VII e su alcuni fatti
di lui. L' Imperatore era morto, e lo storica
1) Pag. 62.
CAPITOLO SETTIMO 269
non era più vincolato da riguardi di sorta ver-
so il monarca.
Un terzo lavoro storico di grandissima im-
portanza, che il Mussato lasciò incompiuto, è
la Storia di Lodovico il Bavaro. Questa storia
egli scrisse in esigilo, negli ultimi anni della
sua vita, perciocché in essa parli dell'elezione
dell'antipapa Nicolò V, avvenuta nell'aprile del
1328, e dell'uccisione di Passarino de' Bona-
cossi, Signore di Mantova e Vicario imperiale,
per mano del Gonzaga, succeduta nell' agosto di
quell'anno medesimo. Non ostante che il Mus-
sato si trovasse allora in Chioggia, lontano
cioè dagli avvenimenti, potè avere notizie esat-
te di ciò che voleva narrare. Abbiamo di lui
due lettere in versi a Marsilio da Padova.
Nella prima lo rimprovera della sua incostan-
za negli studi ') ; nella seconda gli raccoman-
da, poiché era salito in tanta potenza presso
Lodovico, di ricordarsi di Padova sua patria
e di dargli notizia dei fatti che stavano per
accadere '). Marsilio, insieme con un altro ita-
1) Ad Magistrum Marsilium Pliysicum ejiis incon-
stantiam arguens. Epistola XII.
2) Unum, oro, dilecte mihi, si castra sequeris
Progressus, actusque notes, et fortia facta,
Quaì mandare meo possim distincta libello.
Ad Magistrum Marsilium Physicuin Paduaniim.
Epistola XVI.
270 ALBERTINO MUSSATO
liano, era fra coloro che avevano grandemente
cooperato alla risoluzione di Lodovico, che gli
si erano messi al fianco, e dei consigli dei
quali r Imperatore principalmente si giovava ^).
Non pare tuttavia che Marsilio abbia potuto
appagare il desiderio del suo concittadino ed
amico. Secondo il Labanca, la lettera di Mus-
sato a Marsilio sarebbe stata indirizzata pro-
babilmente a Monaco, siccome sembra dal;Con-
tenuto, e sarebbe partita, forse, l'anno 1326
da Chioggia. 11 Mussato mori, come vedemmo,
nell'anno 1329, ragione per cui la sua storia
è rimasta incompiuta ; Marsilio morì forse poco
prima, forse poco dopo del 1330 ^). Ciò non-
dimeno il Mussato ebbe mezzo di conoscere
esattamente i fatti che narra. Quel tratto di
storia che ha potuto scrivere, malgrado alcuni
lievi errori, è tenuto in gran conto. Il AVichert
1) In iis Italici duo erant, qui Ludovici procluctio-
ni operas viidtas, dedei^ant, ejusque lateri sese adjun-
xerant, quorum consiliis potissimum fruebatur, Mar-
silius de Raymundinis civis Paduanus, plebeius, Phi~
losophice gnarus et ore disertus, et Ubertimis de Ca-
sali Januensis monachus vir similiter astutus et in-
geniosus. Ludovicus Bavarus ad fllium.
2) Marsilio da Padova riformatore politico e reli-
gioso del secolo X[V. Padova, 1882.
Il Labanca nota con errore che il Mussato mori nel-
1' anno 1330.
CAPITOLO SETTIMO 271
lo ritiene una fonte importante, anzi la più
importante per la venuta a Roma di Lodovi-
co il Bavaro ^).
Il Mussato giudica severamente la condotta
dell' Imperatore contro la Chiesa ; né ciò fa
meraviglia, perciocché sincero cattolico, egli
non poteva, per nessuna ragione, approvare le
proteste dell' Imperatore, il quale, dopo essere
stato scomunicato per non essersi sottomesso
all' assòluta obbedienza della Sede Apostolica,
aveva dichiarato il Papa «nemico della pace»
ed avea fatto eleggere un antipapa ^). Lo sto-
rico gli nega perfino il titolo d' Imperatore,
poiché r avea demeritato ■ — son sue parole — ■
per la nera perfidia e per la ribellione spinta
tant' oltre contro la Chiesa. Non dee nemme-
no far meraviglia che il Mussato, il quale si
mostra, nella sua Storia, così nemico al Ba-
varo, ne parli invece con entusiasmo nella se-
conda lettera a Marsilio. Egli allora credeva
che Lodovico sarebbe venuto in Italia, colla
stessa intenzione con la quale era venuto Ar-
rigo VII, quella cioè di comporre i partiti. I
fatti lo disingannarono, ed egli condannò quel-
1) Forschungen zur deutschen Geschichte Bd. XVI.
-) Lcabanca. Op. cit.
272 ALBERTINO MUSSATO
la venuta, che prima aveva mostrato deside-
rare. In questo modo parmi spiegata l'appa-
rente contraddizione del Mussato ; né si creda
che la sua maniera di pensare nuoccia alla
imparzialità della sua storia ; perciocché, non
ostante che egli si dichiari nemico al Bavaro,
ne riconosce tutte le doti cavalleresche.
Questa storia é dedicata al figlio, ed è pre-
ceduta da alcune parole molto severe, colle qua-
li il Mussato ci fa conoscere la mala condotta
di lui. Toccando degli ultimi anni di Alberti-
no, dicemmo qualche cosa di questo figlio, che
contribuì a rendere più doloroso l' esigilo del
padre, ed abbiamo riprodotto parte del gravis-
simo lagno che l'infelice genitore muove sul
suo conto nell'introduzione alla Storia di Lo-
dovico il Bavaro. Pare che il Mussato stesse
scrivendo un libro De Bttdìmentis a vantag-
gio del tiglio, allorché il variare delle cose del
mondo, il mutamento avvenuto nello stato della
sua città e la depravazione, quale egli non
avrebbe mai creduta nei costumi del figho ^),
1) Difatti nel Centone Ovidiano, che non dev' essere
stato scritto gran tempo innanzi la Storia del Bavaro,
il Mussato fa elogi grandissimi del figlio, e si ripromet-
te che abbia a seguire le orme del padre ed imitarne
i costumi.
CAPITOLO SETTIMO 273
lo distolsero dal suo proposito, che sarebbe tor-
nato inutile, e gli fecero interrompere la se-
rie dei Rudimenti per scrivere la storia del
Bavaro ^). Egli stesso ci avverte come questa
storia si aggiunga al suo libro De Rudimeniis
ad filili m ^).
Dalla biografia del Mussato scritta dal Po-
lentone, quale si trova nel codice Ricciardia-
no, veniamo a sapere, come fra gli scritti in
prosa di Albertino, a noi sventuratamente non
pervenuti, ci sia un libro De natura et mori-
bus suis, del quale è a rimpiangersi grande-
mente la perdita, poiché, secondo il Novati, sa-
rebbe stato « una vera autobiografìa , dalla
quale Secco che la conobbe, attinse certamente
le più importanti notizie sulla vita di Alber-
tino » . Oltre a ciò il Secco nella medesima bio-
grafia del Mussato, cita come fonte delle sue
informazioni un libro Ad Filiuni. Questo libro,
secondo il Novati, sarebbe una cosa sola con
quello De natura et moribus suis e con l' altro
1) Et rerum viundanarum variatio, filii, et Urbis
7iostrce status immutatìo ; nec non et morum tuorum
vix unquam mihi eredita depravatio, 7ios a Rudimen-
torwn tuorwn serie, et proposito inanis utilitatis ab-
duxit.
2) Addantur lice hislorice libro meo de Rudimentis
ad filium.
13
274 ALBERTINO MUSSATO
De BucUmentis ad Filium, del quale la Sto-
ria di Lodovico il Bavaro non sarebbe che un
frammento. Comunque sia, del resto, la cosa,
fa meraviglia grandissima che un padre, per
quanto sdegnato, rimproveri così apertamente
il proprio figlio in uno scritto eh' egli intende
tramandare alla posterità. Egli è come innal-
zare alla memoria di questo figlio un perpe-
tuo monumento d' infamia. Non è possibile am-
mettere che quelle parole sieno state scritte non
pei lettori della storia, ma soltanto pel figlio,
e che quindi non dovessero far parte del libro.
Esse sono scritte in modo da non lasciar dub-
bio sulla intenzione del padre, il quale dichia-
ra che non avrebbe potuto tacere ^). Non ci
resta che supporre : le mancanze del figlio es-
sere state cosi gravi da vincere affato la tol-
leranza del padre, il quale, per le sventure
toccategli e per la condizione in cui si trovava,
era divenuto facilmente irritabile, e sentiva tal-
volta prepotente il bisogno di sfogare l' ani-
mo esarcerbato.
Tra gli scritti in prosa del Nostro, che a
1) Pigeat ergo hoc ipsiim tantum de te super dicen-
doruui prcvmisisse sermonem, quem subtiouisse inco-
ercibilis nostri cordis efflagitatio non permisit. Ludo-
vicus Bavarns ad fllium.
CAPITOLO SETTIMO 275
noi non pervennero, oltre ai citati dobbiamo ri-
cordare un libro, che il Mussato avrebbe scritto
negli anni del suo esigilo, e del quale egli stes-
so fa menzione nel principio del libro decimo-
secondo De Gesiis ^). Secondo lo Scardeone
sarebbe stato in forma di dialoghi '). In esso
il Mussato avrebbe cercato di dimostrare —
cosi ci fa sapere egli stesso — che «le uma-
ne vicende non soggette ad alcuna necessità
dipendono dalla virtù o dal consiglio degli uo-
mini, ai quali concesse Iddio nel crearli un li-
bero arbitrio ad oprare, quantunque affievolito
questo e turbato dalla prevaricazione de' primi
progenitori» ^).
Il Secco, nella citata biografia secondo il
codice Ricciardiano, ricorda anch' egli questo
scritto, e lo chiama semplicemente De Natura
et Fortuna. E probabile del resto che tutti
quelli che ne parlano, compréso lo Scardeone,
il quale sa dirci perfino che il Mussato invei-
va in esso contro i Carraresi, ne abbiano at-
i] De ordine Causarum Fatorumque serale in opere
nostro de Lite Natura et Fortume tractavimus, qua-
tenus materia illa suppetiit.
2; Scripsit elegantes dialogos de lite inter Naturam
et Fortnnam.
3) Colle, Meni, cit.
276 ALBERTINO MUSSATO
tinta semplicemente la notizia dall' ultimo libro
delle Cose Italiche. Un altro scritto in prosa
del Mussato, non pervenuto a noi, che il Sec-
co ricorda nella sua biografia del grande Pa-
dovano, è un trattato De Casibus fortuitis, il
quale è pure ricordato dallo Scardeone ^). Se-
condo costui, il Mussato avrebbe scritto inol-
tre una storia della tirannide di Ezzelino ; ma
di tale storia non fa menzione nessun altro
dei biografi del Nostro. Una cronaca di Ez-
zelino scrisse invece il grammatico Rolandino,
ed è verisimile, nota il Vossio, che lo Scar-
deone, abbattendosi in un codice senza nome
di autore, sia stato tratto in errore dalla si-
militudine dello stile, e l'abbia creduta opera
del Mussato ').
Considerato fin qui il prosatore, passiamo
a considerare il poeta.
1) Scripsit centra fortuitos casus.
2) De historicis latinis.
Capitolo Ottavo.
Le poesie minori.
Oltre alla tragedia , della quale ci occupe-
remo particolarmente, il Mussato scrisse buon
numero di poesie minori, come epistole, elegie,
soliloqui religiosi ed egloghe. Le epistole e
le elegie hanno per noi un' importanza specia-
le, poiché in esse il poeta ci dà molte notizie
intorno alla sua vita, e ci fa sapere con quali
illustri personaggi del suo tempo avesse ami-
cizia.
L'amore alla poesia si manifestò in lui, co-
me avverte il Secco, fin dall'età più tenerella.
È assai probabile che suo maestro nel poetare
sia stato il Levato, intorno al quale sono scarse
ed incerte le notizie. La j^iù parte di coloro
che ne parlano ripete il giudizio che ha dato di
lui il Petrarca, il quale dice che sarebbe stato
di leggeri il primo di tutti i poeti del suo se-
colo e dell'anteriore, se non si fosse dato allo
278 ALBERTINO MUSSATO
studio del diritto civile e non avesse mesco-
late insieme le dodici Tavole colle nove Muse ^).
Nulla di lui ci è pervenuto, se si eccettui, co-
me vogliono alcuni, T iscrizione posta sul suo
sepolcro e quella sulla pretesa tomba d'Ante-
nore, che fu scoperta in Padova al suo tem-
po. Né l'una né l'altra di quelle iscrizioni ci
fanno del resto concepire una grande idea di
chi le scrisse; non ostante che il merito del
Lovato, se prestiamo fede al Petrarca, fosse
tanto grande, che il suo nome suonava cele-
bre non solo in Padova, ma per tutta l'Ita-
lia '). Cotanta rinomanza gli avrà forse pro-
curato il poema, a noi non pervenuto : De
conditionibus urbis Padim et peste Guelfi et
Gibolengi nominis, ch'egli aveva indirizzato al
suo nipote Rolando da Piazzola ^). Il Mussato
fa parola del Lovato, ne' suoi scritti, una volta
1) Lupatus patavinus fuit nv.per poetar um omnium,
quos tiostra vel patrum nostrorum vidit ceias, facillime
princeps: nisi juris civilis sludium amplexus esset et
novem Musis duodecim Tabulas immiscuisset. Lib. II.
De rebus memorandis.
2) Cuius nomen ea tempestate, non Patavii tantum
erat celebre, sed eliam per totam Italiam insigni glo-
ria ferebatur. Ibid.
3) li poema era contenuto nella Cronaca posseduta
dai fratelli Nicolò ed Antonio degli Ovetari. Una copia
ne possedeva Gianfrancesco Capodilista, com'egli asserì-
CAPITOLO OTTAVO 279
soltanto, ricordando alcuni discorsi che avea
tenuto con esso lui intorno alla condizione di
Padova ^). Chi ci fa meglio conoscere i rap-
porti dell'uno coll'altro, specialmente per ciò che
riguarda la poesia, è Giovanni del Virgilio, il
quale in un' egloga latina ad Albertino Mus-
sato dice che: « Alfesibeo, cinto il capo di ver-
deggiante fronda canta con zampogna d'oro,
cui gli diede morendo Licida in pegno d'amore,
dicendo : poiché ti mostri atto alle Muse, sarai
Musactus; Tollera ti cingerà la fronte» ^).
Com'è facile capire, Alfesibeo è il Mussato, e
Licida il suo maestro Levato ^).
Giovanni del Virgilio, oltre che di Mussato,
sce nella Cronaca della sua famiglia scritta nell'an-
no 1434.
Queste notizie io devo alla gentilezza squisita del pro-
fessore Andrea Gloria.
1) Memmerinque ego Lovatwn valem, Rolandum-
que nepofem, cium siepe in diversoriis cum sodalibus
obversaremur inquientes etc. Lib. IL De Gestis Ital. ecc.
2ì Auratis qui fronde vlrens quoque cantat avenis^
Quas illi moriens Lycldas in pignus amoris
Dimisit dicens: quia Musis cerneris aptus
His Musactus eris : hederse tua tempora lambent.
Ecloga Magìstri lohannis de 'Virgilio de Ccesana
missa Domino Mussato de Padua poetie ad pelitionem
Rainaldi de Cinciis. Catalogus codicum latinorum Bi-
bliothecce Medicece Laurentianoe. Tomus II, Floren-
tiae, 1775.
3) Dal greco lycos lupo.
280 ALBERTINO MUSSATO
fu ammiratore ed amico di Dante. Abbiamo di
lui un' epistola e un' egloga al divino Poeta.
Nella prima gli muove dolce rimprovero, per-
chè cantando dei regni d'oltretomba non usa
della lingua dei dotti, e getta al volgo i suoi
sublimi pensieri. « Non gettare, gli scrive, le
margherite ai porci, né coprire di veste inde-
gna le sorelle Castalie.... Sono molti gli argo-
menti che domandano di essere illustrati dalla
tua poesia », e fra gli altri gli addita « le fri-
gie caprette lacerate dal dente dei mastini » ^),
le quali caprette non sono altro che i Pado-
vani caduti in potere degli Scaligeri. Finisce
col pregarlo di degnarsi a rispondergli e di ap-
pagare i suoi voti: Dante gli avea dato spe-
ranza di recarsi a Bologna".
L'Ahghieri gli risponde con un' egloga la-
tina, nella quale si scusa di non poter adem-
piere la promessa di recarsi a Bologna, per
esservi incoronato poeta; «meglio assai se po-
trà, ritornando in riva all' Arno, cingere colà
della fronda poetica i suoi Ccipelli fatti già
bianchi... Quell'onore gli sarà grato, allorché
1) Nec raargaritas profliga prodigus apris,
Nec preme Castalias indigna veste sorores . . .
Et jam multa tuis lucem narratibus orant . . .
Die Phrigias damas, laceratas dente molosso.
CAPITOLO OTTAVO 281
avrà compiuto anche il Paradiso » ^). É d'accordo
con Giovanni sulla inferiorità dei versi volgari
rispetto ai latini, pure gli promette di mandar-
gli ancora di quelli. Giovanni, nella seconda
egloga, si congratula con lui di aver scritto
in latino con versi cosi dolci che, da lungo
tempo, l'Arcadia non aveva inteso gli eguali;
lo compiange, perchè esule dalla patria, che
gli si mostrò cotanto ingrata, e lo conforta a
sperare nel ritorno; frattanto, per fuggire la
noia, potrebbe recarsi a Bologna, affine di ri-
posare e di cantare con lui -). Sarà accolto cor-
dialmente; giovani e vecchi hanno desiderio di
ascoltare i suoi versi e di ammirare la sua
dottrina. Colà potrà spegnere la sete nelle ac-
que del padovano Mussato, egli uso a bere nel
fiume avito ^).
Quest'ultime parole racchiudono un grande
1) Nonne triumphales melius pexare capillos,
Et patrio redeam si quando, abscondere canos
Fronde sub incerta solitum flaveseere Sarno? . .
. . . quuin mundi circumflua corpora cantu
Astricoleeque meo, velut infera regna, patebunt,
Devincire caput hedera lauroque juvabit.
2) Ast intermedium pariat ne tsedia tempus,
Letitise spoetare potes, quibus otior antris
Et mecum pausare; simui cantabimus ambo,
3) . . . sitim Phrigio Musone levabo:
Scilicet hoc nescis, fluvio potator avito.
282 ALBERTINO MUSSATO
elogio pel Mussato, cui il del Virgilio teneva in
conto del primo poeta latino del suo tempo, e
im rimprovero per Dante, rimprovero che lo
stesso Mussato avrebbe voluto meritare, se
avesse potuto prevedere qual gloria era serbata
all'Alighieri per aver scritto in volgare. Al
Mussato invece compete la gloria, che il Tira-
boschi attribuisce a Dante, di avere cioè richia-
mato, come meglio poteva, la poesia latina al-
l'antica eleganza ^). Dante non scrisse versi la-
tini che negli ultimi anni della sua vita, quando
il Mussato era già celebre pe' suoi. Giovanni
infatti indirizzò i suoi versi all'Alighieri, quando
questi si trovava in Ravenna. È curioso, del
resto, notare, che mentre i contemporanei del
Mussato salutarono in lui il restauratore della
latina eloquenza, il Petrarca, che, come vedem-
mo, fu cosi largo di lodi al Lovato, lo ricordi
appena, chiamandolo semplicemente: historicus
novarum reruui satis anxius inquisitor ^j. Ma
se il Petrarca mostrò di non riconoscere il me-
1) Scrive il Tiraboscln: «Dante Alighieri, che fu il
primo a sollevare la poesia italiana a quello splendore di
cui non avea fln allora goduto, fu il primo ancora che
si accingesse a richiamare, come meglio poteva, la poesia
latina all'antica eleganza». Storia della Leiteratura Ita-
liana, Libro III. Gapo III.
2) De rebus memorandis, Lib. IV.
CAPITOLO OTTAVO 283
rito del Mussato, lo riconobbero altri del suo
tempo, fra i quali Coluccio Salutati, che, in al-
cune sue lettere, ne fa elogi grandissimi e lo
chiama il primo cultore dell'eloquenza ').
Uno degli argomenti più forti, coi quali il
del Virgilio, nella seconda sua egloga, spera
d'indurre l'Alighieri a recarsi a Bologna, è,
come vedemmo, la promessa di fargli leggere
le poesie del Mussato e, quantunque noi dica
espressamente, di fargli fare la conoscenza per-
sonale del celebre padovano; che, se si fosse
trattato di fargli leggere semplicemente le poe-
sie, non ci sarebbe stato bisogno d'invitarlo a
1) « Coluccio Salutati, scriveado nel 1399 al padovano
Francesco Zabarella, cosi incominciava: « Duos doctores
memini, qui stylo et eloquentia, hoc clecimoquarto sai-
culo floruerunt: unus scilicet compatriota ticus, Alber-
tus Mussatus, CKjus admiratur historias et habemus
poeniata: alter fuit' Gerius Aretinus ("cod. Amb. B 116,
e P 256); e anche più apertamente dava al Mussato il
vanto di aver fatto risor^^ere lo studio della latinità in
altra lettera pur inedita Cardinali Patavino (cod. Laur.
pi. XC 41(3) f IH* ] Et prinius eloqiientice ciUtor fuit
conterraneus tuus, Mussatus patavinus. Coluccio Salu-
tati trascrisse inoltre di propria mano VEccerinis e la
poesia latina Somniiim in cegritudine apud Fior, in un
codice delle tragedie di Seneca passato al Museo Britan-
nico». F, No vati - La biografia di Albertino Mussato ecc.
Archivio Storico per Trieste, Tlstria e il Trentino Voi. IL
Fase. I. Gennaio 1883.
284 ALBERTINO MUSSATO
Bologna ^). Non pare tuttavia che Dante ri-
manesse molto solleticato dalla promessa di Gio-
vanni, né che il suo desiderio di conoscere il
Mussato e di leggerne i versi fosse molto gran-
de, perciocché nell'egloga colla quale risponde
a quella dell'amico non fa nemmeno parola del
poeta padovano. Insiste nuovamente sul propo-
sito-di non muoversi da Ravenna, dimostra al-
l'amico il grande desiderio che ha di vederlo-
ma dice che n'è impedito dalle preghiere degli
amici e dalla paura delle armi di re Roberto;
l'incoronazione la conseguirci altrove. Anche
Guido Novello, il suo protettore ed amico, lo
sconsiglia dal recarsi a Bologna.
1) Noi sappiamo che il Mussato fu a Bologna come
ambasciatore nel 1317; ma questa data sarebbe ante-
riore di molto a quella nella quale il Balbo, il Fraticelli,
il Wegele pongono Tandata di Dante a Ravenna. (Non
parlo del Boccaccio clie la pone subito dopo la morte di
Arrigo VII). Essi infatti vanno d'accordo nel dire ch'egli
vi andò nel principio del 1320. Il Pelli e il Troya tutta-
via opinano che vi andasse nel 1319, ed altri ancora nel
1318. Queste ultime ipotesi mi paiono più probabiili, poi-
ché, se così fa, si potrebbe ammettere che il Mussato,,
spedito nel 1319 come ambasciatore in Toscana per ot-
tener soccorsi contro lo Scaligero, si soffermasse qualche
giorno anclie a Bologna. I cronisti noi dicono; ma è fa-
cile supporlo pei rapporti che Padova aveva con Bolo-
gna. Da ciò consegue che tanto ai versi di Giovanni
quanto a quelli di Dante dovrebbe assegnarsi l'anno 1319.
CAPITOLO OTTAVO 285
Da tutto questo parrebbe che Dante e Mus-
sato non si fossero mai conosciuti. Esiste tut-
tavia un documento, illustrato dal Gloria, dal
quale risulta che il grande poeta fiorentino fu
in Padova per alcun tempo nell'anno 1306 ^).
Con molta probabilità, il Gloria ne fissa la di-
mora dai primi di marzo ai primi d'ottobre di
quell'anno. Mussato in quel tempo non s'era
per anco fatto conoscere co' suoi scritti storici
e poetici, ma già da parecchi anni sedeva nel
patrio Consiglio, al quale aveva potuto perve-
nire mercè la fama che s'era acquistata con la
sua dottrina ed eloquenza. Non sarebbe per-
tanto improbabile che i due poeti si fossero, in
quell'occasione, conosciuti; pure abbiamo ragione
di dubitarne pel fatto che né l'Alighieri ricorda
mai nelle sue opere il Mussato, né il Mussato
l'Alighieri. Ciò non ostante nell'egloga al Mus-
sato, da noi citata, Giovanni del Virgilio ri-
t) È questo lui contratto di mutuo in data 27 agosto
1306, nel quale, fra gli altri testimonii, è segnato: Dan-
tino q. AlUgeriis de florentia et mine stat paduce in
contrada sancii laiirentij.
Vedi lo scritto del Gloria: Sulla dimora di Dante
in Padova, inserito nel libro Dante e Padova, Wegele,
Dante" s Leben und Schriften e Adolfo Bartoli, Storia
della letteratura italiana Tomo V. Capitolo XI, Firenze,
Sansoni editore 1884.
286 ALBERTINO MUSSATO
corda al padovano il poeta fiorentino, che al-
lora dormiva sull'Adriaco lido, dove la pineta
distende le sacre sue ombre, e gli dà il vanto
di avere, pel primo dopo Virgilio, fatta rivivere
l'egloga ^). Era di grande conforto al del Vir-
gilio il pensiero che Dante negli ultimi anni
di sua vita avesse scritto in versi latini, ben-
ché, nello stesso tempo, questo pensiero gli fa-
cesse lamentare maggiormente la perdita del
grande poeta. Nei versi ch'egli scrisse per la
tomba dell'amico, dopo aver detto che aveva
cantato la Divina Commedia in volgare, sog-
giunge, come a conforto, che finalmente cantava
i pascoli colle pierie zampogno, quando l'invi-
diosa Atropo interruppe il giocondo lavoro ^).
Ma se il Mussato, com'è probabile, non ebbe
rapporto alcuno con l'Alighieri, ne conobbe al-
meno le opere ? Troviamo noi nessun indizio ne'
suoi scritti che ci faccia supporre aver egli co-
nosciuta la Divina Commedia?
1) Fistula non posthac nostris inflata poetis,
Donec ea mecura certaret Tytirus olim
Lydius Adriaco qui nunc in littore dormit,
Qua pineta sacras prjetexunt saltibus umbras.
2) Qui loca defunctis gladiis, regnumque gemellis
Distribuit laicis rethoricisque modis,
Pascua pieriis demum resonabat avenis :
Atropos heu ! Isetum livida rupit opus.
CAPITOLO OTTAVO 287
Tra le sue elegie ve n' ha una intitolata
il Sogno, nella quale il poeta narra la ma-
lattia avuta in Firenze, allorché vi fu spe-
dito a chiedere aiuto contro lo Scaligero, che,
dopo aver guasto il territorio di Padova, era
venuto ad accamparsi sotto le mura della
città. L'elegia contiene pure le lodi di Anto-
nio dell' Orso vescovo di Firenze, per le cure
del quale il Mussato ebbe a ricuperare la
salute ^). Narra il poeta come, giunto ad un
albergo presso Firenze, sia stato colpito da for-
tissima febbre accompagnata da un freddo tale,
che né il fuoco di una fornace atta a liquefare
i metalli, né le stesse acque sulfuree di Abano
avrebbero potuto scacciarlo. Trasportato in let-
tiga a Firenze, e sottoposto alla cura di due
valenti medici, uno de' quali Dino del Garbo,
cadde in una specie di letargo ed ebbe un so-
gno, in cui gli parve di essere trasformato in
colomba. Dopo avere spaziato liberamente nel-
l'alto, discende e gli viene desiderio di vedere
da qual parte escano le anime da questo mondo,
e i regni d'oltre tomba. Dapprima vede volare
rapidamente stormi di piccoli uccelli, anzi di
1) Somnium in cegritudine apucl Florentiam, et com-
mendano venerabilis patris D. Anlonii de Vrso epi-
scopi fiorentini, ci'jus beneficio liberatus fuit.
288 ALBERTINO MUSSATO
cicale, col mormorio che fanno le api, verso
la parte dove il sole si tuffa nel mare. « Entra
quindi a descrivere la porta dell'Inferno, Cer-
bero, Caronte con occhi di bragia, incensis ocu-
lis, che vedutolo solleva il remo a percuoterlo;
tocca di una pioggia che si riversa sonante
per l'aria senza stelle; osserva i diversi com-
partimenti delle pene che delinea con tratti di
vigore dantesco. Pone nel fondo più cupo i tra-
ditori della patria, poi viene al cospetto di
Plutone e di Proserpina. Stanno a* loro piedi
alcune schiere con armatura candida, il cui capo
tiene in mano la chiave che apre gli Elisi. Vi
entrano le anime che hanno lavate le macchie
del mondo: le musiche e le danze che vi si
fanno sono con grazia descritte dal poeta, che
spende quasi duecento versi nella narrazione di
tutto il sogno » . Ho riprodotto questo sunto
dallo Zanella, il quale osserva ; « Che sia stato
sogno fortuito? Che gli sia stato suggerito dalla
lettura di Dante? Che abbia voluto misurarsi
con altre armi e come per gioco, con quel sommo
del cui poema si parlava per tutta l'Italia? »
Le due ultime ipotesi mi paiono le più proba-
bili. Egli è certo, anzi tutto, che il divino
poema era noto a tutta la penisola, e che il
popolo ne ripeteva i versi. La storiella del fab-
CAPITOLO OTTAVO 289
bro ferraio che batteva suirincudine e insieme
cantava i versi di Dante, storpiandoli, e quella
dell'asinaio, che andava dietro all'asino cantan-
do il libro di Dante, e quando avea cantato un
pezzo, toccava la bestia e diceva arr?', vere o
no, sono una prova della popolarità che aveva
acquistata la Divina Commedia^ o dirò meglio
quella parte di essa che poteva essere divul-
gata. E ammesso pure col Balbo che per quei
versi cantati si debba intendere i sonetti e le
canzoni, non il poema *), a comprovare la po-
polarità di questo, basta la testimonianza di
Giovanni del Virgilio, il quale, nell'Epistola a
Dante, dice essere impossibile che il popolo
idiota raffiguri il profondo inferno e gli arcani
del cielo , ai quali arrivò appena Platone , e
che ciò non ostante l'istrione, che caccerebbe
Orazio dal mondo, gracida, pe' trivii, senza ca-
pirli, i versi della Divina Commedia ~). Ora
non è possibile supporre che il Mussato, per
quanto fosse nemico della poesia volgare, igno-
rasse affatto il poema di Dante, tanto più ch'egh
1) Non sono punto d'accordo col Balbo, il quale dice
che il poema « non era allora probabilmente conosciuto».
— Yita di Dante Libro Primo, Capo Decimoterzo.
2) Quse taraen in triviis nunquam digesta coaxat
Comicomus nebulo, qui Flaccuia pelleret orbe.
ly
290 ALBERTINO MUSSATO
stesso non sdegnò, come vedremo, di scrivere
versi volgari. E probabile, del resto, ch'egli non
abbia attinta menomamente l'idea del suo Sogno
dalla Divina Commedia; ma che quell'idea gli
sia stata suggerita dalle leggende dei visionarli
sui regni d'oltretomba e dal poema virgiliano,
leggende e poema che suggerirono, come fu di-
mostrato, allo stesso Dante, l'idea della sua
Divina Commedia ^). « Quel passaggio - osserva
lo Zanella - delle anime oltre i mari dell'occi-
dente, che è l'idea fondamentale del Purgatorio
dantesco, si trova nelle antichissime tradizioni
di tutti i popoli, che collocavano i regni della
morte, ove vedeano ogni giorno discendere e
spegnersi il padre della vita ».
Dicemmo che le epistole e le elegie del Mus-
sato hanno importanza grandissima per chi vo-
glia conoscere molti particolari della vita di lui
e gli illustri personaggi coi quali ebbe rapporti.
Diciotto sono le epistole, quali in versi elegiaci
e quali in esametri. Di alcune di esse, quelle
che manifestano più particolarmente i sentimenti
del poeta verso l'Imperatore, abbiamo fatto pa-
rola nel capitolo antecedente. Esse sono la I
indirizzata al Collegio degli artisti, nella quale
1) Vedi: Alessandro D'Ancona- I precursori di Dante.
CAPITOLO OTTAVO 291
il Mussato ci dà notizie della sua incoronazione;
la II in lode dell'Imperatore e la V a Giam-
Lono d'Andrea notaio, della quale abbiamo an-
che tentato di riassumere il concetto. L'Epi-
stola XVII è indirizzata a Paolo giudice di
Teolo, il quale aveva pregato il Mussato che
volesse rispondere a Benvenuto de' Campesani
di Vicenza contro un poema latino, che questi
aveva scritto in lode di Cangrande e in biasi-
mo dei Padovani, allorché lo Scaligero s'era
impadronito di Vicenza ^). Del poema di Ben-
venuto non rimangono che pochi versi conser-
vati nella Cronaca del Pagharini. Esso -se-
condo lo Zanella - esisteva nel secolo decimoset-
timo, quando da Marcantonio Romiti, giurecon-
sulto vicentino, donato a Lorenzo Pignoria di
Padova, andò deplorabilmente perduto ^).
L'epistola è riboccante di finissima ironia,
quale poteva pai tire dall'animo di un grande
patriota, che vedeva in Cane il nemico acer-
1) Ad Fauluni hidiceni de Tilulo rogantem, ut re-
sponderet Benvenuto de Campesanis de Yicentia adver-
sus opus metricum, pei- eum factum in laudein Domini
Canis Grandis et vituperium Paduanoìvan, cum ca-
pta fuit yicentia.
~) Di Ferve to de' Ferreti storico e poeta vicenlino.
Memoria pubblicata nel volume di Scritti varii, Firenze.
Le Mounier 1877.
292 ALBERTINO MUSSA.TO
rimo della patria sua e la causa principale
della prossima rovina di essa. Peccato che la
soverchia erudizione mitologica scemi qua e là
naturalezza e spontaneità al verso ! Non pare
tuttavia che i due poeti diventassero, per questo,
nemici, o se pure entrò fra loro discordia, ch'essa
durasse a lungo; perciocché qualche anno dopo,
essendo morto Benvenuto, il Ferreto scriveva
un' Epistola al Mussato, nella quale lo invitava
ad onorare, co' suoi versi, il sepolcro di quel-
l'egregio poeta,
Cui cognomen avis campus dedit, et bene nomen
Cum VENio, Patriaque fuit sat magniis in illa,
Qua retro pene flueus patavo delabitur ariinis.
« Permetterai, gli scrive, che marcisca in un
sepolcro indegno quel poeta che risplendette
chiarissimo per tutto il mondo ? E se tu neghi
di lodarlo, chi potrà lodarlo convenientemente?
Tu solo puoi dare fama eterna co' tuoi versi.
Forse, quando sarai morto, sarà concesso a te
pure eguale onore, e vi sarà chi osi degnamente
lodarti » ^].
Il Ferreto fu grande ammiratore ed amico
del Mussato, del quale fa, nella sua Storia,
elogi grandissimi. È probabile che il Vicentino
^) Ferretiis vicenlinus ad Massalum patavinum de
morte Benvenuti Campesani vicentini poelce.
CAPITOLO OTTAVO 293
abbia conosciuto il Padovano, quando questi fu
prigioniero in Vicenza nella casa di Gregorio
da Poiana, dopo la sconfitta del 1314. Il Fer-
rato, nato nel 1295, era più giovane del Mus-
sato di trentatrè anni. Ebbe a maestro di poe-
sia Benvenuto dei Campesani, donde forse la
sua grande ammirazione per lui; fu il primo
che in Italia studiasse la Divina Commedia
e ne facesse onorevole menzione ne' suoi scritti ;
benché dal titolo di eruditissimo uomo che dà
all'Alighieri « possiamo argomentare ch'egli ri-
sguardava quel poema non tanto come un lavoro
di immaginazione, quanto come un' opera di
profonda e varia dottrina, da cui si poteva at-
tingere senza tema di errare, ogni sorta di no-
tizie filosofiche e storiche » ^).
Come storico, al quale ufficio s'era dedicato
dopo aver atteso lungamente alla poesia, ap-
parisce piuttosto narratore vivace che interprete
accurato dei documenti. La verità, non ostante
ch'egli professi nel Proemio di voler essere
veridico in tutto e per tutto, né di lasciarsi se-
durre dall'amore o dall'odio, gli fa spesso di-
fetto, il che, coni' è naturale, scema autorità
alla sua storia, il testo della quale per giunta.
1) Zanella Mem. cit.
294 ALBERTINO MUSSATO
causa la mancanza di buoni codici, è scorrettis-
simo.
Il principale de' suoi lavori poetici è un poema
suir Orìgine della gente Scaligera. Avrebbe
inoltre composto un carme In morte di Dante,
che fatalmente non ci è pervenuto.
Celebre poeta di quel tempo è stato pure il
bassanese Castellano, autore di un poema la-
tino sulla pace fatta in Venezia tra Alessan-
dro III e Federico Barbarossa. Egli avrebbe
fatto i suoi studi e sarebbe vissuto a lungo in
Padova. Non è pertanto improbabile che abbia
avuto rapporti d'amicizia col Mussato, benché
faccia meraviglia - come osserva il Tiraboschi -
che il grande padovano non ne faccia mai
menzione.
Altro poeta, contemporaneo al Nostro e vis-
suto in Padova, fu Bonatino, del quale non si
ha nessuna notizia certa. Forse - come opina il
Tiraboschi - parla di lui il Petrarca in alcuni
suoi versi latini :
Saecula •Pergameum viderunt nostra Poetam,
Cui rigidos strinxit laurus Paduana capillos
Nomine reque bonum.
Delle Epistole XII e XVI a Marsilio da
Padova dicemmo nel capitolo antecedente, fa-
cendo parola della Storia di Lodovico il Ba-
CAPITOLO OTTAVO 295
varo. Dopo di queste meritano essere ricor-
date la III a Rolando da Piazzola per con-
ciliarsi con esso lui della pubblica contesa avu-
ta nel febbraio 1312, dopo che entrambi avea-
no fatto ritorno dall'ambasciata all' Imperatore
in Genova. Rolando, come sappiamo, eccitò il
popolo a ribellarsi all'Imperatore; mentre Mus-
sato cercò d' indurlo, benché inutilmente, a ri-
manere soggetto. Il fine di tutti e due era il
bene della Repubblica ; ma all' uno pareva po-
terlo meglio conseguire in una maniera , al-
l'altro in un'altra ').
L'Epistola I\" è indirizzata a Giovanni pro-
fessore di grammatica in Venezia '). In essa
1) Secondo alcune notizie comunicatemi dal Gloria e
che entreranno a far parte dell'opera ch'egli sta scri-
vendo : Monumenti intorno alla Università di Padova,
Rolando da Piazzoia sarebbe stato ascritto al collegio
dei giudici nel 1285; onde, ammesso che pel suo inge-
gno ^-bbia ottenuto questo onore appena raggiunta l'età
fissata, si può calcolare nato nel 1265, poiché nessuno
prima dei vent'anni poteva essere eletto a far parte del
Collegio dei giudici. Il Gloria oltre a ciò dimostra come
Rolando non sia mai stato professore, quale il vorreb-
bero, dietro l'autorità del Papadopoli {Hist. Gymn. pa-
tav.) e del Facciolati (Fasti Gymn. patav.), il Tirabo-
schi nella sua Storia della letteratura italiana e il
Colle in quella dello studio di Padova, e come non sia
l'autore dell'opera sui Feudi e di quella sui Re consa-
crati, a lui falsamente attribuite.
2) Ad loannemgrammaticaeprofessoreni docentem
Vene tu s.
296 ALBERTINO MUSSATO
il Mussato parla a lungo della sua incorona-
zione a poeta, e si profonde in elogi della poe-
sia: «Son privi di senno coloro ai quali è
in odio la poesia, che fu un tempo una secon-
da filosofìa *). Come l'alloro verdeggia sempre,
né perde mai foglia, cosi la poesia conserva
eterno il suo decoro : donde avviene che si cin-
gano di lauro le tempie dei poeti , perchè la
loro fama duri eterna')». Chi sia stato que-
sto Giovanni professore di grammatica non sap-
piamo. Il Tiraboschi lo ricorda nella sua Sto-
ria della letteratura italiana ^), ma non sa
darne alcuna notizia : « Esso è tra coloro de'
quali — cosi lo storico -sappiamo che furono pro-
fessori di grammatica e di rettorica nelle pub-
bliche scuole d'Italia; ma de' quali poco più
potremmo produrre che il solo nome, e credia-
nao più opportuno passarli sotto silenzio».
1) Hi ratione carent, quibu? est invisa Poesis,
Altera quas quondam Philosophia fuit.
Questo stesso concetto è ripetuto dal Mussato nel-
l'Epistola VII:
Gymnasiis olim studiis inventa Poesis,
Altera jampridem Philosophia fuit.
2) Utque viret Laurus semper, nec fronde caduca
Carpitur, aeternum sic habet illa decus.
Inde est, ut vatum cingantur tempora Lauro,
Pergat ad seternos ut sua fama dies.
3) Lib. III. Cap. IV.
CAPITOLO OTTAVO 297
Ma non solo questo Giovanni, al quale, ol-
tre l'Epistola IV, il Mussato scrive la XV,
bensì altri due sono i professori di gramma-
tica, a ciascuno dei quali il poeta indirizza una
sua epistola: Bonincontro Mantovano e Guiz-
zardo. Al primo scrive l' Epistola XIII ^) e al
secondo la XIV ^). In quella, composta senza
dubbio nell'esiglio, il poeta fa conoscere la sua
miserabile condizione, nella quale deve ringra-
ziar la fortuna se riceve talvolta qualche do-
no. Egli, avvezzo a mangiar lautamente, è co-
stretto ad appagarsi di poco cibo , e mentre
prima s'accontentava appena del vino euganeo,
deve bere acqua mescolata coli' aceto ; secchi
giacciono in piccolo spazio entro il suo corpo
i raggrinzati intestini ; le gradite occupazioni
d'un tempo cessarono ; l'ira sola gli è rimasta
a torturargli il cuore. Che la sua condizione
fosse veramente miserabile, é ch'egli avesse bi-
sogno dell'altrui soccorso veniamo a conoscere
eziandio dai versi, co' quali Matteo Piegaferro,
notaio vicentino, gli manda in dono una mi-
1) Ad Magistrwn Bonincontruìn Manluanum grarri'
ììiaticoe professorem.
2) Ad Magislrum Guizardum grammatica profes'
sorem, cum ab eo libitum Yirgilu sibi accommodatum,
repeteret.
298 ALBERTINO MUSSATO
sura di olio: «Perchè tu valga, gli scrive, a
sopportare i giorni ne' quali non ti è concesso
cibo migliore , e perchè i ruvidi erbaggi non
ti pungano la gola , ricevi questo lieve dono
del naio monte ; olio migliore di questo non
v'è in tutto il mondo ». Ed il Mussato ricono-
scente: «Mangiai l'erbe condite col tuo olio:
il suo sapore mi raddolcisce le labbra , come
l'affetto dell'offerente mi raddolcisce il cuore ;
ma se quello in breve svanisce dalla bocca, il
gustato affetto rimane nel cuore ^)».
Nell'Epistola XIV, il poeta domanda a mae-
stro Guizzardo che gli ritorni un Virgilio pre-
statogli. Questa Epistola deve esser stata scrit-
ta nel tempo in cui Albertino fu richiamato
in Padova da Iacopo da Carrara, dopoché ne
era fuggito insieme con Gualpertino e con al-
tri, per la pace fatta con Cangrande nel 1318,
^) Mattheus Plegaferro notarius vicentinus niisit
unum medrum olei Mussato cum his versibus:
Ut valeas tolerare dies, quibus ampia vetantur
Fercula, nec iMgidum guttura pungat olus,
Levia dona meo capias de monte Minervse,
Hsec Dea non toto dulcior orbe venit.
Mussalus respondil eidem his versibus:
Suxi Palladium tenera cum caule liquorem,
Leniit ora sapor, cor quoque dantis amor:
lUe sed exiguo momento cessit ab ipso
Ore sapor, cordi permanet esuj amor.
CAPITOLO OTTAVO 299
in forza della quale i fuorusciti, ch'erano ne-
mici al Mussato, furono ricevuti in patria e ri-
messi nei loro beni. Mi fanno creder ciò le
parole del poeta stesso. Egli dice infatti che
quel Virgilio gli fu compagno nell'esigiio, ed
ora ch'egli è ritornato in patria vuole che ri-
torni sicuro esso pure, e che gli sia compagno
come per lo innanzi ^).
L'Epistola VII è indirizzata a Giovanni da
Vigonza *) uomo di molta autorità per la sua
dottrina e per le dignità sostenute; nel 1319
fu mandato, con Mussato e con Ubertino da
■ Carrara, in Toscana, per domandar soccorso
contro lo Scaligero. Due Epistole oscene una
su Priapo e l'altra sulla moglie di Priapo ave-
va dedicato Albertino a Giovanni, il quale se
n'era mostrato offeso, ed aveva rimproverato
il poeta di tanta immoralità. Neil' Epistola VII
il Mussato, con versi onestissimi , gli chiede
scusa, e adduce a propria discolpa l' aver egli
cantato anche di cose sacre. Del resto si me-
1) Virgilius thalamo mecum versatus in uno,
Tempore quo Fatava pulsus ab urbe fui,,
Exul ad externas ultro se contuli t oras,
Exilii pcenas sustinuisse volens.
In patriam redii, redeat securus et ipse,
Et Comes, et civis sit, velut ante fuit.
2) In laudem poeticcB ad D. Ioannein de Yiguntia
simulantem se abhoì'ruisse seria Priapeice.
300 ALBERTINO MUSSATO
raviglia che Giovanni sia rimasto cosi scan-
dolezzato : « Io non ti persuasi, gli scrive , di
far quelle cose che ho immaginato, dalle quali,
quando non ti piacciano, puoi astenerti. Vo-
lesse il cielo che tu odiassi ciò che ricusi di
ascoltare I Oh , quanto spesso facciamo quelle
cose che a dirle ci vergogniamo I » '). Né l'una
né r altra delle due epistole oscene furono, a
quanto io sappia, mai pubblicate. Nell'edizio-
ne veneta curata dal Pignoria e dall'Oslo fu-
rono omesse per non offendere le caste orec-
chie -). Il Tiraboschi, secondo il quale il Mus-
sato oltre a queste due avrebbe scritto delle
altre poesie oscene, nota che si leggono in un
codice del secolo XV allora esistente presso il
Sig. D. Iacopo Morelli, e che hanno per ti-
ntolo Friapeia Musati Poetce Palavi e Cun-
neia Domini Musati ^).
L'Epistola X è scritta agli amici ch'erano-
1) Non ego quod finsi, non htec facienda probavi,
QuiB si non placeant, abstinuisse potes.
Oderis, o utinam, quse sic audire recusas !
Heu quam ssepe agimus, dicere qute puduit!
2) Epistolas cluas ad D. Ioannem de Yiguntia Pa-
tavinum, quarwn una Priapum expressit^ uxoreìn
J'riapi altera commentus est, consulto prceterinisùnus
in gratiam auriuni honeslarum.
3J Storia della letteratura italiana, Lib. III. Gap. III.
CAPITOLO OTTAVO 301
rimasti in città, mentr'egli avea preferito di
andar esule dalla Repubblica che già più non
esisteva ^). È chiaro che il poeta la compose
dopo la pace con Cangrande nel 1318. In quel-
l'occasione, per non essere esposto agli insulti
de' fuorusciti suoi nemici, che avevano ottenuto
il permesso di rimpatriare, egli andò, come di-
cemmo, esule volontario insieme col fratello
Gualpertino e con altri. Assai eloquente è la
espressione Repuhllca iam nulla, poiché si può
dire ch'essa in que' giorni già più non esi-
stesse. Ne rimaneva la forma ; ma anche que-
sta doveva tosto cessare. Difatti, negli ultimi
giorni di Luglio di quell'anno medesimo, Gia-
como da Carrara veniva eletto principe di Pa-
dova. «Poiché osai, scrive il poeta, assumere
imprese superiori alle mie forze, fui meritamen-
te colpito da caso acerbo. Insofferente caddi
sotto il fascio de' miei pesi. Confesso il mio
grave fallo, se tale, per avventura, può dirsi ;
quando non lo giustifichi l'amore della libertà
e l'ardente desiderio della giustizia ') » , e chia-
1) Ad socioì in Urbe eccistentes cicni Repuòlica
jani nulla exilium ipse sibi ascivisset.
2) 111 e ego, qui merito casu coiicussus acerbo
Qaod maiora meis assumere viribus ausim,
Impations onerum cecidi sub fasce meorum....
Confiteor grave forte nefas, nisi leniat illud
Libertatis amor, justique ignita cupido.
302 ALBERTINO MUSSATO
ma in testimonio tutta la gioventù pretoria, se
mai desiderio di lucro o di lode o di gloria
fallace abbia distratta la sua mente dal sen-
tiero del retto ^).
Delle altre Epistole sopra soggetti di poca
nessuna importanza, quella che merita essere
considerata di preferenza è la XVIII , poiché
ci dà un esempio delle questioni puerili ed in-
concludenti, intorno alle quali anche i migliori
di quell'età sprecavano talvolta tempo, inge-
gno e dottrina.
Un frate Giovannino da Mantova dell'ordine
dei predicatori aveva recitato nel giorno di Na-
tale un discorso in lode della Teologia. Per
meglio esaltare questo studio, egli aveva bia-
simato tutti gli altri, ad eccezione di quello
della poesia. Se ne lamentarono i dottori delle
altre scienze, ed il Mussato si prendea giuoco
di loro, dicendo che il frate non avea trovato
nulla a ridire sulla poesia , la quale doveva
esser considerata come parte della sacra teo-
logia. Venuto a sapere questa cosa per mezzo
di Paolo giudice di Teolo, il frate protestò che
solo per dimenticanza non aveva biasimato la
1) Testis adest nobis oninis Pretoria pubes
Si qusestus, si laudis amor, si gloria fallax
Divertere meam recti de tramite mentem.
CAPITOLO OTTAVO 303
poesia. Paolo riferi le parole del frate a Mus-
sato, e questi scrisse a Giovannino un'Epistola
in versi, nella quale, con nove argomenti, pren-
de a difendere la poesia e a dimostrare co-
m'essa debba considerarsi arte divina. Questa
Epistola non esiste in nessuna edizione delle
opere del Mussato, e, per dichiarazione degli
annotatori della edizione veneziana, nemmeno
nei manoscritti. La risposta del frate ci fa co-
noscere del resto gli argomenti addotti dal
Mussato, nonché alcuni dei versi dell'Epistola,
molti dei quali sono riprodotti, con leggere mO'
dificazioni, nell'Epistola IV e taluno anche nel-
l'Epistola VII. Frate Giovannino , nella sua
lunga lettera in prosa , ribatte , con certa fi-
nezza, ad uno ad uno, gli argomenti del Mus-
sato. La lettera comincia con quattro versi del
frate, dopo i quali egli dice aver pensato me-
glio di scrivere in prosa, per non parere di
fare oltraggio alla sacra teologia, obbligandosi
alle regole della poesia.
Ecco, in breve, gli argomenti del Mussato,
per dimostrare la poesia arte divina :
1. E divina quell'arte che da principio fu
detta teologia ; la poetica è tale,
2. È divina quell'arte che tratta degli Dei
e delle cose celesti ; la poetica è tale.
304 ALBERTINO MUSSATO
3. È divina quell'arte, i cultori della quale
si chiamano vati; i poeti son detti vati.
4. È divina quella scienza che proviene da
Dio; la poetica è tale.
5. E divina quella scienza che è degna
di somma ammirazione e che arreca diletto ;
tale è la poetica.
6. È divina quella scienza, della quale si
servi Mosè per lodare il Signore, allorché
trasse il suo popolo di schiavitù; tale è la
poetica.
7. Dee dirsi divina quell'arte che, nel suo
modo di procedere, va grandemente d'accordo
con la Sacra Scrittura ; tale è la poetica.
8. È divina quella scienza che vive di
eterno splendore ; tale è la poetica.
9. E divina quella scienza per mezzo della
quale fa svelata la fede cristiana ^) ; tale è la
poesia.
Il frate oppone:
1. La poetica fu detta dapprincipio teo-
logia, perchè i primi poeti, tra i quali Orfeo,
furono i primi filosofi, e trattarono in versi de-
gli Dei. Ma essi non cantarono il vero, bensì
il falso. Fecero Dei l'Oceano e Teti, chiama-
1) Allude ai Centoni di Omero e di Virgilio.
CAPITOLO OTTAVO 305
reno lo Stige giuramento degli Dei ; per ciò
non tramandarono la vera teologia, né possono
chiamarsi veri teologi.
2. Attribuirono divini onori agli uomini e
ai corpi celesti che sono cose create, il che è
sacrilegio.
3. I poeti, secondo i sacri dottori , sono
detti vati da vieo che significa legare, poiché
devono unire insieme i piedi ed i metri ; cosi
i filosofi a vi mentis y ma i sacerdoti ed i pro-
feti son detti vati non solo a vi mentis, ma a
vas et 3£5c, perchè sulle labbra e nel cuore
devono aver sempre Iddio.
4. La poesia non proviene da Dio, ma fu
inventata dagli uomini come le altre scienze.
Presso gli antichi intorno all'origine del mon-
do, al diluvio e a molti altri fatti, essa è con-
traria alla verità divina.
5. La poesia è degna di ammirazione, per-
chè fìnge cose meravigliose, delle quali si di-
lettano gli uomini , non perchè descriva cose
eccellenti, e perciò degne di essere ammirate.
Arreca diletto non per la verità che in sé con-
tenga, ma per le finzioni e per Tornamento
esteriore delle parole.
La scienza divina, per lo contrario, è am-
mirabile e soave soprattutto per la verità di-
20
206 ALBERTINO MUSSATO
vina che in se contiene, benché possa esser
tale anche per gli esterni ornamenti.
6. Mosè compose il suo cantico in versi,
perchè fosse cantato dai cori. Ma dato pure
che tutta la sacra teologia fosse ridotta in
versi, come alcuni tentarono di fare, non per
questo la poetica potrebbe dirsi divina.
Come né la scienza naturale, né qualsiasi al-
tra può dirsi Logica, benché usino dalla ma-
niera di dimostrazione che la Logica insegna ;
cosi qualunque scienza può essere esposta in
versi, senza che perciò possa chiamarsi poe-
tica.
7. La Divina Scrittura usa è vero delle
metafore come la poesia ; ma con questa dif-
ferenza, che la poesia ne usa per dilettare,
mentre la Sacra Scrittura vela con esse il rag-
gio della verità, perché questa venga ricercata
con più cura da coloro che ne sono degni , e
rimanga occulta agli indegni.
8. La poetica non ha eterno lustro, poi-
ché i primi poeti Orfeo, Museo, Lino vissero
lungo tempo dopo Mosè , mentre la teologia
data dal principio del mondo. I poeti inoltre
non venivano incoronati d'alloro per sé stessi,
ma perché rappresentavano coloro le cui gesta
poeticamente cantavano. La corona era circo-
CAPITOLO OTTAVO 307
lare a dimostrare che la poetica va in cerca
del vario, e s'allontana quanto più può dalla
verità che sta nel mezzo ; era poi di lauro,
che è verde ed odoroso al di fuori , ma nel-
r interno amaro; i suoi frutti sono amarissimi.
Cosi la poesia ha un certo ornamento di pa-
role all'esterno, ma al di dentro l'amarezza
della vanità.
9. I centoni di Virgilio e di Omero, come
osserva S. Gerolamo nella lettera a Paolino
premessa ai libri della Bibbia, sono fatti di
versi tolti all'uno e all'altro ed uniti insieme
a significare cose che quei poeti non intende-
vano. Se fosse altrimenti, dovremmo conside-
rare Virgilio cristiano senza Cristo, il che è
una contraddizione. Que' centoni adunque non
sono che dehrii, puerilità, simili ai giuochi dei
cantambanchi.
Non persuaso il Mussato delle ragioni del
frate, gli rispose con una lunga Epistola in
versi, che è appunto la XVIII. Ad essa pre-
mise una dichiarazione in prosa, nella quale,
come poi ne' versi, ma con maggiore ampiezza,
tenta mostrare l'insussistenza degli argomenti
addotti dal frate per combattere i suoi.
1. I primi poeti che trattarono di teologia
non cantarono soltanto "li Dei falsi. É chiaro
308 ALBERTINO MUSSATO
ch'essi cantarono il vero Dio, e con esso gli
altri che sapevano esser falsi. Quando dicevano
che rOceano è Dio e Teti Dea non facevano
né più né meno di quello che facciain noi, quando
diciamo che nell'acqua del battesimo e nell'olio
della cresima v'é Dio. Né dicevano che Stige
è Dio ; ma giuravano per Stige, come noi che
giurando diciamo: Possa io andare all' inferno
se non farò la tal cosa.
2. Chiamavano, è vero, Dei gli uomini buoni
ch'erano premorti ed anche i corpi celesti ; noi
invece chiamiamo Santi, non Dei, coloro che
crediamo partecipi di Dio.
3. E un' etimologia a capriccio quella per
la quale vuoisi chiamare vati quasi vasa Del
ì sacerdoti e i profeti piuttosto che i poeti; la
Sacra Scrittura chiama vati quasi vasa Dei
tutti gli inspirati e quelli che predicono il fu-
turo, come le Pitonesse e le Sibille.
4. Se i primi poeti tìlosoh e teologi non
concordano colle Sacre Scritture, non è mera-
viglia. Prima di Cristo nemmeno gli altri filo-
soli furono illuminati. Quelli sostennero, é vero,
opinioni diverse intorno all'origine del mondo;
ma se qualcuno fra essi cadde in errore, come
ad esempio Ovidio, l'arte per questo non dee
giudicarsi reproba.
CAPITOLO OTTAVO 309
5. I poeti ricorrono sempre a mirabili fin-
zioni per coprire taluna verità, e come noi se
vogliamo significar Cristo in una parete, dipin-
giamo un agnello ; così essi fingono una figura
e ne intendono un' altra. Le loro favole non
sono che allegorie, con le quali alludono a cose
vere.
6. e 7. Come le altre scienze si dividono
in pratica e teoretica, cosi anche la poesia è
teoretica quando sotto il velo della favola copre
la verità, come le parabole di Cristo ; è pratica
quando altri narri in versi e per traslati ciò
che fu detto ed operato. Come teoretica la poe-
sia è divina, come pratica è pari alle altre
scienze artificiali.
8. Non consta che Orfeo, Museo e Lino
fossero i primi poeti ; ma è da ritenere che la
poetica sia antica quanto le altre scienze. È
poi fuori di proposito il dire che la poetica non
ha eterno lustro, mentre ciò è comprovato dal
consenso universale. Non è vero che i poeti
venissero coronati per coloro dei quali canta-
vano le lodi. Stazio fu coronato a Roma per
la Tebaide, ed altri ancora ebbero la corona
per le opere loro. Non è poi verisimile che i
grandi capitani, i quali ottenevano la corona
per le loro gesta gloriose, soffrissero che i poeti
310 ALBERTINO MUSSATO
che cantavano le loro lodi venissero per ciò
solo incoronati con egual pompa. Le parole sul-
l'amarezza del lauro e sulla forma circolare
della corona non hanno significato. Per la me-
desima ragione altri potrebbe dire le stesse cose
sulla tonsura di molti chierici, il che sarebbe
sconveniente.
9. Anche Isaia, Ezechiele, Daniele e gli
altri profeti potrebbero dirsi cristiani senza Cristo
come Virgilio, poiché al loro tempo Cristo non
era per anco venuto. E chi vorrà negar lode
a chi seppe unire cosi bene i versi di antichi
poeti, come Virgilio, Seneca, da farli suonare
quali profezie della venuta di Cristo?
Egli è certo che né gli argomenti primi del
Mussato per mostrare la poesia arte divina, né
le obbiezioni di frate Giovannino, né la replica
del Nostro hanno grande valore, — non vi man-
cano i sofismi, né le asserzioni gratuite, — pure
dimostrano nell'uno e nell'altro un'acutezza non
comune d'ingegno, la quale si rivela forse mag-
giore nel Mussato.
Le altre Epistole, che rimangono, trattano
argomenti di nessuna importanza, e poiché mi
sono soffermato a lungo su questa, la quale forse
non meritava vi si spendesse intorno tante pa-
role, mi terrò pago a citare di quelle sempli-
CAPITOLO OTTAVO 311
cernente i titoli. L'Epistola VI a Giovanni Su-
peranzio doge di Venezia tratta della scoperta
di un pesce avente sulla fronte una punta a
somiglianza di spada ^) ; la Vili, sopra l'appa-
rizione di una stella cometa, è indiritta a un
frate Benedetto dell' ordine dei predicatori -) ;
la IX è in risposta alla risposta dello stesso
frate ^) ; la XI è dedicata a frate Alberto de
Ramedello, il quale, per offrire al Mussato ma-
teria di scriver versi, gli avea mandato una
cagnolina che aveva sei dita con sei unghie
per ciascun piede "*) ; la XV finalmente è in
risposta a Giovanni professore di grammatica,
il quale gli aveva chiesto in versi come fosse
avvenuto, che un leone e una leonessa in Ve-
nezia avessero generato, e che la leonessa avesse
partorito vivi i feti, contrariamente a coloro
1) Ad D. Ducem Venetiarmn loannem Super antiuìn
de pisce invento habente in fronte gladiuni ad simili-
tudinem ensis.
2) Super ortu stellos cometce ad F. Benedictum le-
ctoreni fratrwn Prcedicatorum.
3) Responsio ad responsum ejusdem.
4) Ad fratrem Albertiim de Ramedello, qui sibi ca-
tulam unam miserai, ut prceberet ei materiam aliquid
jnelrice conscribendi.
Habel siquidem cattila senos digitos cwn senir; un-
gulis in unoquoque pede.
312 ALBERTINO MUSSATO
che dicono che sogliono nascer morti. Il poeta
mette sulla bocca ad Urania la risposta ^).
Tre sono le elegie del Mussato, che noi co*
nosciamo. Della prima abbiamo avuto occasione
di far parola nel principio del nostro lavoro.
In essa il poeta ci dà notizie intorno alla sua
nascita e alla sua prima giovinezza, notizie im-
portantissime, molte delle quali avremo cercato
invano nelle altre fonti.
Della seconda, intitolata il Sogno, abbiamo
esposto rintero concetto in questo stesso capi-
tolo. La terza è un centone ovidiano fatto con
versi tolti dai libri dei Tristi, e qua e là leg-
germente modificati. Il Centone, la più lunga
delle poesie minori del Nostro, è dedicato al
figlio, al quale il poeta dà saggi ed utili am-
maestramenti, che l'esperienza gli aveva sug-
gerito. Questa poesia merita di essere conside-
rata più che non abbiano fatto finora quelli
che hanno scritto intorno al Mussato e alle sue
opere. É probabile che il poeta l'abbia com-
posta nel 1318, dopo la pace con Cangrande,
1) Ad Ioannem grammaticce professorem cum quie-
sisset ab eo per tnetra^ qualiter contigerit, qiiod leo
et lea qu(je erant coniìnunis Veneliarum genuissent,
et peperisset lea vivos foetas cantra auctores loquenles,
quod mortui nasci solent, et introducilur Urania lo-
quens.
CAPITOLO OTTAVO 313
allorché dovette allontanarsi da Padova ^). Egli
mostra desiderio ardenti ssimo di rivedere il fi-
glio, dal quale è forzatamente lontano; tocca
di alcuni tra i fatti principali della sua vita,
e parla de' suoi scritti di maggiore importanza.
11 figlio era allora la consolazione del padre,
il quale afierma che era fornito di aurei co-
stumi, di felice ingegno e d'ogni bella dote ^).
Tuttavia lo consiglia di vivere a sé stesso, di
fuggire i grandi nomi, di guardarsi da coloro
che siedono in alto, poiché dall'alto cade il ful-
mine. Egli stesso che ora gli detta i consigli,
se fosse stato consigliato a tempo si troverebbe
^) Che Albertino scrivesse il Centone nelF esigilo lo
comprovano, fra gli altri, i versi nei quali fa voto che
il cielo conceda al Aglio suo di riposare tranquillo nella
sua casa e di vivere in patria, cosa ch'egli vorrebbe an-
che per sé, mentre è costretto andar vagando per terra
e per mare:
Dii libi dent nostri porta guadere Palati
Molliter, et patria vivere posse tua.
Ut mihi, sic tibi sit, quamvis terraque marique
Longinquo referam lassus ab orbe pedem.
L'augurio non s' è avverato. Poco tempo appresso,
Vitaliano fu mandato in esigilo, e per sua cagione anche
il padre andò esule a Chioggia.
2) Nani tibi cura fatis mores Natura pudicos,
Atque bonas dotes ingeniumque dedit.
314 ALBERTINO MUSSATO
in condizione migliore '). Sulla fine del Centone,
il poeta parla della festa, che veniva fatta ogni
anno in suo onore, il giorno di Natale. In tal
giorno pare ch'egli terminasse di scrivere il
Centone, e forse in quell' anno, per la prima
volta, fu sospesa la festa.
Benché il merito letterario di questo genere
di componimenti sia molto discutibile, pure nel
caso nostro non possiamo non ammirare il Mus-
sato, per Tartifizio col quale ha saputo unire
i versi del poeta latino a manifestare i suoi
concetti. Chi ne avesse vaghezza potrebbe, senza
difficoltà, confrontare i versi del Centone con
quelli dei Tristi. Nella edizione veneziana delle
opere del Nostro, accanto a ciascun verso del
Centone, sono notati in margine il numero del
libro e quello dell'elegia dei Tristi, dove si trova
il verso ovidiano corrispondente ').
Meno felici tra le poesie minori del Mussato
1) Vive tibi, et longe nomina magna fuge.
Vive tibi, quantumque potes praelustria vita,
Ssevum praelustri fulmen ab igne venit.
Hsec ego si monitor monitus prius ipse fuissem,
In qua, non ego sum, prosperitate forem.
2) Il Centone fu tradotto, non troppo felicemente, in
versi italiani da Niccola Mussato NeWoccasione del dot-
torato In ambe le leggi di Alvise di lui figliuolo - Pa-
dova 1802.
CAPITOLO OTTAVO 315
sono quelle di soggetto religioso. In esse egli
fa più volte confessione delle proprie colpe, e si
manifesta pentito e si raccomanda con fervide
preci a Dio, alla Vergine e ai Santi. Ma^, di-
penda dalla qualità del soggetto poco propizio
alla poetica ispirazione, oppure dall'età troppo
avanzata del poeta, il quale, per giunta, era
stato fatto segno ai colpi dell'avversa fortuna,
esse non hanno quel vigore di cui son fornite
le altre ; bensì appaiono piuttosto languide. E
che il Mussato le abbia scritte quand'era innanzi
cogli anni, ce lo fa sapere egli stesso nel Soli-
loquio quarto ai Santi Paolo ed Agostino, quan-
do dice di aver toccati i sessanta ^). Oltre a
questo, il poeta scrisse altri Soliloqui alla SS.
Trinità, allo Spirito Santo, alla B. Vergine Ma-
ria, in lode della Croce, nel quale ultimo ma-
nifesta il desiderio che il sacro vessillo abbia
a sventolare glorioso in Terrasanta, un inno
sulla passione del Signore, e una perorazione
nella quale raccomanda l'osservanza dei precetti
dei vecchio e del nuovo testamento.
1) Carnis in obscuris tenebris, et carcere casco
Sedit agens binis addita lustra decem,
Vergitur ad senium, vicinaque tempora morti,
Crastina nec superest certa vivenda dies.
Ad beatos Paulum apostolum et Aiigustinum Christi
confessorem, Soliloquium IV.
316 ALBERTINO MUSSATO
Di minore importanza, benché forse di mag?
gior pregio letterario, sono le egloghe, ch'egli
compose in numero di dieci *).
Secondo la citata biografia del Mussato scritta
dal Secco, quale trovasi nel Codice Ricciardiano,
il Nostro avrebbe scritto un poemetto sulla nar
scita di Alberico e di Ezzelino da Romano,
Secco li farebbe generati dagli amori di Plutone
con Proserpina *) ; ma, come osserva il Novati,
lo contraddice il Mussato stesso, nel Prologo
della sua tragedia, che li dice nati dagli infer-
nali amori di Plutone con la loro madre. Po-
trebbe essere che questo poemetto fosse tutta
una cosa col Pròlogo, o, a megho dire, col primo
atto della tragedia, come lo chiama il Mussato.
Lo stesso Novati suppone che Albertino abbia
scritto un altro poema sulle cagioni delle sue
sventure, e ciò deduce dall'aver letto in un co-
dice veneto, nella chiusa delle storie, queste;
parole: Contumeìiarum mearum notiones, cum
verarum adiectione causarum his centenis di'
rigo meiris, Benti carissime ecc. ^). La sup-
1) Eccone i titoli: 1. Nuinen ignolum2. Cenfaurus
3. Creusa 4. Galeaz 5. Nais 6. Amores 7. Baxes 8. Echo
et Ege 9. Barnabos et Galeaz 10. Apofheosis.
2) Vedi: Appendice, Doc. III.
3) Vedi: Archivio Storico per Trieste, V Istria e il
Trentino Voi. II. Fase. I. Gennaio 1883.
CAPITOLO OTTAVO 317
posizione ha buon fondamento. A tutte queste
opere poetiche minori del Mussato ci sarebbe
da aggiungere gli argomenti alle tragedie di
Seneca che, secondo una notizia raccolta dal
Gennari, si troverebbero in un codice della Bi-
blioteca Ambrosiana ^).
In tutte le poesie, che abbiamo considerato,
lo studio e la imitazione di Ovidio si rivelano
di continuo. Ben dice il Colle che « un tal mae-
stro non infelicemente da lui ricopiato nella
ricchezza e varietà delle immagini, abbondanza
di pensieri, felicità di uscite e facile fluidità
di sale giovogii ancora unitamente ai soccorsi
del metro a renderlo più castigato nell'espres-
sione, e molto più chiaro nella dicitura. Sa-
rebbe indiscreta pretensione l'esiger da lui la
grazia e cultura dei buoni tempi; ma nei pen-
sieri, nella dignità, ricchezza e connessione di
questi, non avranno difticoltà gii autori migliori
di accoglierlo a lor compagno » ~).
1) Gennari — Notizie storiche di Padova Tomo I.
Manoscritto esistente nella Biblioteca comunale di Pa-
dova. — Vedi pure: Catalogus codicum latinorum Bi~
bliotheae Medicece - Laio'entiance T. II. Esso sarebbe pre-
cisamente il Cod. 1. Pluteo XXXVII. Argwìienta in de-
cem Senacce tragcedias. Tali Arguraenta si trovano pure
nel Cod. XXIII, Plut. 91 sup. dei Gaddiani a e. 43. Nello
stesso Cod. a e. 49 e segg. stanno gli argomenti delle Epi-
stole di Ovidio con Prologo, che si ritengono del Mussato.
2) Mem. cit.
Capitolo Nono.
L' Eccerinis.
L' opera per la quale è principalmente noto
il nome di Albertino Mussato è la tragedia
Eccerinis. I vecchi critici, per la maggior par-
te, ne parlano con poco favore, poiché non è
fatta secondo le pretese leggi della dramma-
tica; ma i più recenti, i quali si sono spo-
gliati di certi pregiudizii, che furono dimostrati
assurdi, la esaltano oltre ogni dire, e non sen-
za ragione, come una delle più belle creazioni
poetiche del secolo XIV. E tale pare la ritenes-
sero i contemporanei del Mussato, se per essa,
in modo particolare , lo incoronarono poeta.
Quando T abbia composta non sapremmo dire ;
è certo per altro che non la fece di pubblica
ragione che nel 1314, dopo che fu prigionie-
ro di Cangrande. Abbiamo di ciò -la testimo-
nianza nel Ferreto, il quale dice, che in quel
tempo r Eccellinide non era stata ancora pub-
320 ALBERTINO MUSSATO
blicata dal Mussato ^). È assai probabile T opi-
nione del Dall'Acqua Giusti, il quale la stima
anteriore alle altre opere del Nostro e anche
eseguita, almeno in gran parte, nella sua gio-
vinezza.
La mente di Albertino, fino dall' età prima,
dev' essere stata piena dei racconti delle cru-
deltà commesse da Ezzelino III contro i Pa-
dovani. Solo poco tempo prima eh' egli nasces-
se, cioè nell'anno 1260, era avvenuta la gran-
de catastrofe degli Ezzelini, e Padova ne ave-
va esultato. Da quel momento essa era entra-
ta in un periodo di pace, di prosperità e di
grandezza, quali non aveva, per lo innanzi, go-
duto. E naturale che, per lungo tempo, i cit-
tadini non facessero che parlare del grande
avvenimento, e, paragonando lo stato loro pre-
sente a quello di pochi anni innanzi, maledi-
cessero alla memoria dell' esecrabile tiranno, e
ricordassero, quasi con compiacenza, la sua fine
terribile. Pei Padovani, in modo particolare,
egli era stato qualche cosa di così straordina-
riamente mostruoso per la sua efferata crudel-
tà, che la fantasia popolare, lui vivente, ave-
va incominciato a ricamare intorno alla sua
1) Rer. Hai. Script. Voi. IX.
CAPITOLO NONO 321
origine e intorno a lui stesso delle favole non
meno mostruose, per far vedere eh' egli non
era della stessa pasta di tutti gli altri uomi-
ni ; egli cosi nemico del genere umano ! Da
ciò la leggenda che fosse stato generato per
opera del demonio.
Tutti questi racconti, ripetuti di continuo alle
orecchie del giovinetto Mussato, non potevano
non fare grandissima impressione suU' animo
di lui ed eccitargli la fantasia, che da natu-
ra aveva sortito pronta e vivace. La terribile
figura del tiranno, quale noi, non senza ribrez-
zo, ammiriamo nella sua tragedia, dev' esser-
si fin d'allora disegnata, a poco a poco, nella
sua mente ; al giovinetto poeta non restava
che di trovare la forma sotto la quale presen-
tarla ai lettori.
E la forma fu ben presto trovata.
Dicemmo che nella sua giovinezza, dopo la
morte del padre, dovette esercitare 1' ufficio di
copista, per provvedere il giornaliero sostenta-
mento a sé ed ai fratelli. Per esercitare quel-
r ufficio era necessaria la conoscenza della lin-
gua latina, la quale conoscenza, per l' eserci-
zio stesso, doveva aumentare di giorno in gior-
no ; sicché in breve egli dovette essere in gra-
do di gustare i mighori scrittori latini allo-
21
322 ALBERTINO MUSSATO
ra conosciuti. « In sulle prime — osserva il
Dall' Acqua Giusti — dovettero piacergli le
tragedie di Seneca, tragedie sulle cui decla-
mazioni si declamerà sempre senz' altro esame,
essendo difficile che qualche critico voglia leg-
gerle per sceverare le molte gonfiezze retori-
che da alcune bellezze innegabili » . Quella for-
ma gli parve convenire al suo soggetto, ed egli
se ne fece imitatore.
Ch' egli sia stato studioso delle tragedie di
Seneca, è cosa comprovata dal fatto che in un
codice di quelle, come accennammo nel capi-
tolo antecedente, gli argomenti di ciascuna tra-
gedia sono scritti da lui. Ora, perch' egli s'in-
ducesse a far questo lavoro, è necessario am-
mettere che di quelle tragedie abbia fatto uno
studio particolare '). Ci affrettiamo, del resto,
a soggiungere che l'imitazione si riduce alla
sola forma esteriore ; il contenuto è ben diver-
so da quello delle tragedie di Seneca.
Nel Mussato il concetto è affatto originale.
1) Nota Alessandi'o d'Ancona: «Albertino Mussato non
avrebbe scritto il suo Ezzelino se non avesse proseguito
di lungo studio e di grande amore queir autore dram-
matico, che r età media conobbe e meditò sopra tutti
gli altri: vo' dire lo scrittore, qualunque ei siasi, delle
tragedie che vanno sotto il nome di Seneca». Origini
del teatro italiano Voi. I. Successori Le Mounier, 1877.
CAPITOLO NONO 323
è, come scrive il Settembrini, un concetto più
largo che quello dei Greci, ed è proprio il con-
cetto del dramma moderno, meno armonioso,
ma più vasto ed ardito ').
Per questo rispetto la tragedia del Mussato
è di gran lunga superiore a tutte le tragedie
di Seneca, né può considerarsi una semplice
imitazione di quelle, come fu detto troppo leg-
germente.
Riguardo all'epoca nella quale fu scritta,
nota il Dall'Acqua Giusti, che vi si trova l'uso
di alcune parole, sulla cui legittimità classica
possono essere messi dei dubbi, ciò che non
avviene, o avviene in tutt' altro modo, nelle
altre opere dell'autore, nuovo indizio questo
dell' anteriorità dell' Eccerinis.
Ma, se ciò è vero, per qual ragione il Mus-
sato tardò a pubblicarla fino oltre al cinquan-
tesimo anno dell'età sua? Non sarebbe stato
più opportuno che V avesse messa in luce, ap-
pena composta ; allorché ne' Padovani era più
fresca la memoria delle atrocità commesse dal
Vicario imperiale contro di loro ?
Questa sarà stata dapprima l' intenzione del
poeta ; ma, compiuto il lavoro, si sarà forse
1] Lezioni di Lederalura italiana. Gap. XXVII.
324 ALBERTINO MUSSATO
accorto che gli animi de' suoi concittadini si
erano fatti più calmi, e che l' avversione all' Im-
pero andava di giorno in giorno scemando, spe-
cialmente nella nuova generazione, alla quale
egli pure apparteneva. Interrogato l'animo suo,
questo gli avrà risposto, che non era conve-
niente richiamare alle menti tristi ricordi e
risvegliare nei cuori odii sopiti, tanto più che
qualche bene avrebbe potuto derivare air Ita-
lia dall' Impero, il quale alla fin fine, chi ben
considerasse, non era stato l' unica causa dei
mali che 1' avevano travagliata fino a quel
punto. C era perfino chi tentava scusare Ez-
zelino delle sue crudeltà, considerandolo come
vendicatore piuttosto che come autore di scel-
leratezza '). Che se negli ultimi suoi anni si
era mostrato feroce oltre ogni dire, la colpa
n' era del partito guelfo, che gli era stato sem-
pre fieramente avverso, ed aveva commesso di
ogni maniera scelleratezze contro i suoi. In
breve, se Ezzelino aveva fatto del male, e' era
stato tirato pei capelli ^).
Più tardi la elezione di Enrico VII e la sua
1) Vedi r Epistola V del Mussato, della quale abbia-
mo fatto parola nel capitolo antecedente.
2) Il Verci nella sua Storia degli Eccelini teata an-
ch' egli di scusare Ezzelino 111.
CAPITOLO ^•0N0 325
venuta in Italia trattennero ancor più il No-
stro dal far pubblico il suo lavoro. Egli eh 3
aveva riposto tante speranze in quell' Impera-
tore, pel quale sentiva affetto sincero ed am-
mirazione grandissima, come avrebbe potuto
dargli argomento di sospettare sulla sincerità
dei sentimenti, che gli avea professato a viva
voce nelle ambasciate ? Di più quella tragedia,
posto che fosse stata accolta favorevolmente
dai suoi concittadini, li avrebbe dissuasi ancor
più dal rendersi amico V Imperatore, cosa che
sarebbe stata affatto contraria ai suoi deside-
rii, mentr'egli non vedeva altra via di salvezza
che quella d'unirsi a lui più strettamente che
fosse possibile.
Morto sul più bello della sua impresa En-
rico VII, le cose cambiarono d'aspetto. Can-
grande, novello Ezzelino, rninacciava la rovi-
na di Padova. I cittadini lo vedevano aggi-
rarsi intorno alle mure della città, come leo-
ne affamato che s' aggira intorno alla preda
per cogher il momento opportuno di divorarla.
Tutte le sevizie commesse da Ezzelino contro
i loro padri ritornavano, con terribile evidenza,
alla memoria dei Padovani, ed essi fremevano
al pensiero di dovere, un giorno o l' altro, ri-
maner vittime del Vicario imperiale di Verona.
326 ALBERTINO MUSSATO
In que' giorni, dopo una lotta sanguinosa e
fatale ai Padovani, era stata conchiusa la pace
con Cangrande; ma una pace foriera di più.
grave tempesta.
Ognuno era perplesso, ognuno vedeva l'im-
minente rovina. Gli animi avevano bisogno di
essere rialzati, di essere colmati d' odio verso
colui che tendeva insidie alla libertà della pa-
tria, perchè, all'occasione, potessero resistergli
fino all'estremo. Quale momento più opportu-
no per pubblicare 1' EcceUinide ?
In Ezzelino i Padovani avrebbero ravvisato
Cangrande; nelle sevizie da quello commesse,
le crudeltà che questi avrebbe usato coi vinti,
allorché si fosse fatto Signore di Padova. Di-
nanzi a un quadro così spaventoso, gii animi
di tutti sarebbero stati compresi di terrore, ed
ognuno avrebbe giurato di morire, piuttosto che
cadere nelle mani dello Scahgero.
Il Mussato, mosso da vero sentimento di pa-
tria, piuttosto che da desiderio di gloria, non
contento di aver cooperato al bene della Re-
pubblica colla parola eloquente nelle concioni e
nelle ambasciate, e colla spada nel campo, volle
tentare di giovarle anche con questo mezzo ; e,
per meglio riuscire nel nobile intento, volle,
senza dubbio, fare alla sua tragedia alcune mo-
CAPITOLO NONO 327
dificazioni ed alcune aggiunte, le quali allu-
dessero chiaramente alla condizione di Pado-
va a' quei giorni rispetto a Cangrande ed a
Cangrande istesso. Neil' esame che faremo della
tragedia potremo accorgerci facilmente di queste
allusioni.
Per esse la tragedia, la quale, pubblicata
innanzi, non poteva riuscire, col semplice ricor-
do dei fatti passati, che un utile ammaestra-
mento per l'avvenire, diveniva, con le nuove
modificazioni ed aggiunte, un lavoro, come si
direbbe oggigiorno, di piena attualità, che non
poteva non destare nei Padovani il massimo
interesse, e farli fremere di sdegno, ed infiam-
marli dell' amore della libertà. Più che la rap-
presentazione dei Persiani di Eschilo sulF ani-
mo degli Anteniesi, dev' essere stata efficace
la lettura àQÌV EcceyHnis sull'animo dei Padova-
ni. Le memorie di Maratona e di Salamina era-
no, è vero, ancor fresche, quando Eschilo fa-
ceva rappresentare la sua tragedia in Ate-
ne, ma i Persiani non mettevano più tanta pau-
ra; mentre non solo la memoria di Ezzelino
era ancor fresca pei Padovani ; ma un altro
Ezzelino, e non meno formidabile, loro sovra-
stava. Per tutte queste ragioni la tragedia ha
un'importanza storica grandissima. Non è poi
328 ALBERTINO MUSSATO
improbabile che il Mussato l' abbia riveduta an-
che letterariamente. Una certa ineguaglianza
di stile — osserva il Dall'Acqua Giusti —
sembra annunziarlo.
Nell'atto primo Adeleita svela ai figli Ez-
zelino ed Alberico il terribile arcano della loro
nascita, non senza prima venir meno per l' or-
rore dell'infame ricordo. Riposava ella nell'e-
burneo talamo, accanto al marito Ezzelino il
Monaco, là nella rocca di Romano ; quand' ec-
co, sulla prima ora della notte, ndi un mug-
gito dal profondo della terra, come ne scop-
piasse il centro e s'aprisse il caos, mentre al
di sopra rimbombava il cielo. Un vapore di
solfo si diffuse per V aria e si restrinse in nube,
e un'improvvisa luce, simile a quella* del ful-
mine seguito dal tuono, illuminò la casa ; la
fumosa nube involge il letto e lo riempi di
fetore, ed ella si sentì avvinta e pressa da
ignoto adultero. Era grande costui come un
toro, aveva la corna adunche sul capo irsuto
e incoronato di setolose ispide chiome; sangui-
gna lue gli colava da entrambi gli occhi ; le
narici con frequenti sbuffi vomitavano fuoco, e
le faville gli salivano ai larghi orecchi ; la bocca
anch' essa vibrava leggera fiamma, e continuo
fuoco gli lambiva la barba.
CAPITOLO NONO 329
Poiché tal mostro ebbe sazie le sue voglie,
con gran rovina si lanciò dal letto, e si profondò
nel terreno. Da questo infame congiungimento
nacque Ezzelino, dopoché la madre lo portò nel
grembo per dieci lunghi mesi di lagrime^, di an-
goscio e di dolori. La sua nascita fu mostruo-
sa ; egli apparve fanciullo cruento, foriero di
strage, minacciante con la fronte crudele, ed
annunziante, terribile a vedersi I atroce porten-
to. Alberico anch' egli nacque, con egual stu-
pro, dal medesimo adultero.
Ezzelino, nonché sentirsi compreso di orro-
re, incoraggia il fratello, che sembra titubante,
e « arrossiresti, o stolto, gli dice, di tanto pa-
dre? Rinnegheresti l'origine divina? Siamo pro-
le di Dei. Nemmen Romolo e Remo, ch'ebbero
Marte per padre, possono vantarsi di progenie
così elevata. Maggior Dio e di più vasto re-
gno è il padre nostro , re delle vendette ; al
suo cenno i potenti, i principi , i re , i duchi
scontano le pene ; nel paterno foro saremo giu-
dici degni, se colle opere vendicheremo il re-
gno del padre , a cui piacciono le guerre , le
morti, le stragi, le frodi, gli inganni ed ogni
danno dell'uman genere».
Detto ciò, Ezzelino scende nell' ima parte del-
la casa , ove non penetra raggio di luce, e
330 ALBERTINO MUSSATO
prostrato bocconi al suolo, morde, digrignando
i denti, la dura terra, e con fiera voce invoca
il padre Lucifero. L'invocazione - come ben dice
r Emiliani Giudici - pare concepita da Mil-
ton ').
La traduco letteralmente : « cacciato da-
gli astri, già risplendente in cielo sul mattino,
padre superbo che tieni, triste regno , il caos
profondo, e sotto il cui impero i morti scon-
tano i delitti, dall'imo speco accogli, o Vulca-
no , le degne preci del supplicante figlio : io,
tua certa e indubitata prole, t'invoco. M'empi
del tuo spirito, esperimenta se può qualche cosa
r innata volontà che ferve entro il mio petto.
Lo giuro per le livide e nere acque di Stige,
io negai sempre Cristo, l'abborrito Cristo, odiai
sempre il nome della croce a me nemico. Mi
sieno compagne al fianco le ministre dei de-
litti; li consigli Aletto, Tesìfone li spieghi, in
truci atti prorompa la crudele Megera e la diva
Persefone assecondi le mie imprese. Non man-
chi nessuno che aneli alla rapina, né nessuno
degli spiriti infernali ; essi incitino gli animi
all'ire, agli odii ed all'invidie. A me si dia la
spada sanguinosa: io stesso solo esecutore fi-
M Stoì'ia della letteratura italiana - Lezione Vili.
CAPITOLO NONO 331
nirò le liti ; la mano sicura non tremerà per
nessun delitto. Acconsenti, o Satana, e approva
un tal figlio».
Al Mercantini uno dei traduttori in versi
deìVEccermis ^), pare, né forse a torto, che
questa bellissima apostrofe sia alquanto offesa
dairartifiziata distinzione degli uffici che dovreb-
bero fare verso Ezzelino , Tesifone , Megera ,
Aletto, alle quali si aggiunge anche Persefone,
che il traduttore ha creduto bene di togliere,
<3ome soverchia, dalla traduzione '). Tutta que-
sta scena, del resto, che noi abbiamo cercato
di far conoscere letteralmente, è quanto di più
bello nel suo genere si possa immaginare ; è
tale, quale avrebbero potuto concepirla soltanto
i maggiori tragici greci o il grande tragico
inglese.
Il realismo che vi predomina ricorda quello
di alcuni canti della Divina Commedia, rea-
lismo efficace ed altamente artistico.
1) Tre SODO le traduzioni italiane in versi di questa
tragedia, a me note. Una del Mercantini, che è la meglio
verseggiata, una del Dall'Acqua Giusti, che è la più fe-
dele all'originale, ed una di Federico Balbi che, non ostan-
te qualche tratto l'elice, avrebbe bisogno di essere rive-
duta dal traduttore.
2) Ezzelino Iragedia latina di Albertino Mussato
da PrtcZoua tradotta da Luigi Mercantini -Palermo 1868.
332 ALBERTINO MUSSATO
L'atto si chiude con un Coro, nel quale le
allusioni a Cangrande, ai nobili, ai potenti, alla
plebe sono evidenti. Cangrande, non contento di
avere allargato il suo dominio colla conquista di
Vicenza, anelava pure alla conquista di Padova.
Il Coro canta : « Qual mai furore ti commuove,
o razza dei mortali? ove presumi di salire?
quale ambizione ti trasporta ? non essere troppa
ingorda. Perchè, affrontando mille pericoli,
cerchi di raggiungere il lubrico soglio? Mei
credi: tu non vai in cerca che di paure e di
continue minacce di morte ; la paura e la
morte sono compagne alla tirannide. Ma che
vale rammentare queste cose ? Tant'è : cosiffat-
to é l'animo umano! quando possiede un be-
ne, ne vuole uno maggiore, e non è mai sa-
zio». Chi vorrà negare che queste parole non
potessero essere applicate a Cangrande? E, ri-
volgendosi ai nobili, il Coro continua ; « E voi,
o nobih, l'atroce, ardente invidia vi trascina
nelle contese ; non soffrite che nessuno vi sia
pari » . Non è improbabile che il poeta, con que-
sti versi, prendesse di mira i Carraresi, che
agognavano a divenire signori di Padova : « E
noi, prosegue il Coro, plebe vilissima aggiun-
giamo stimolo ai potenti ; alziamo quelli alle
stelle, gettiamo questi nella polvere, facciamo
CAPITOLO NONO 333
leggi e patti, e poi li disfacciamo, tendiamo reti
a noi stessi, diamo aiuti fatali, siamo schermo
fallace, e coloro che in noi si fidano ne pagano
quindi il fio colla strozza, traendo seco noi pure ;
essi cadono, e noi cadiamo con essi: cosi gira la
ruota continuamente, e nulla dura». Qui il poe-
ta pare voglia alludere alle stragi poco prima
avvenute degli Alticlini e degli Agolanti. U
Coro termina: «Ahi perchè freme questa no-
bile Marca Trivigiana? Da ogni parte risuo-
nano trombe guerresche, il ridestato furore in-
fiamma le genti e le trae da' suoi riposi ; i cit-
tadini abbandonano i queti ozii ; tal frutto or-
rendo produsse la pace. Bolle il sangue impe-
tuoso e chiede battaglie, le fazioni commettono
apertamente delitti, si chiede il ferro alle città,
violata è la giustizia ». Quest'era la condizione
precisa, nella quale s'era già trovata, a cagio-
ne di Cangrande, la Marca Trivigiana, e nella
quale dovea trovarsi ancora, poco appresso la
pubblicazione deWBccerims.
Nell'atto secondo un Nunzio narra al Coro,
come Ezzelino abbia, con inganni ed astuzie,
sottomessa Verona al proprio giogo, e come la
nobile città di Padova, comprata a prezzo, ob-
bedisca al tiranno. «Già il feroce vi tiene lo
scettro col titolo superbo di Vicario imperiale ;
334 ALBERTINO MUSSATO
egli minaccia ai popoli stragi, carceri, roghi,
croci, tormenti, morti, esilii e farai crudeli. Ma
Dio punisce le scelleratezze, e i Nobili, che ven-
dettero la patria, ne pagano essi per primi la
meritata pena ! » Quale ammonimento severo
per coloro che avevano in animo di patteggiare
con lo Scaligero la cessione della città ! Nel
racconto del Nunzio sono frequenti gli accenni
a Cangrande e alla lotta di Padova con lui ;
talune esclamazioni sono minacce terribili agli
astanti : « atroci odii de' Nobili, esclama il
Nunzio, furore del popolo, è giunto il fine
desiderato delle vostre liti. Il tiranno , cui ci
diede la vostra rabbia , è qui ! » Parlando di
Verona, sede, prima, di Ezzelino e, quando fa
pubblicata la tragedia, di Cangrande, il Nun-
zio così si esprime : « Verona, o antica scia-
gura di questa Marca , soglia di nemici , via
aperta ad ogni guerra, sede del tiranno, o che
il tuo sito sia acconcio alla guerra , o che il
suolo per se stesso produca tal razza di uo-
mini». Allusione a Cangrande più evidente di
questa non si potrebbe desiderare ; egli è certo
che, air udirla , gli ascoltatori dimenticavano ,
per un momento, Ezzelino, e correvano tutti,
col pensiero, allo Scahgero.
Ciò appunto desiderava il poeta. Il Coro, che
CAPITOLO NONO 335
chiude quest'atto, si volge a Cristo che, assiso
alla destra del Padre e assorto nei gaudii
del cielo, forse non degna guardare ciò che
avviene sotto gli astri. «Perchè, esso dice, se
udisti il lamento che si levò a te dal sangue
di Abele, se punisti col fuoco le sozzure di So-
doma e di Gomorra, perchè, o Moderatore del
giusto, non guardi agli errori degli uomini pre-
senti ? » Questa apostrofe a Cristo richiama alla
memoria quella di Dante nel Canto VI del
Purgatorio :
E^ se licito m'ò, o sommo Giove,
Che fosti in terra per noi crocifisso,
Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? ecc.
Il Coro enumera quindi le crudeltà commesse
da Ezzelino : « 11 fratello, per accondiscendere
al tiranno, uccide il fratello, il figliuolo sotto-
pone colle proprie mani le fiamme al rogo del
padre ; né ciò bastando all'ira del feroce, egli
stesso comanda che i fanciulli sieno evirati, af-
finchè perisca il seme della prole futura, e che
alle donne vengano tagliate le mammelle. Un
coro d'innocenti dentro le cune geme mutilato
con labbro inesperto, ed acciecato cerca la luce
nelle tenebre fitte». Tale enumerazione di de-
litti ricorda quella che il poeta , parlando di
336 ALBERTINO MUSSATO
Ezzelino, fa nell'Epistola V ^). E qui giova no-
tare come il Mussato si ripeta talvolta ne' suoi
versi, mutando appena qualche vocabolo.
L'atto terzo si apre con una scena tra Ez-
zelino ed Alberico, che si narranno a vicenda
le conquiste già fatte, e parlano di quelle che
hanno in animo di fare. «Verona, Vicenza e
Padova, dice Ezzelino^, già obbediscono al mio
comando; ma io vo' andare più innanzi. La
promessa Lombardia m' invoca a Signore , ed
io stimo d'averla. Né qui voglio arrestarmi:
r Italia intera deve essere mia. Né ciò mi ba-
sta ancora: volgerò i miei vessilli all'oriente,
dove cadde un giorno Lucifero mio padre , e
dove forse, fatto potente, io mi vendicherò del
1} Canta il Coro :
Proli dolor! patrem rogitat cremandum
Natus, ardentes subici tque flammas.
lUe tantum scelerum superstes
Aspirans sfevas Ecerinus iras,
Prolis ut semen pereat futurte,
Censet infantum genital recidi,
Foeminas sectis ululare mammis.
E nelI'Epistsla V.
Vidi ego vivorum pendentia corpora patrum
Suppositis arsisse rogis, natosque paventes
Taiibas officiis diro placuisse Tyranno.
Vagitus infantum, et foemineos ululatus
Uberibus sectis, et csesa virilia quis non
Viderit ad vetitas in ssecula posterà proles?
CAPITOLO NONO 337
cielo. Cotanta guerra non mossero un tempo
a Giove né Tifeo, né Encelado, né nessun ai-
altro gigante. Poi volgerò ad Austro le mie
bandiere, dove di mezzogiorno sfolgora il sole ».
Alberico, alla sua volta , dice che Treviso è
già sua, e che, appena si sarà impadronito di
Feltro, muoverà verso il Friuli e sottometterà
tutte le genti del settentrione. Ma ciò è poco
al suo desiderio : vincerà ancora la triplice
Gallia e quella parte d'Occidente dove il sole
si tuffa nel mare. Ezzelino, per meglio ingan-
nare i nemici, lo consiglia a fìngersi adirato
con lui. Questa falsa apparenza trarrà quinci e
quindi molti fuorusciti a perire. Sia lungi sempre
la fede e la pietà dagli atti nostri » ! La più
parte degli storici, anche contemporanei ad Ez-
zelino, dubitano, che questa inimicizia, che durò
diciott'anni, fosse soltanto apparente ; eh' essa
fosse reale lo dimostrano i fatti e i documenti.
Nella scena seconda entra dapprima Zira-
monte, fratello naturale di Ezzelino, per annun-
ziare che a Monaldo fu tagliata la testa sulla
pubblica piazza, e che nessuno s'è ribellato. Ez-
zelino ne gioisce: « Abbiam vinto, esclama, ora
n'è lecita ogni cosa, la città senza difesa é ab-
bandonata al nostro ferro. Tutti i nobili peri-
scano insieme colla plebe » . jMonaldo, osserva in
22
338 ALBERTINO MUSSATO
una nota alla sua versione dell' Eccerinls il Dal-
l' Acqua Giusti, potrebbe essere dei Lemizzoni
soprannominato Capodivacca. Questo Monaldo
fu il primo che aveva proposto fossero aperte
ad Ezzelino le porte di Padova; poi congiurò e
fu decapitato ^). Entra quindi un Frate Luca,
il quale parla di Dio ad Ezzelino, che mostra
dapprima di non conoscere chi sia questo Dio,
e poi viene a conchiudere che s'Egli, pur avendo
la potenza di rintuzzare le opere sue, permette
che le compia, vuol dire, lui essere venuto al
mondo per suo comando, affine di vendicare le
scelleratezze. «Difatti Iddio, a punire le inique
genti, mandò sovr'esse diluvi, grandini, insetti,
fuoco e fame, come attesta la Scrittura, e alle
città tiranni che ruotassero, senza freno, le spade
nel sangue dei popoli. Nabucco, Faraone, Sani-
le, Alessandro, Nerone di quante stragi non in-
sanguinarono il mondo! di quanto sangue non
tinsero il mare! Eppure Iddio, che ciò vedeva,
non li trattenne, ma permise che facessero».
Queste parole in bocca di Ezzelino sono la giu-
stificazione medesima che delle sue crudeltà face-
vano i suoi partigiani. Fa meraviglia del resto
ch'egli, il quale, nel primo atto, va superbo di
\) Verci. Storia degli Eccelini Libro XIX.
CAPITOLO NONO 339
sapersi figlio del demonio e dice di odiare Cri-
sto e il nome della Croce, qui si consideri come
strumento di Dio, e ne meni vanto. Chi fosse
frate Luca non è dato precisare. Il Settembrini
dice che forse fu Sant'Antonio di Padova; ma
non è di questo avviso il Mercantini, il quale,
con maggiore probabilità di aver colto nel se-
gno, scrive che Frate Luca è personaggio sto-
rico, e certamente quel frate Luca Belludi pa-
dovano, che fu discepolo di Sant'Antonio, il
quale era morto già da più anni, quando Ez-
zelino ebbe Padova. Forse non è né l' uno né
l'altro. I frati, e specialmente i Minori, erano
nemici implacabili di Ezzelino, e, come scrive
il Verci, non avevano timore di presentarsi a
lui e di rimproverarlo audacemente de' suoi mali
portamenti, e minacciarlo ancora se faceva bi-
sogno. Osserva poi il Dall' Acqua Giusti che le
parole di Frate Luca ricordano espressioni di
epistole di Papi a Ezzelino, come si può ve
dere in alcuni documenti pubblicati dal Verci ^)
Entra un Nunzio e reca ad Ezzelino Tinfau
sta nuova che una grossa schiera di esuli pa
dovani e ferraresi, preceduta dal legato del Papa
ha, col favore dei Veneziani, occupata Padova
1) Cod. Diplom. Eccl. doc. CXXIV e CCCXI.
340 ALBERTINO MUSSATO
Freme Ezzelino di sdegno, e comanda che al
Nunzio sia mozzato un piede, premio condegno
alla riferta. Gli storici dicono che Io fece im-
piccare ad un albero. In quella entra Anse-
disio, il quale conferma la notizia. «E tu so-
pravvivi, gli grida Ezzelino, tu la cui faccia il-
lesa è indizio della colpa? Vattene: per te la
morte non è pena che basti». Ansedisio infatti,
per avere vilmente abbandonata la città che gli
era stata affidata e verso la quale s'era mo-
strato più feroce di Ezzelino stesso, fu fatto
morire in mezzo ai tormenti. I soldati consi-
gliano Ezzelino a chiudere i Padovani in un
carcere a Verona e a minacciarli di morte. Ac-
corra quindi rapido a Padova e la stringa d'as-
sedio : la fortuna gli si volgerà propizia!
L' atto termina con uno stupendo coro, forse
il più bello della tragedia. Dopo un breve esor-
dio sul bugiardo antivedere degli uomini, esso
narra l'inutile tentativo del tiranno di assalire
Padova. «Ecco rapido vola l'atroce Ezzehno, e
trova Padova, avvezza un giorno al suo giogo,
nemica e sprezzatrice de' suoi comandi. Vuol cin-
gerla d'armi, e spinge i suoi alle rive del fiume.
Gli sta di contro un'ordinata schiera di soldati
che gli fissano gli occhi in faccia. Egli urla, im-
va sfociando con bestemmie la sua rab-
CAPITOLO NONO 34 L
bia feroce. Poiché non gli rimane più alcuna
speranza d' aver la città, volge indietro il caval-
lo e leva il campo. Torna in fretta a Verona, a
sfogare l'ira sua nelle stragi. Fa morire nelle
segrete di fame e di sete i padovani prigionieri
e, per tal modo, toglie la vita a undicimila. I
carri trascinano corpi sformati, cui nessun più
ravvisa. La madre più non raffigura il figlio,
la moglie il marito; si confondono le lagrime
sugli estinti ; la terra non basta a coprire tanti
cadaveri ; il lezzo corrompe l' aria. Mira il ti-
ranno, e si lagna della mite sentenza, mentre
rimane ancora chi rinnovi la schiatta pado-
vana» ^).
Mirabile è veramente questo Coro, che, nella
sua brevità , rappresenta, con tanta efficacia ,
una cosi terribile scena; i Padovani non pote-
vano non fremere di orrore all'udirlo recitare.
Alcuni degli ultimi versi, osserva il Mercantini,
1) M'è parso bene di tradurre a questo modo i due
ultimi versi del Coro:
Spectator queritur iudicii parura,
Dum restat, Patavum quod reparet genus.
Il Mercantini li interpreta diversamente, allontanan-
dosi, a mio giudizio, dal concetto del poeta:
Mancan gli spettatori^ appena avanza
Chi a Padova ravvivi il nobil seme
Di sua cittadinanza.
342 ALBERTINO MUSSATO
fanno ricordare quel luogo di Tacito in cui è
descritto il compianto dei Romani che trovano
le ossa di Varo e della sua legione distrutta
da Arminio.
L'atto quarto comincia con un monologo di
Ezzelino, il quale dice che Padova sarà vinta
a suo tempo. Nella scena seconda un Nunzio
narra al Coro, come Ezzelino, avendo occupata
Brescia col favore dei Cremonesi, rotta la fede,
ne li abbia esclusi, ed abbia pure teso insidie
di morte a Pallavicino, che gli era amico. Lu-
singato dai nobili, si rivolse quindi a Milano,
sperando di penetrarvi ad inganno ; ma fu de-
luso nella sua speranza. Cremona, Mantova,
Ferrara, Buoso e Pallavicino aveano giurato
insieme la sua rovina. « I Collegati s' apposta-
no al varco dell'Adda, donde Ezzelino avrebbe
dovuto retrocedere; dall'altra parte l'audace
Peggio Federico Balbi:
eppur uà santo
Pensier l'alme conforta! alla primiera
Vita Padova riede, e questo in breve
Sangue riface che il crudel le beve.
11 Dall'Acqua Giusti s'avvicina più di tutti alla vera
interpretazione:
Il Tiran ciò mira, e dice
La sentenza troppo umana,
Finché resti la radice
Della schiatta padovana.
CAPITOLO NONO 343L
Martino della schiatta dei Torriani, circondato
da' suoi, ricaccia indietro il vecchio tiranno, che
dubitante retrocede all' Adda ; ma viste al ponte
le nemiche insegne rimane incerto. Digrigna i
denti, come lupo satollo inseguito dai cani, che
ruota gli occhi ed ha la spuma alla bocca.
Racchiuso da ogni parte, non vuole avventu-
rarsi air ineguale conflitto; il ponte occupato
gli nega il passo, e quinci e quindi i nemici,
pronti alla lotta , lo provocano con gli ol-
traggi. Mentre egli cerca, indugiando, da qual
parte fuggire, una freccia gli trapassa il piede
sinistro. Chiede ai soldati il nome del luogo.
Questo è il fiume Adda, gh viene risposto, e
questo il guado di Cassano. Ahi Cassam, As-
sara, Bassam qui la mia morte, grida Ez-
zelino ; me l' hai predetto, o madre ! Ciò detto,
sprona il cavallo , scende nelf onde , tocca la
riva opposta e addita a' suoi la via. Ma pronta
una schiera di soldati gli sta di contro, che fa
strage de' suoi. Ezzelino resiste invano ; è pre-
so. Uno , né si sa chi sia stato , gli fracassa
d' un colpo la testa. Tratto di là, rifiuta ogni
farmaco, e muore minacciando con la fronte
terribile. Volontario egli scende alle ombre in-
fernali del padre, ed in Soncino una tomba
racchiude il suo cadavere » .
.344 ALBERTINO MUSSATO
A questa narrazione, alla quale il Coro pre-
sta l'attenzione più viva, come dimostrano le
domande colle quali interrompe tratto tratto
il Nunzio lo eccita a proseguire, tien dietro
un inno di ringraziamento a Dio per la morte
del tiranno e pel ritorno della pace.
Qui la tragedia dovrebbe aver fine ; ma il
poeta non è pago : vuole aggiungere ancora
un atto, in cui venga narrato lo sterminio di
tutta la famiglia degli Ezzelini. Egli è forse
per questo che ha intitolato la tragedia Ecce-
rinis, Eccelinide, come ben traduce il Dall'Ac-
qua Giusti, e non Ezzelino, come hanno tra-
dotto gli altri.
L' atto quinto è una sola scenn . « Alberico -
così narra il Nunzio -a tal rovescio non veden-
dosi sicuro da nessuna parte - poiché come non
aveva serbato fede ad alcuno, cosi non l' ebbe
da nessuno — si rifugiò nella forte rocca di San
Zenone, insieme con la moglie e i figli tutti.
Tre città, avide di vendetta, Treviso, Vicenza
e Padova s'accamparono intorno al monte;
ad esse si uni il marchese Azzo con gli altri
illustri Signori della Marca. Ma poiché a quei
di dentro non rimaneva speranza di resistere,
e già serpeggiava la sedizione ed incalzava la
fame, e la paura della morte era imminente.
CAPITOLO NONO 345
la rocca fu presa senza lotta. Le schiere ir-
rompono nel castello; un bambino viene strap-
pato dalle poppe della madre, preso per i piedi
e sbattuto il molle capo contro un duro tronco:
schizzano le cervella, e il sangue sprizza in volto
alla madre; Ezzelino Novello, fanciullo di tre
anni, corre incontro ad uno che ha la spada in
pugno, chiamandolo zio, e quegli; -Tuo zio c'in-
segnò di dare a' suoi nepoti tal dono - e gli se-
ga la gola, e per far nota a tutti l'immane sua
scelleratezza, affigge sopra una lunga asta lo
squallido capo che increspa le labbra e ruota
gli occhi, mentre insozza di sangue la mano
di chi lo porta; altri frattanto dilania il fegato
palpitante ^). Alberigo, suU' alto della rocca, vie-
ne nelle mani del popolo, e mentre sta per vol-
gere parole ingannatrici al volgo, gli vien sbar-
rata con un freno V aperta bocca, e viene tra-
scinato vivo a contemplare l'eccidio de'suoi. Ed
ecco la sua donna, strappata all'alte sue stanze
dalla turba feroce, venire innanzi con le chiome
1) In questa narrazione mancano evidentemente al-
cuni versi, poicliè dice il Nunzio : «Tale fu la dira, atroce,
orrida strage dei tre tìgli maschi di Alberico:
Hsec masculina prolis Albrici hon-ida
Sic dira et atrox triplicis clades fuit;
mentre non è narrato che il supplizio di due soli.
346 ALBERTINO MUSSATO
diffuse, gli occhi al cielo e le mani avvinte da
stretta fune. Dietro a lui cinque vergini, prole
consacrata alle fiamme, erano tratte anch'esse
coi capelli disciolti, innanzi agli occhi paterni.
Rinfacciando i crudi atti commessi, s' accalca il
volgo intorno a costoro, come turba di caccia-
tori intorno a rapaci lupi, se li abbia costretti
dentro la tana: ricorda i danni commessi, aizza
i cani, e, a bella posta, indugia la strage per
vieppiù gustarla '). Ardeva un'alta catasta di
grosse roveri ; le faci sottoposte spandevano
odor di pece, e il pingue olio diffuso alimen-
tava le fiamme; il fumo copriva d'oscura nube
il cielo. Il fuoco rumoreggiava al par del tuono,
gli antri gemeano, sicché ognuno credeva es-
sere là dentro il Dio dell'inferno: parean boc-
che di fornaci che vomitassero fiamme. Oh mi-
serando spettacolo agli occhi dei genitori! Dap-
prima viene posta sul rogo la schiera delle in-
nocenti. Non appena il fuoco offese i giova-
netti seni ed arse le bionde chiome, balzano
indietro chiedendo aiuto ai genitori ... ma que-
1) Patrata memorans damna et adducens canes.
A caede gratas sponte subducens moras.
Il Mercantini traduce non bene:
E già i feroci
Mastini aizzan, perchè tarda a tutti
L' ebrietà del sangue.
CAPITOLO NONO 347
sti non possono abbracciarle . . . Una vana spe-
ranza quinci e quindi raggira le forsennate. Ma
tosto il feroce littore mette loro addosso le mani
violente, e trascinando insieme con esse anche
la madre, le sospinge sul rogo». «E con qual
volto - domanda il Coro - sostenne Alberico, poi-
ché parlar non potea, lo strazio della moglie
e delle fighe?».
«L'atroce, quasi per gioco, scuoteva il capo,
mostrando coi cenni come ciò gli importasse po-
co. Allora più dardi a gara fischiarono su lui.
Fuvvi chi gli cacciò la spada nel destro fianco e
uscir la fece dal sinistro; largo sangue fluì da
entrambe le ferite; un altro gii fulmina un fen-
dente sul collo e ne spicca la testa, che mor-
mora rotolando per terra ; il tronco stette va-
cillante a lungo pria di cadere; il volgo strac-
ciò a brani le membra, e le diede in pasto ai
cani » .
Non ho saputo astenermi dal riprodurre per
intero e quasi letteralmente la narrazione del
Nunzio, che è quanto di più terribile si possa
immaginare. Del resto se il poeta ha saputo dare
al quadro la tinta più conveniente e disporre
le figure nel modo migliore, ciò che in esso rap-
presenta non è parto della sua fantasia. 1 fatti
erano troppo recenti, perch'egli potesse scostarsi
?AS ALBERTINO MUSSATO
dalla pura verità. La tragedia pertanto, oltre
il valore poetico, ha un valore storico grandis-
simo, da meritare - e di ciò ben s'avvide il Mu-
ratori - di essere considerata, in gran parte, co-
me documento per la storia. Il Coro chiude la-
tragedia coir incoraggiare i buoni ad aver fede.
«Se la fortuna talvolta innalza il malvagio,
la legge per ciò non erra ; ognuno sarà rime-
ritato secondo le opere sue. V'ha un giusto Giu-
dice, ora severo or mite, che premia i buoni e
punisce i malvagi ; ai primi è serbato il cielo,
ai secondi V inferno » .
Come ognun vede, in questa mirabile trage-
dia la narrazione prevale sull' azione, e le fa-
mose regole, falsamente attribuite ad Aristotile,
sono violate di continuo, specie quelle risguar-
danti le unità di tempo e di luogo. In quanto
al tempo, l'azione si estende almeno per due
anni, e in quanto al luogo, essa si svolge - se
non sempre per ciò che viene rappresentato, per
ciò che viene narrato - dapprima in Verona, poi
in Padova, poi di nuovo in Verona, poi in Mi-
lano, poi a Soncino e finalmente nel Castello
di San Zenone. L'azione, più che gli ultimi
anni di Ezzelino, abbraccia tutta la vita di lui,
toccandone i punti principali dalla nascita alla
morte; né qui s'arresta, ma termina coll'ecci-
CAPITOLO NONO . 349
dio della famiglia di Alberico. Accanto al pro-
tagonista, se non in piena luce come lui, sorge
un'altra figura, quella di Alberico, la quale nel-
r ultimo atto rivolge a sé tutta l'attenzione de-
gli uditori. Per tutte queste ragioni e per altre
ancora, i vecchi scrittori, fatta eccezione di po-
chi, ^) danno della tragedia un giudizio sfavo-
revole. Per tacere di altri, il Tiraboschi vede
in essa che «l'autore si sforza non infelicemente
d' imitare lo stile di Seneca ; ma un cattivo ori-
ginale non potea fare che una più cattiva co-
pia. Infatti le tragedie del Mussato [V Ecceri-
nis e V AchiUeis; di questa noi diremo più in-
nanzi) non hanno alcuno dei pregi, che a un tal
genere di componimenti sono richiesti, e han
tutti quasi i difetti che soglionsi in essi ripren-
dere tf ; il Ginguenè la chiama una cattivissima
tragedia sotto ogni rispetto ~), e il Colle dice
che «chi esamini questa tragedia la troverà
tutt' altro che un lavoro non dirò perfetto, ma
tollerabile nel suo genere, non degno certamente
di quegli elogi che prodighi gli profondono lo
Scardeone ed il Vossio» . Secondo lui la tra-
1) Fra questi pochi è giusto ricordare lo Scardeone,
il Vossio, il Mafifei, il Napoli-Siguorelli.
2) C'est donc à tous égard une forte mau^aise tra-
gedie — Tom. IV. pag. 14, Paris 1813.
350 ALBERTINO MUSSATO
gedia pecca, oltre che nel protagonista e con-
tro le unità di luogo e di tempo, nella forma
e nell'interesse del dialogo, «giacché la mas-
sima parte si eseguisce per mezzo di messag-
geri che narrano colla frapposizione soltanto di
qualche cW su, narra, come avvenne ; ma pecca
molto più per essere priva quasi affatto di azio-
ne, di sviluppo, di scioghmento».
Quale differenza tra questi giudizi e l' entu-
siasmo col quale ne parlano gli storici moderni
della nostra letteratura! Essi non badano più
che tanto alle regole violate ; essi ammirano il
concetto elevato del poeta, e riconoscono in lui
la potenza di Dante e di Michelangelo nel ma-
nifestarlo. Che importa che il latino sia rozzo,
che i trapassi sieno scabri, che l'arte faccia
sovente difetto all'artista! Alcuni tratti magi-
strali sono compenso bastante a questi difetti,
e se VEccerinis non è un lavoro finito, è come
una statua di Michelangelo rimasta sbozzata.
Il Coro poi è, quasi sempre, d'una bellezza li-
rica non comune e, come nota il Settembrini,
«vi sta meglio che in tutte le tragedie moderne,
perchè esprime appunto quello che presso i Gre-
ci, il riflesso dell'azione nella coscienza popo-
lare; il Coro vi è attore e narratore; è parte
insomma integrale del dramma».
CAPITOLO NONO 351
E questo dramma fu egli mai rappresen-
tato? Non esiste nessun documento, il quale ci
provi ch'esso sia stato posto sulla scena. I più
son d'avviso che non sia mai stato rappresen-
tato, ma semplicemente letto, e citano, a soste-
gno della loro opinione, i versi coi quali, dopo
la prima scena, il poeta entra a narrare, come
Ezzelino sia disceso nell'ima parte della casa,
ad invocare Lucifero suo padre:
Sic fatus ima parte recessit domus
Petens latebras, luce et exclusa caput
Tellure pronum sternit in faciem cadeas
Tunditque solidam dentibus freadens humum,
Patremque saeva voce Luciferum ciet.
Un'altra prova, a convalidare la loro ipotesi,
la trovano in un verso dell'Epistola I, dove il
poeta dice, che se Roma non vorrà porlo a
fianco de' suoi poeti, egli verrà letto almeno
nella sua città : Hac salteni palava tutiis in
urbe legar, e in un altro verso dell'Epistola
IV , dove dice essere stato decretato, eh' egli
dovesse essere letto sempre nella sua città . .
ut nostra seniper in urbe legar. Noi osservia
mo inoltre che la tragedia, pel modo stesso col
quale è condotta, non poteva essere rappresen
tata ; due atti soltanto , il primo ed il terzo
sono veramente drammatici, gli altri non sono
352 ALBERTINO MUSSATO
che dialoghi tra il Nunzio ed il Coro. Tutte
queste ragioni bastano, parmi, a convincere che
la tragedia non fu mai rappresentata; essa ve-
niva semplicemente letta sul teatro colla modu-
lazione del canto, nel modo istesso che veni-
vano letti i tre libri in versi De Gesti's Ita-
Ucorum 'post Henricum VII Ccesarem. Nel
Prologo al libro IX, il poeta, volgendosi alla
società palatina dei notai, scrive: «Voi mi dite
che le grandi imprese dei Re e dei Duci, per
meglio adattarle alla inteUigenza del volgo, si
sogliono stringere a misura di piedi e di sil-
labe, ed esporre sul teatro e sulla scena colla
modulazione del Canto: et in theairis et pul-
pitis caniilenarwn moduìatione proferri, e nel
Centone Ovidiano al figlio: I miei poemi furono
cantati sovente dal popolo fra le danze e di-
lettarono spesso i tuoi occhi :
.... mea sunt populo saltata poemata saepe :
Saepe oeulos etiam detinuere tuos.
Fra questi poemi è compresa la tragedia ,
ed è chiaro che venisse semplicemente cantata
sulla scena; che se il canto, com'è detto nel
Centone, era accompagnato dalla danza, è na-
turale che offrisse spettacolo agli occhi degli
uditori. L'Ezzelino, scrive Zanella, più che una
tragedia è Tinno della libertà padovana. Come
CAPITOLO NONO 353
tale pare a me pure debba essere considerato.
Le sue bellezze infatti sono più veramente li-
riche, e però veniva pubblicamente cantato come
un inno di Tirteo e di Pindaro.
Al Mussato fu pure attribuita falsamente,
per lungo tempo, un'altra tragedia: V Achillcis.
L'errore provenne dal fatto che l'OsiO;, avendo
trovata in un codice questa tragedia dopo V Ec-
cerinis, la pubblicò come opera del Nostro. Que-
sto errore data dal secolo XVII, e a confer-
marlo valse l'autorità del Muratori, del Maf-
fei e del Tiraboschi, che, senza muovere alcun
dubbio, ritennero del Mussato entrambe le tra-
gedie. Il professore Giuseppe Todeschini di Vi-
cenza in una dotta sua lettera ^) provò lumi-
nosamente non essere VAchilleis opera del poeta
padovano, bensì del vicentino Antonio Loschi,
che la compose verso la fine del secolo XIV.
Non è pertanto del nostro compito l'occuparci
di essa.
Torniamo dlVEccerinis. Nota l'Emiliani Giu-
dici: «La forma latina, in cui è scritta la tra-
gedia del Mussato, ammirata da' contempo-
1) Del vero autore della tragedia V Achille attri-
buita ad Albertino ^lussato, Lettera di Giuseppe Tode-
schini al Chiarissimo Sig. Professore Ab. Antonio Mene-
ghelli -Vicenza 1832.
23
354 ALBERTINO MUSSATO
ranei e secondata dagli sforzi de' posteri , che
afifannavansi a riprodurre il dramma dotto in
una stagione non ancora adatta_ a gustarlo,
non ebbe influenza diretta sul popolo che con-
tinuò ad appassionarsi vie maggiormente alle
sue sacre rappresentazioni». L'osservazione è
giusta ; il popolo infatti più non intendeva a
quel tempo la lingua latina. Che ciò sia vero
lo prova, con tutta evidenza, il Gloria nel suo
importante ed erudito studio: Del Volgare il-
lustre dal secolo VII fmo a Dante. Egli, dopo
aver m'ostrato che nel secolo X il linguaggio
parlato si teneva, e doveva essere, un linguag-
gio diverso dal latino, soggiunge: «parmi che
il volgo allora e anche qualche secolo prima,
non dovesse intendere il latino stesso. Certo non
lo intendeva nel secolo XII. Una carta del 1 189
dice che il patriarca d'Aquileia predicò in quel
r anno e in buona lingua latina nella Chiesa
delle Carceri, villaggio padovano, ma che Ge-
rardo vescovo di Padova dovette spiegare quella
predica in volgare al popolo astante che nulla
aveva inteso». L'Ambrosoli, toccando in un suo
scritto della tragedia del Mussato, osserva :
«Scrivere, com'egli fece, in latino una trage-
dia sugli Ezzelini, non fu tutt'uno come chia-
mar la moltitudine a udir qualche cosa di gran
CAPITOLO KONO 355
momento; e poi susurrarla alF orecchio di po-
chi? ')
E come si spiega Tentusiasmo che destò quel-
la tragedia, tosto che fu pubblicata? Noi sap-
piamo quali feste furono fatte al poeta, quale
onore gli fu decretato, e come l'intera città ri-
suonasse del suo nome. Tutto questo ci fareb-
be sospettare, che il suo lavoro fosse compreso
e gustato, non solo dalle persone colte, ma an-
che dal popolo. Una prova della celebrità, sta-
rei per dire, della popolarità acquistata dairj^c-
cerinis l'abbiamo nel fatto, che i Cortusii, nella
loro Cronaca, fanno parlare il tiranno colle pa-
role stesse della tragedia ') , il che dimostra
pure, se ce ne fosse bisogno, l'importanza sto-
rica di quel lavoro. Ora se la lingua latina non
era intesa dal popolo, come poteva questo en-
tusiasmarsi al sentir leggere o cantare quei
versi ^).
1) Considerazioni generali sulla Storia della Lett. Ital.
Voi. IV. Manuale di St. della Letteratura.
2) Lib. I. Gap. III. e IV.
3) Che il popolo non intendesse il latino ce lo dice il
Mussato stesso. Noi sappiamo com'egli sia stato indotto
a scrivere in versi 1 libri IX, X e XI delle cose italiche
dopo la morte di Eurico VII dalla Società palatina dei
notai di Padova, affinchè quei libri potessero essere letti
dai notai e dai chiericuzzi, mentre gli altri, scritti in
prosa, avrebbero servito ai più dotti; abbiamo anche os-^
356 ALBERTINO MUSSATO
Se il Mussato ebbe feste ed onori per la
pubblicazione della tragedia, ciò avvenne per
iniziativa dei dotti, i quali erano in grado di
valutarne il merito ; il popolo non ha fatto che
assecondare quella iniziativa, e tanto più di
buon grado, inquantochè si trattava di un uo-
mo accetto ai più per aver cooperato al bene
della patria, e che tornava allora dall' esser
stato prigioniero di Cangrande, contro il quale
aveva combattuto da valoroso. In quanto poi
al comprendere la tragedia, ammesso pure che
il comprenderla non fosse privilegio di pochi,
che anche le persone di mezzana cultura sa-
ranno state in grado di comprenderla e di gu-
starla, egli è certo che il popolo non poteva
capirla assolutamente. Forse sarà stata spie-
servato parer strano che i versi latini fossero allora più
facilmente intesi che la prosa. Forse che il Mussato riu-
scisse a' suoi contemporanei più chiaro e più facile nei
versi che nella prosa; forse che unendosi in quelli alla
chiarezza la soavità del metro, come osserva il Tiraboschi,
anche i men colti potessero leggerli con piacere. Ma
quello che a noi importasi è che, parlando del linguaggio
che intende usare ne" suoi versi, il poeta vuole che suoni
facile e quasi intelligibile al volgo: molle et vulgi in-
tellectioni propinquum, il che vuol dire che se poteva
essere inteso dai meno dotti, come i notai e i chiericuzzi,
non era tale ancora che il volgo Io potesse intendere;
prova evidente che il volgo più non comprendeva il latino.
CAPITOLO NONO 357
gata ad esso in qualche occasione dai dotti ; ma
è più probabile che la ritenesse senz'altro un
gran che per le lodi che ne intendeva fare da
quelli.
E non poteva il Mussato far uso del vol-
gare nella sua tragedia? Nota il Dall'Acqua
Giusti che chiedere oggidì al Mussato perchè
usasse il latino ;, sarebbe anacronismo. Ma la
lingua italiana non era di già formata ? La
Divina Commedia scritta in que' giorni è lì a
provarlo ; né il volgare illustre risiedeva sol-
tanto in Firenze ; ma era comune a tutte le
città d'Italia. «Il linguaggio parlato, scrive il
Gloria, giunto ad essere volgare quasi del tutto
Lei secolo X, si guastò sempre più nella bocca
delle plebi ignoranti, mentre dagli uomini colti
si conservò d'un tipo corretto nella essenza e
nella forma per tutta Itaha». Questo suo pa-
rere egli sostiene con molte e sode ragioni, e
ciò che più mi fa piegare ad esso si è, che
s'accorda perfettamente con quanto dice l'Ali-
ghieri nel suo De vulgari eloquio ^), cosicché.
1) Di questo avviso non è, fra gli altri, Alessandro
Manzoni, il quale in una lettera a Ruggero Bonghi, ten-
tò dimostrare come l'opinione, che Dante, nel De vul-
gari eloquio, abbia inteso di definire, o abbia definito
quale sia la lingua italiana, opinione talmente radica-
358 ALBERTINO MUSSATO
dopo il ragionamento del Gloria, quel libretto
non pare più pieno di sconcordanze e dettato
ta, che non si suppone generalmente che possa neppure
essere messa in dubbio, sia falsa, e conviene col Boc-
caccio, il quale, nella sua Vita di Dante, dice che que-
sti «già vicino alla sua morte, compose un libretto iù
prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquen-
tia dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la
volesse, del dire in rima». Alla lettera del Manzoni ri-
espose con altra il valente G. B, Giuliani, il quale alle
sentenze di Dante, citate dal Manzoni a conferma del
suo asserto, mette in riscontro, con tutta riverenza, al-
tre sentenze dello stesso Dante, dalle quali si discende
a conclusioni diverse. Egli afferma che Dante nel suo
Trattato volle bensì dare specialmente dottrina del dire
in rima, ma che non escluse da cotal benetìzio i Pro-
satori. Dice che sarà il vero che Dante non abbia in-
teso di detìnire quale sia la lingua italiana, ma che non
può consentire nell'opinione che non l'abbia al modo
suo definita di fatto, e che anzi in esso Trattato non
si parli di lingua italiana, né punto, né poco, come
vorrebbe il Manzoni. Gino Capponi scrisse anch'egli al-
cune gravissime parole al suo degno amico Alessandro
sul Concetto di Dante intorno al volgare illustre, la
conchiusione delle quali è che l'Alighieri «scrisse il li-
bro De vulgari eloquio non a vendetta contro a Firen-
ze, ma come colui che le incertezze o insuftìcienze quan-
to all'uso della lingua tentava risolvere, ad essa guar-
dando, come di fuori, per dottrina e speculazione: va-
gante Italiano cercava un Volgare che in nessun luo-
go riposasse , tuttavia ritenendo nello scrivere quel-
lo medesimo che era stato congiungitore de' suoi pa-
renti». 11 Giuliani non ù d'accordo nemmeno col Cap-
poni.
CAPITOLO NONO 359
dall'odio del poeta ghibellino contro la sua cit-
tà natale, come stimarono alcuni, né tanto me-
no indegno del nome di così grande autore.
Che in Padova poi, come in tutte le altre cit-
tà d'Italia, ci fosse un volgare illustre fino dai
primordii della letteratura italiana, ci è dimo-
strato all'evidenza dalle rime di Ildebrandino
Bandino quasi contemporaneo ai poeti di Si-
cilia, del quale parla con onore Dante nel suo
De vidgari eloquio, per essersi quegli «sforzato
partire dal suo materno parlare , e ridursi al
volgare cortigiano ^) ». Contemporaneo a Dante
e, come ritengono alcuni, discepolo a lui, ab-
EglL dice, che per Volgare illustre l'Alighieri vuol de-
notarci la parte più eletta che si riscontra nel proprio
volgare e che, mercè l'arte e la coltura de' Valentuo-
mini, acquista eccellenza, riforbendosi dai rozzi voca-
boli, dalle costruzioni perplesse, dalle varie difettive
pronuncie, dai molti accenti rusticani e da più altre
imperfezioni degli Idiomi, lasciati in balia della plebe.
Questo Volgare -ià\e è il concetto dantesco -ove gli
Italiani potessero avere una sola Reggia, che è quasi la
casa di tutti i sudditi e il diritto comune, dovrebbe
quivi essere prescelto, e indi nobilitarsi e prender no-
me di Aulico o Cortigiano. Se poi l'Alighieri scrisse il
suo libro in latino, ciò è naturale «ove si pensi che gli
dovette parer necessario di prima indirizzarlo ai Lette-
rati, che senza dubbio l'avrebbero sgradito, quando fos-
se stato composto in Volgare».
1) Lib. I. Gap. XIV. Trad. di G. G. Trissino.
360 ALBERTINO MUSSATO
tiamo quindi in Padova Antonio da Tempo,
che scrisse in latino dell'arte ritmica volgare ')
e fu autore di sonetti ^).
Di questi e di altri posteriori , fra i quali
Francesco il Vecchio da Carrara, autore di un
poemetto in terza rima, fa cenno Antonio To-
lomei in un suo scritto : Del volgare illuslre in
Padova al tempo di Dante ^).
E perchè adunque il Mussato non ha pre-
ferito il volgare al latino ? Abbiamo di lui un
sonetto pubblicato dal Nevati, che lo riprodus-
se da un frammento di un codice di Bobbio,
che si conserva nell'Ambrosiana ^). Esso è in
risposta ad uno amoroso di Antonio da Tem-
po. Poiché si tratta di una cosa rara, e per-
chè si vegga come scrivesse in volgare il Mus-
sato, stimo opportuno di farlo conoscere ai let-
tori. I due primi versi sono quasi illeggibili,
per essere guasta la parte del foglio in cui
sono scritti.
1) De rythmis vulgaribus.
2j Vedi gli scritti : Poeti veneti nel trecento di F.
Novali e Rime inedile di Giovanni Quirini e Antonio
da Tempo di S. Morpurgo pubblicati nel Voi. 1. Fase. II
àoiV Archivio storico per Trieste, V Istria ed il Trentino.
3) Questo scritto dottissimo fa parte del libro: Dante
e Padova.
. ■*) Vedi lo scritto citato del Novali.
CAPITOLO NONO 361
R[espo]nsio Al[ber]tini i)
Fora volaro dy spirti y valore
Per.... p[er] le elene 2)
Per la fiumana vostra che fé mene
Bagnar non raro lor de la sua rore.
Gli se segnaro temendo el signore
Che lalma spana for degni ben spene
E che distana qo chel cor distene
Con Man davaro pò par che divore.
Die si non mento di p[er]chò saManta
Amor si forte ver My cho soferto
Con luy contento sempre star con tanta
Voglia che in sorte tal mi trovo Inserto
Ch'io vegno spento et ancor del cor spanta
Da sangue asporte questel vero exp[er]to.
Come di sigila cerchio le disoglia
Amor la tiglia par che del cor teglia 3).
Dopo la lettura di questo sonetto è facile
capire, senza bisogno di dimostrazioni, come il
Mussato non potesse usare la nuova lingua
1) Il Nevati riprodusse fedelmente in tutte le sue par-
ticolarità la grafia del m. s. limitandosi a sciogliere le
abbreviazioni.
2) La lezione di questa parola, scrive il Novati, è molto
incerta.
3) Faccio grazia ai lettori del sonetto di A. da Tempo,
del quale quello di Albertino, com'era legge, ripete le
rime. « La lingua poetica del da Tempo, osserva il No-
vati, ben lungi dall'aver sapore di toscanità, non è che
un miscuglio di idiotismi veneti e lombardi ».
362 ALBERTIXO MUSSATO
nelle sue storie e nella tragedia ^). « Egli, os-
serva il Dall'Acqua Giusti, si sarebbe trovato
tra mani uno strumento più indocile del latino,
non ostante che fosse costretto ad italianizzare
tratto tratto questa lingua d'altri tempi per
manifestare cose nuove e pensieri nuovi » .
Non è dunque fuori di proposito il rimpian-
to di alcuni che il Nostro non abbia sortito
i natali in Firenze ; poiché è indubitato, che
il volgare illustre aveva raggiunto in Tosca-
na un maggior grado di perfezione che al-
trove, come ne son prova gli scritti migliori
dei Toscani di quel tempo, e principalmente
1) In un mio scritto sul libro di Licurgo Cappelletti:
Albertino Mussato e la sua tragedia Eccerinis, che
feci per incarico avuto dalla R. Accademia di Scienze^
Lettere ed Arti in Padova, e che fu pubblicato nel 1882,
manifestai il parere contrario. Studi nuovi e più accu-
rati m'hanno convinto di avere, per lo meno, esagerato
nelle mie conclusioni. Non so poi capire come il Sig. Ugo
Balzani nel suo libro: Le Cronache italiane nel tnedio
evo, Milano, Hoepli 1884, parlando del Mussato, citi in
nota questo mio scritto insieme con quelli del Wychgram
e del Cappelletti, dichiarandoli tutti e tre inferiori al
soggetto. 11 Balzani prende errore. Il mio non è che la
critica di una parte di quello del Cappelletti, della parte
cioè nella quale l'Autore tratta delle opere del Mussato,
che della storica ha rilevato gli errori il Gloria, uomo
competentissimo in materia. Esso non può essere per-
tanto ne inferiore, ne superiore al soggetto!
CAPITOLO NONO 363
la Divina Commedia, nella quale, per la pri-
ma volta,
Mostrò ciò che potea la lingua nostra i).
1) Purgatorio, Canto VII.
APPENDICE
DOCUMENTI
I.
1282, 10 Ottobre. (Autografo n.' 28 e 31.
T. I. dei Documenti della famiglia Mussato,
n.^ 746 nella Biblioteca del Seminario di Pa-
dova).
In nomine D. D. eterni, anno eiusd. nat. mil-
les. ducent. octuages. secundo. indict. decima,
die decima intrante mensse Octubri, Padue in
contracta Caudelonge sub porticu fìliorum q. d.
Viviani de Muxo — Ibique d. Armerina uxor
q. d. Viviani de Muxo et tidrix fìliorum suo-
rum Gualpertini, Nicolai et Viviani - nomine
permutationis - investivit d. Francischinum fil.
q. predicti d. Viviani de Muxo de centrata
Caudelonge de campis decera et novera et di-
midio - Et ex adverso dictus d. Franciscus -
366 APPENDICE
investivit dictam d. Armerinam de carnpis tre-
decim terre vel circa aratoria - iacentibus in
territorio de Supracornio - coherent a mane
heredes q. d. Viviani de Muxo.
Ego Aìhertinus Muxus fil. lohannis Cava"
lerii precoìiis sacri yalatii noi. interfui et ea
que dixerunt dicti 'permiUatores intellexi et jus-
su eorum bona fide scrissi.
IL
De 2^oet?s, sive de Muxatis.
Albertinus Miixatus, qui se fecit poetam, Pe-
trus Bonus notarius, et frater Gualpertinus fra-
tres fuerunt; duo quorum fuerunt filii lohan-
nis Cavalerii, preconis comitis paduani. Fertur
prò ventate quod hic lohannes Cavalerius, uxo-
re grave infirmitate oppressa sub lecto tunc
latitavit, quando sacerdos Sancti lacobi venite
prò audienda confessione peccatorum illius; at
ipse audiit uxorem confitentem, quod Alberti-
nus Muxatus erat fìlius Viviani de Muxo.
Ille recesso, traxit uxorem per pedes usque
in lectum; et ipsa que adultera fuit, de hac
infirmitate mortua est. Albertinus Muxatus fuit
repetitor scolarium, eosque per scolas padua-
nas mittebat : qui catones scribebat venden-
APPENDICE 367
do. Set cum ipse diligenter gramaticam sciens
in palatio paduano conversaretur continue ex
offitiis notane lucrandi causa, sapienti Guil-
lielmo de Dente placebat multum. Et cum una
die Albertinus Muxatus per ante domum Guil-
lielmi Dentis transiret, vocavit eum et quesi-
vit si volebat uxorari. At illi respondenti quod
siC; iterura ait: Ego volo tibi dare unam meam
filiam naturalem et quadringentas libras. Al-
bertinus Muxatus desponsavit Mabiliam, tiliam
naturalem Guillielmi Dentis, et ex ea genuit
fìlium unum Vitalianum nomine, et plures fi-
lias. Vitalianus desponsavit unam filiam Au-
tomi de Cona, divitis hominis. Morto Guilliel-
mo de Dente successit ei Vitalianus fìlius ejus;
et cum eo procuravit Muxatus quod frater su-
us malorum morum maleque condictionis frater
Gualpertinus ordinis cistricensis, de ilio exivit,
et factus est prior monasterii Urbane. Qui, dum
quodam die iret ad hunc suum prioratum, per
Nicolaum de Capitibus Vaccee fuit fortiter ver-
beratus. Hic frater Gualpertinus, manens in loco
monasterii Sancti Pauli di Padua, venenavit sa-
pientem et discretum virum Tobiam , priorem
illius. Qui ob istantiam Vitaliani de Dente fa-
ctus est nunc hujus loci prior. Set cum vacaret
sedes abbatie Sancte Instine urbis Padue, Vi-
368 APPENDICE
talianus de Lemizis prò quatuordecim millibus
libris parvorum fecit fieri hunc Gualpertinura
abbatem nominati loci. Et postquam fuit in pos-
sessione hujus abbatie, ultra duos homines fe-
cit occidi. Filios ex concubinis habuit plures.
Discordiam etiam habuit cum monachis suis,
de quibus duos fecit mori ; et non iniuste, quia
ejus tractabant mortem: videlicet fratrem Hen-
selraum Latronem de Camisano, et fratrem la-
cobum de Mandugavilano.
Tantum est exaltatus Albertinus Aselus, quod
primitus factus fuit potestas ville Lendenarie.
Deturpabatur tunc ejus clipeus uno asello la-
zuro in colore lazuro, Set quum factus fuit no-
bilis civitatis Florentie executor , tunc dimisit
asellum et iterum clipeum suum fecit deturpari,
una dimidietate per longum illius deducta, la-
zuri et glauci coloris. Eo tempore quo primi-
tus facta fuit pax inter Catulum dela Scala et
Patavos, imposuit sibi sertum elere cum alio-
rum doctorum gramatice, dialectice et medicine
consensu : et fecit fieri statutum, quod omnes
doctores nominatarum scientiarum deberent pro-
cessionaliter ire ad domum suam in festis na-
talis domini cum dopleriis. Doctores magni
gramatice, dialectice et medicin hoc statutum
servarunt usque ad cursum annorum domini
APPENDICE 369
MCCCXVIII. Sapiens Zamboniis Anclree cora-
posuit librum unum, cuius composicionem hic
Aselus poeta sibi appropriavit post mortem il-
lius. Et quando nomen poete accepit erant ibi
presentes Paganus de la Turre, episcopus pa-
duanus et nobilis Albertus , dux Saxonie , re-
ctor studii paduani.
III. *)
Posteriorem istis (se. Alano et Guafredo An-
gle) annos supra centum Albertinum Mussatum
patavinum , poetam laureatum ac scriptorem
historiarum habemus. lana enim, poesis, quae
perdiu sopita iacuerat (Cod. iacuerit), paulum
excitata erat, et, uti solent qui somnio pieni
sunt, movere lacertos et aperire oculos cepe-
1) Il Codice Ricciardiano, dal quale è tratto questo
documento, «è un ms. cartaceo, di mano non calligra-
fica del secolo XV, di f. 74 num. antic. Appartenne prima
al Crinito che vi scrisse il proprio nome (f. I. Petri Cri-
niti et amicorwn) poi al Varchi. È mutilo, perchè in
luogo dei XVIII libri di cui consta 1' opera di Secco, non
ne contiene che cinque e il principio del sesto. Di esso
si servì il Mehus che ne trasse le vite di Dante, Petrarca,
Boccaccio da lui pubblicate nella Vita di A. Traversari
(cfr. p. XXXIV Specimen histor. lett. Fior. FlorenticB
MAI pag. 18)» {Nota del Novali)
24
370 APPENDICE
rat. Matrem hic plebeiam, patrem viatorem sibi
ad filami fuisse scribi! ; verum ipse fortunas
parentium, quse nullae magis quam exiles es-
sent, ingenio ejus ac prudentia honestavit. Pri-
ma quidem setate, quas litteras didicisset, pue-
ros erudivit, panemque aliquot annis munere isto
et industria mendicavit. Hoc in statu, et tenuis-
simo statu, tandem et vigesimum annum natus
senem {senene (sic)) patrem amisit, matre vetula,
sorore septenni [septene) uno fratrum trimulo ,
altero adolescente, vivis. Erat philosopbiae opera
daturus, nisi alio deniigrare atque secus quam
animo statuisset flectere ingenium res dome-
stica ac presertim borum alendornm cura et pie-
tas coegisset. Itaque sarcinis bis onustus, tabel-
las scriptitare primum, inde, lege patria eru-
ditus, patrocinari in caussis coepit. Erat qui-
dem sibi prseter literas^ ingenium bonum ac pru-
dentia qusedam et facundia naturalis, ut sine
metu se vel doctoribus adsecquaret. Opibus (ac
(?)) diligentia et artificio cumulatis , vix jam
maturus gravis et sapiens celebratur ista in
civitate, qu8e libera tu ne et popolosa esset ; ne-
que domi modo, verum etiam foris virtus ejus
et fama audita est: Florentise quidem, liberse
ac potentis in terra italica [italia) urbis, Exe-
cutor lustitise (sic appelant magistratum) fuit.
APPENDICE 371
Quocumque in loco esset, miiltuin honoris ac
venerationis addebat metri faciendi ars, quam
tenellus retate, ut solent pueri, primis studiis
percepisset et multa cum gratia uteretur ac
scriberet. Eodemque loci venit quod, rebus edi-
tis, quse nomini suo inscriptae essent, ex sen-
tentia peritorura et maxime Lovati, cujus au-
ctoritas et scientia magna et Celebris haberetur,
Mussatus hic noster multo conventu, multo ap-
paratu, multa pompa, uti civitas hsec literarum
prope genetrix et alumna [ahma) resque ipsa
perdiu intermissa deposceret, poeta laureatus
est.
Scriptorum ejus traga3dia est Ecerinis inscri-
pta: opus certe egregium et laude poetse dignum ;
libro {libero) altro Ecerino natum [natum na-
tura) Proserpina et Plutone fìnxit. Is enim sse-
vissimus tyramnus proxirais ante annis crude-
lissimo dominatu patavinam urbem et omnem
lume Italise tractum oppresserat ; itaque libe-
rati tandem populi^ quos depulissent fratres
[fratris] Ecerinum et Albericum, Plutonis {Flu-
tionis) fìlios vocitarunt (vocitare). Ilinc poetse
materia utriusque operis scribendi orta. Sunt
prseterea libri ejus, soluta dictione et delimata,
scripti rerum quas Henricus septimus in Italia
gessit: quasne, postea quam Csesar vita defun-
372 APPENDICE
ctus est, (esse) Italia fecit. Hanc omnera rem
Mussatus noster libri uno et triginta comple-
xus est. Praeterea De Natura et Fortuna, De
Casihus fortuiti?.. De vita ejus ac moribus li-
bro ceque uno dixit.
Muneribus autem in populo ac legationibus
prseclaris et ad pontificem maximum et ad
Csesarem functus, imperitabat, quem ante pau-
lum nominavi, Henricum septimura, apud quem
ob facundiam eius ac prudentiam tantum gra-
tiae ac benignitatis invenit, quod buie civitati
suse, quse novo Caesari aliena videretur et su-
specta esset, liberam pacem ac, praìter omnium
spem, amplas libertates et lata privilegia im-
petraret. Sed Padua urbs antiqua, ne quemad-
modum alias deciperetur, metu ducta et factio-
ne varia primatum et plebis infecta, non modo
non probavit sed sprevit derisi tque quse poeta
multo studio et industria prò salute publica ira-
petrasset.
Proinde, stomacbato Caesare, civitas haec
quae neque parere vellet neque adversari pos-
set, mox Vicentiam , civitatem sibi vicinam et
vectigalem, inde Rhodigium {Rhodiginum) et
reliquas, quse su£e dictioni oboedirent (anni su-
pra centum in prsesentia non multi sunt) uno
fere simul et libertatem prorsus amisit, ut quae
APPENDICE 273
dominari consuevisset, deinceps alieni iuris fa-
cta parere didicerit (didicii) et coacta sit. Pos-
tea vero, profligata patria atque destructa {dis-
tructa) republica , in qua versari multo cuni
honore et dignitate consuevisset, rebus adver-
sis cessit et, quod reliquum vitse fuit, iam se-
nex literis Clugise moratus dedit.
IV.
1306, Settembre 20, Ind. IV. Nel Consiglio
Generale dei CCC e speciale dei XC e delle
Capitudini delle XII arti maggiori, convocato
per mandato del potestà Gante Gabbrielli da
Gubbio, si elegge siudaco e procuratore del
Comune di Firenze Ser Restoruni Bencivenni,
cittadino e notaio fiorentino, assente ad com-
'parendum prò ipso Coni. Fìorentiiio coram do-
minis Fotestate Civ. Padue ejiisque iudicihus
7nilitibus et officialibus, ac etiam dorninis An-
cianis et aìiis Regiminihus Consdiis et Comu-
nis civitalis predtcte et ad opponenduìà dicen-
dura et protesianduiu quod peì^ ipsum Comu-
ne Padue rei aliquod regimen seu offìcialem
dtcti Coiiiums ad petitioìwm dominorum Vi-
ctaliani de Lemicis, Anthonii de Tempio, Belo-
ni et Bonamentis fratrum condam domim's
374 APPENDICE
Vendraniis, Zavini condam lustinelli de Villa,
Albertixi Muxacti_, Alberti D. Bocii A fino
et Patti condam Zamboni, civium ejusdem Civ.
Padiie vai alicuius eorum seu aliorum quo-
rumcumqae represallie concedi non debeant
contra Cora. Fior, seu cives et districtuales
ipsias ; e a trattare e agire ecc. in giudizio e
fuori di giudizio. In Firenze nel palazzo del
Comune. Rog. Guido Capponus q. d. Bonin-
segne, notaro modenese, scrittore dei consigli
del Comune di Firenze.
V.
(Predelli R. I libri commemoriali della Re-
pubblica di Venezia. Venezia, 1876 T. 1, n. 476)
«1311 ind. IX, Aprile 15 -e. 162t.'^-^t/ eter-
nam rei memoriam: si nota che il venerdì
santo Baiamonte Tiepolo, della casa di Tiso da
Camposampiero (in Padova) ove alloggiava, si
portò a quella di Albertino fratello del fu Boni-
facio e" di Marsilio da Carrara, ove solevano
radunarsi i partigiani del Camposampiero, che
convenuti ivi Iacopo ed Albertino da Carrara,
Enrico Scrovegno, Marsilio Polafrisana, Mac-
caruffo e Bernabò de' Maccaruffì, Freo Malizia,
Mussato fratello dell'abate di S. Giustina, Al-
APPENDICE 375
bertino Mussato '), due figli di Zilio de' San-
guinacci , Pietro degli Alticlini , Rolando da
Piazzola, Matteo Filarolo, due inviati di Riz-
zardo da Camino , Nicolò e Giovanni chierico
figlio di Turino Querini, due frati neri ed al-
tri. Baiamente chiese aiuti per vendicarsi di
Venezia, e quindi partì rimettendosi a quanto
farebbero gl'inviati del da Camino ; che questi
appoggiarono la dimanda ; che lo Scrovegno si
offrì con 800 persone ; che Maccaruffo figlio
di Ziliolo consigliò prudenza ; che Matteo Fi-
larolo stette per l'azione, onde rinforzare il par-
tito che aveva dominato per 50 anni, ma che
ora, per la defezione di casa d'Este e la di-
scesa dell'imperatore, trovavasi indebolito ».
V. Tentori, il vero carattere ec. 89 -Ro-
manin St. doc. III, 43, riferisce questo docu-
mento V()]t;tro ili italiiìao^-
1) Se non è corso errore nell'originale, dovremo dire
che in compagnia di Albertino sia intervenuto anche
Pietrobuono, parimente fratello dell'abate di S. Giustina.
[Nota del Gloria]
376 APPENDICE
VI.
1323, 2 giugno (Autografo 4, 5933, Ar-
chivio Diplomatico nel Museo Civico di Pa-
dova).
In Christi nomine amen, anno eiusd. nat.
milles. trecent. vigessimo lercio, indictione sex-
ta die secundo raensis lunii Pad. super sala
magna episcopalis curie Paduane. presentibus
reverendo viro d. fratre Guidone Dei gratia
Vangadiciensi abbate, d. lohanne de Campo S.
Petri d. Albertino Miixato poeta et ystorio-
grafo Faduano et d. Marsilio de Cararia omni-
bus testibus et aliis. Strenuus et magnificus d.
de Conradus de Oufenstain civitatis Pad. et di-
strictus capitaneus generalis ac ducatus Ka-
rinthie marschalchus- statuii -quod ad laudem
divini nominis et sui sancii gloriarn beati Pe-
tri martiris gloriosi ordinis predicalorum, in cu-
ius feste inter Paduanos fuit pax et unio con-
sumata et ut premititur divinitus roborata et
ad perpetuam memoriam Sancte Pacis sancte
Pacis {sic), quod ipse d. capitaneus Paduanus
seu locum eius tenens vel vices gerens, domi-
nique Potestas. Anziani, omnesque Galstadiones
fratelearum et cura offìcialium nunc in octava
APPENDICE 377
■festivitatis eiusdem S. Petri et in festo suo dein-
ceps perpetuo singulis annis, dum celebrabitur
missa, accedere personaliter debeant ad eccle-
siam sive locum S. Augustini fratrum predica-
torum de Padua ad altare predicti S. Petri in
eius honorem in dieta ecclesia stabilitum ibi-
que offere et illam impensis communis Padue
oblationem portare que videbitur dominis Anzia-
nis et quindecim Gastaldionibus et in eorum
discrecione et determinatione. Et quia propter
deffectu pecunie in communi dieta oblacio ad
presens forte fieri non potest seu non poterit
condecenter. quod in futurum per unum men-
sem vel quindicim dies vel circa ante dictum
festum prout priori vel fratribus conventus Pa-
duani dicti ordinis expedire videbitur. propona-
tur inter dominos Anzianos et quindicim Gastal-
diones de qualitate et quantitate diete oblacionis
et secundum quod videbitur malori parti eorum
procedatur et fìat. Quam propositionem d. po-
testas Padue vel eius vicarius sub pena sacra-
menti facere teneatur. quam si non fecerit ad
terminum predictum, tunc index Ancianorum
sub pena juramenti hoc proponere teneatur. Et
quod festum eius de cetero in Padua et districtu
solemniter celebretur et celebrari mandetur. et
fiat per regimen civitatis Padue. eiusque nomen
378 APPENDICE
in numero sanctorum. qui clebent celebrari. tam
volumine statutorum communis Padue, quam
in matriculis fratalearum populi Paduani. et
presens reformacio ponatur et scribatur. Quod
quidem fecit dictus d. Capitaneus actenus ad
reformacionem dominorum Ancianorum et quin-
decira Gastaldionum. in milles. trecentes. viges.
tertio. indie, sexta die quarto measis Madii.
Scriptum per Petrimi noi. dictoriim dominorum
Anziano7^um ^].
Ego Franciscus fil. d. Natalis net. de Hem-
bertis - not. publicus - scripsi .
VII. ')
1340, 19 settembre (Autografo n"T139 Arch.
Diplomatico nel Museo Civico di Padova).
In Christi nomine amen. Anno eiusd. nat.
mill. trecentes, quadrages. indict. octava. dies
martis decimo nono mensis septembris Pad. in
1) Queste parole sottosegnate furono scritte in carat-
tere più piccolo dalla stessa mano probabilmente nel
giorno 4 maggio. {Nota del Gloria).
2) Questo documento è il XIV dei 'Documenti inediti
intorno a Francesco Petrarca e Albertino Mussato rac-
colti dal Prof. Andrea Gloria. Voi. VI. Serie V degli Atti
del R. Istituto veneto di scienze^ lettere ed arti, Ve-
nezia 1879.
APPENDICE 379
episcopali palatio-cum q. dominus Alhertinus
Mussatus dictus poeta q. d. lohannis Cavalerii
de Padua in suo ultimo testamento et ultima
voluntate legaverit certa legata ad pias causas
et in pios usus. quorum legatorum distributio
et dispensatio ad reverendum patrem d. episco-
pum Pad. spectat et pertinet de jure. quorum
legatorum quantitas erat et est librarum sexcen-
tarum et sexaginta sex denariorum parvorum
prout de predictis constat publico instrumento
testamenti predicti scripto Clugie per Felicem
Cavopey de Gingia Venetum not. a me Uberto
not. infrascripto viso et lecto. Et reverendus in
C. pater et d. d. Eldebrandinus permissione
divina epis. Pad. volens anime predicti q. d.
Albertini-salubriter providere. cupiensque ipsa
legata exsequi. terras et possessiones infrascri-
ptas retinuerit et adiudicaverit ac assignaverit
ad opus predictura et executionem ac solutionem
predictorum legatorum usque ad quantitatem
librarum quadrigentarum denariorum parvorum.
Prefatus d. epis. volens. legatis predictis ad
pias causas et in pios usus relictis distribuere
et dispensare infrascriptas terras et possessiones
prout ex oflicii sui debito de jure tenetur. con-
sideransque bonitatem et inopiam ser Johannes
Tescharii q. David de centrata Savonarole de
280 APPENDICE
Pad. tanquam benemeriti et soliciti ac dispositi
ad opera pietatis locisque et personis religiosis
miserabilibus et pauperibus serviendum et iuxta
posse providendum titillo et nomine pure, mere
et irrevocabilis donacionis-dedit. cessit. tradidit
atque mandavit provido et sapienti viro d. Alear-
do q. d. Galvani de Baxiliis de contrata sancti
Antonii confessoris de Pad. et mihi Uberto not.
infrascripto taraquam publice persone stipulan-
tibus et recipientibus nomine et vice predicti
magistri lohannis ac prò ipso et eius heredibus
terras et possessiones infrascriptas de bonis et
hereditate q. d. AìherUni Mussati. In primis
in et de possessione quatuor mansorum terre
vel circa posita in villa Cone.-Item una pecia
terre aratorie quatuor camporum vel circa ia-
cente in districtu Vacharini-coheret — a nuUora
jura q. d. Mahilie uxoris d. Mussati poeto —
.Item una pecia terre quatuor camporum vel
circa iacente in districtu Vacbarini-coheret —
a meridie jura d. Mussati.
Ego Ubertus fil. d. Bartholomei notarli im-
periali auctoritate notarius hec scripsi.
APPENDICE 381
Vili. ')
1329, 9 luglio. (Autografo n" 4338, Arch.
Corona nel Museo Civico di Padova).
In C. nomine amen, anno nat. eiusd. milles.
trecentes. viges. nono, indicione duodecima, die
nono mensis lulii Pad. ia monasterio S. Stepha-
ni- Religiosa et honesta d. d. Richolda Dei
gratia monasterii et conventus S. Stephani de
Pad. abbatissa - titulo et nomine locationis usque
ad quinque annos - locavit Paulo monario q. Co-
radini-unum molendinum seu postam molendini
positam Padue in campo [sic) pontis moiendi-
norum in secunda piarda cum una domo de li-
gnamine - cui molendino et poste ipsius coherent
ab uno capite versus pontem molendinorum et
versus sero molendinum q. d. Aìhertini Muxatl
poete. ab alio capite versus mane molendinum
Francisci specialis qui fuit de Pistorio-Pro
cuius locacionis afictu dictus Paulus monarius
per se suosque heredes promisit et convenit per
pactum speciale dare, solvere -annuatim-modia
1) E il XII dei Documenti inediti ecc. raccolti dal
G loria.
382 APPENDICE
vigiliti boni, sici et cribellati frumenti ad mo-
dum consueti afictus molendini. solvendo omni
septimana prò rata de dicto afictu - et annuatim —
unam coxam de manzo ponderis librarum tri-
ginta septeni carnium et imam libram piperis
integri et unam librarum (s?c) candellarum de
cera et ad festum carnisprivii unum par de bo-
nis caponibus. et ad festum assensionis d. nostri
I. C. unum bonum castronem. et ad festum S.
Martini unam bonam luntiam de porco ponderis
librarum vigintiseptem carnium -Facto -firmato
quod si casus accideret quod absit quod aqua
per inimicos et hostes communis Padue occa-
sione guerre acciperetur-qua occasione dictum
molendinum mazinari non posset. tunc eo tem-
pore prò rata usque ad plenum discursum ipsius
aque. ut prius discurrebat et vagabatur. ad
solutionem dicti afictus prò rata minime teneatur.
Ego Paschalis fil. d. lohannis de Burgoricho-
sacri palacii not. scripsi.
IX.
1330, 13 agosto. (Autografo n° 3, T. II dei
Documenti della famiglia Mussato n° 746 nella
Biblioteca del Seminario di Padova).
In nom. D. D. eterni anno eiusdem, nat. mil-
APPENDICE 383
les. trecent. triges. indictione terciadecima. die
lune, terciodecimo mensis Augusti Pad. in co-
muni palatio - Nicolaus Sachetus q. d. Lauren-
tii Sacheti - ante solucionem sibi factam dedit.
cessit-d. Gualpertino Muxato q. d. Viviani
de Muxo omnia iura omnesque raciones - quas
habebat-ex iure sibi cesso a domino Lauren-
cio Sacheto-ut continetur in carta iuris et ac-
tionis - centra d. Tulchum q. d. Parisii de Mu-
ris-principalera debitorem et centra -d. Aì-
bertinum Muxatum not. q. d. lohannis Ca-
valerli a S. Paulo fidejussorem et centra eo-
rum heredes.
Ego Simeon not. q. d. Antoni not. scripsi.
X.
1310, 28 gennaio. (Autografo n. 51, T. Ili
Documenti Mussato n,° 746 nella Bibl. del Se-
minario di Padova).
In nom. D. D. eterni anno eiusd. nat. mil-
les. tricent. decimo indict. octava die viges.
octavo mensis lanuarii Pad. in com. palacio. -
D. Fulchus q. d. Parixii de Muris de centrata
S. Leonardi principalis - i). Gualpertinus Mu-
xatus q. d. Viviani de Muxo de centrata Gau-
delonge-et d. Albertinus Muxatas not. q. d.
384 APPENDICE
lohannis Cavalerii a S. Paulo fìdeiussores -con-
fessi fuerunt se mutuo accepisse et in se ha-
bere a d. Laurencio indice de Sacheto q. d.
Sacheti de centrata S. Andree libras trecentas
et quindecim denar. venet. parvor.
Ego Manfredinus olim Biondi s. p. not.
scripsi.
INDICE
Avvertenza Pag. 3
CAPITOLO PRIMO
Incoronazione di Enrico VII di Lussemburgo in Mi-
lano — Condizioni di Padova in quel tempo — Prima am-
basceria del Mussato all' Imperatore — Nascita di Alber-
tino Mussato — Sua paternità — Strettezze in cui ebbe
a trovarsi dopo la morte del padre — Diviene notaio —
Sposa Mabilia, figlia di Paolo Dente — Viene nominato
cavaliere — Entra a far parte del Consiglio della Repub-
blica — Sua ambasceria a Papa Bonifazio Vili — Guel-
fismo di Padova — Costituzione della Repubblica —
Legge contro i chierici — Gualpertino Mussato abate
di Santa Giustina — Albertino esecutore degli ordina-
menti di giustizia in Firenze — Podestà di Lendinara » 5
CAPITOLO SECONDO
Seconda ambasceria del Mussato all'Imperatore —
Vicenza si sottrae al dominio di Padova — Lotta fra
Padova e Vicenza — I Vicentini deviano il Bacchiglione
a danno di Padova — Progressi dell' Imperatore in Lom-
bardia — Timori dei Padovani — Terza ambasceria del
Mussato ad Enrico — Suo discorso all'Imperatore —
Condizioni imposte da Enrico ai Padovani — Doni dei
Padovani all'Imperatore — La nomina del Vicario impe-
riale — Aimone vescovo di Ginevra — Sua morte —
Quarta ambasceria del Mussato all'Imperatore in Geno-
va — Ritorno in Padova — Il Mussato espone al Senato
l'esito dell'ambasceria. — Nomina di Cangrande a Vi-
cario di Vicenza — Discorso di Rolando da Piazzola al
Consiglio — Discorso del Mussato — Defezione di Padova
all'Impero "33
386
CAPITOLO TERZO
I Padovani si riconciliano col Mussato — Uccisione
di Guglielmo Novello dei Paltanieri — Si vuole la guerra
con Cane — Cominciano le ostilità fra Padova e Cane
— I Padovani tentano di riprendere Vicenza — Assalto
di Marostica — Atto di valore del Mussato — Cane espu-
gna il castello di Mota — Si volge a Camisano — Quindi
a Padova — Viene respinto — Uccisione di Rizzardo da
Camino — Alleanza dei Padovani con Guecello da Camino
— Nuovo tentativo per ricuperare Vicenza — Cane fa
strax'ipare il Bacchigliene — I Padovani lo rimettono nel
suo letto — Assalto di Lonigo — Assedio di Poiana —
Valore del Mussato — Cane devasta il territorio pado-
vano — Viene respinto — Esigenze di Guecello - Oppo-
sizione dei Padovani — Guecello viene cacciato da Tre-
viso — Congiura di Nicolò da Lezzo — Ribellione di So-
limano de' Rossi — Padova è messa al bando dell' Impe-
ro — Si riaccende le guerra con Cane — 11 Conte di Go-
rizia viene in aiuto di Cane — Sconfìgge i Trevisani
sulle vive del Montegano — Morte di Enrico VII . " 75
CAPITOLO QUARTO
Continuano le ostilità fra Padova e Cane — Cane de-
via nuovamente il Bacchiglione a danno dei Padovani
— I Guelfi, in Padova hanno il potere della Repubblica
— Abboccamento fra Bailardino Nogarola, Albertino
Mussato e Marsilio Polafrissana — Pace tra i Padovani
e il Conte di Gorizia — Cane occupa Montegalda — Gli
Alticlini e gli Agolanti — Vendetta di Nicolò ed Obizzo
da Carrara — 11 popolo assedia la casa di Albertino
Mussato — Questi si rifugia a Vigodarzere — Orribili
stragi di quei giorni — Albertino viene richiamato iu
città — Sua invettiva contro la plebe — Il podestà Pon-
zino dei Ponzoni — Canale da Limona a Brusogana —
Tentativo di riprendere Vicenza — Atti eroici del Mus-
sato — Vien fatto prigioniero — Sconfitta dei Padovani
— Proposta di pace — Opposizione di Maccaruffo — La
pace viene sancita — Ritorno del Mussato in Padova —
Sua incoronazione poetica » 117
387
CAPITOLO QUINTO
Nuovo tentativo di ricuperare Vicenza — Sconfitta
dei Padovani — Cane occupa Monselice — Ambasceria
del Mussato a P>ologna. a Firenze, a Siena — Cane si
impadronisce di Este e di Montagnana — Si rivolge verso
Padova — Nuova Pace tra Padova e Cane — I fuorusciti
ritornano in città — Albertino Mussato fugge da Padova
— Giacomo da Carrara eletto principe — Abboccamento
di Iacopo con Cane — Mussato viene richiamato in città
— Cane rinnova le ostilità contro Padova — Ambasce-
ria del Mussato in Toscana — Tentativi inutili di pace
— Iacopo cede la città al Conte di Gorizia rappresen-
tante Federico d'Austria — Tregua con Cane — Cane
tenta sorprendere di nottetempo Padova — Viene re-
spinto — Vittoria dei Padovani — Fuga di Cane — Pa-
ce — Mussato ambasciatore in AUemagna — Il Duca di
Carinzia vicario di Padova — Nuove ostilità di Cane —
Nuova pace — Frate Paolino — Il Duca di Carinzia
scende in Italia — Tregua con Cane — Morte di Iacopo
— Mussato ambasciatore a Lodovico il Bavaro — Tre-
gua con Cane — Morte di Iacopo — Mussato ambascia-
tore a Lodovico il Bavaro — Tregua fra Cane e Padova
— Il Mussato di nuovo ambasciatore al Duca di Carin-
zia e a Lodovico il Bavaro — Congiura di Paolo Dente
— Vendetta di Ubertino da Carrara . . . Pag. 157
CAPITOLO SESTO
Il Mussato esule a Chioggia — È visitato da Marsi-
lio da Carrara — Corrado di Ovenstein vicario di Pa-
dova — I Carraresi lo colmano di doni e di blandizie —
Engelmario di Villandres — Il Podestà Iacopino de' Boc-
chi — Soprusi di Ubertino da Carrara — Corrado da
Vigenza dà l'assalto alla Torre di Curano — Vien fatto
prigioniero e decapitato — Scelleratezza di Ubertino da
Carrara, di Tartaro da Lendinara e di Engelmario —
Lodovico il Bavaro discende in Italia — Cane gli do-
manda il vicariato di Padova — Non l'ottiene — Pro-
lunga di due anni la tregua col Duca di Carinzia — Con-
giura di Nicolò da Carrara — Marsilio ricorre per aiuti
388
al Duca di Carinzia — Coudizione miseranda di Padova
— Nuove scelleratezze di Ubertino e di Tartaro — Con-
gresso a Verona — Discordia fra Marsilieto ed Ubertino
— Marsilio affida sé e la città nelle mani di Cane —
Che pensi il Mussato di questa determinazione — Mar-
silio Signore di Padova — Nozze di Mastino e Taddea
— Mussato fa ritorno segretamente in Padova — Marsi-
lio non acconsente alla sua venuta — Albertino fa ritor-
no in CUioggia — Riceve nuove ingiurie da Marsilio —
Muore Pag. 198
CAPITOLO SETTIMO
Le storie » 243
CAPITOLO OTTAVO
Le poesie minori » 277
CAPITOLO NONO
L' Eccerinis » 319
Appendice " 365
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